lettura

Specchio delle mie trame ( uno straordinario libro di interviste a 10 scrittori italiani)

C’è un tema assai dibattuto in letteratura: in che misura è giustificato l’interesse per la vita di uno scrittore?
Conoscere traumi dell’infanzia, vicissitudini amorose, rovesci economici,disturbi digestivi e difficoltà respiratorie di un poeta o di un romanziere ci mette in condizione di capire ed interpretare meglio al sua opera?

C’è chi dice di si’ , chi dice di no.

Una cosa pero’ è certa: che ricevere informazioni sulla vita degli scrittori – al di la’ delle chiavi di lettura che queste possono offrire o meno sulla loro opera – puo’ essere istruttivo e divertente.

E infatti molto istruttivo e divertente è il libro di Bruna Durante “Specchio delle mie trame“, pubblicato da Mimesi.

Il libro contiene dieci interviste a dieci scrittori italiani : Eraldo Baldini, Gianni Biondillo, Giancarlo De Cataldo,Giorgio Faletti, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Raul Montanari, Santo Piazzese, Andrea G. Pinketts, Gaetano Savatteri.

Dice Bruna Durante:

bru       “Anni fa sono andata con alcuni amici scrittori ad un festival di      letteratura in Francia e lì, lontano da casa, dalla fama (per alcuni) sono emerse le loro vere personalità .
Così ho pensato che sarebbe stato divertente far conoscere ai lettori, le loro vite, le loro famiglie di origine, ciò che pensano della vita in generale, insomma da dove nascono quelle storie, a volte terribili, che scrivono.
Ecco, se il libro è interessante ed emozionante il merito è dei miei amici scrittori.
Io ho solo trascritto ciò che loro mi hanno raccontato confidandomi i loro segreti.”
 

Diciamo subito che Bruna Durante ci sa fare.
In particolare le vanno riconosciuti due meriti: il primo è quello di essere riuscita a creare con gli intervistati un rapporto di grande confidenza ( molti di loro si raccontano a lei come si racconterebbero ad una vecchia amica, di quelle alle quali è inutile raccontare balle perchè, appena lo fai, ti sgamano subito e ti ridono in faccia).
Il secondo merito è che fa sempre le domande “giuste”.
Quelle che noi lettori vorremmo fare.

Ma, come dico sempre, un libro è come un melone, è meglio estrarne un tassello per sapere quanto è buono, piuttosto che guardarlo dall’esterno o palpeggiarlo.Così rimando tutti alla lettura di questo breve squarcio di una delle interviste del libro: quella a Raul Montanari.

E poi ditemi se non è divertente e istruttiva….

Cosa deve avere un libro per piacerti?

Fondamentalmente tre cose: o la scrittura o la storia o i contenuti. Se poi ci sono tutt’e tre ancora meglio.

Aldo Busi per esempio è uno scrittore di scrittura perché quasi non racconta storie, infatti è impossibile fare film dai suoi libri: se togli la scrittura ti rimane poco da trasportare al cinema.

Niccolò Ammaniti è uno scrittore di storie, ha fatto un grande e intelligente lavoro di sottrazione nella scrittura che caratterizza il suo stile veloce, ma è evidente che il lettore di Ammaniti è più interessato alla storia che non alla scrittura, infatti i libri di Ammaniti possono diventare film.

Poi ci sono libri e autori in cui c’è poca scrittura, poca storia ma viene detta una cosa talmente importante, talmente forte che quel libro vale la pena di leggerlo comunque, come per esempio il primo libro di Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, bruttissimo, con una storia assurda, personaggi insopportabili e una scrittura sciatta senza ancora la finezza che l’autore ha poi acquisito ma con un concetto molto originale che non avevomai trovato messo al centro di un testo narrativo con la forza con cui lo fa Houellebecq. 

Lo scopo dello scrittore è quindi quello di comunicare un’impressione che non si potrà più dimenticare?

Tutti gli scrittori sognano di riuscire a scrivere almeno un libro indimenticabile.

Per farlo ci vuole bravura, coraggio e anche fortuna ma soprattutto bisogna saper imitare il reale perché la natura fondamentale del raccontoè l’imitazione della realtà, non quella quotidiana però.

Con i mattoni del reale si costruiscono edifici narrativi che nella realtà non esistono e per questo sono così interessanti da abitare sia per lo scrittore sia per il lettore.

Anche i Formalisti russi sostenevano che l’operazione fondamentale del narratore non è raccontare la storia, ma restituire al lettore il mondo comese il lettore lo vedesse per la prima volta. 

Gli scrittori allora riescono a vedere il lato oscuro dell’umanità che gli altri non vedono?

Innanzitutto lo scrittore deve conservare lo stupore che hanno i bambini, riuscire a vedere le cose con uno sguardo vergine.  

Goethe diceva che bisogna conservare la capacità di meravigliarsi, che poi è la teoria sartriana de La nausea.

Poi ti dò due risposte: la prima è che ci sono un sacco di persone che hanno la stessa sensibilità degli scrittori, a volte anche superiore ma la differenza tra uno scrittore ed una persona che non lo è risiede nella capacità espressiva: sentire sentiamo tutti, il problema è scrivere.

L’altra risposta è che sicuramente – come diceva Thomas Mann – lo scrittore deve avere nei confronti della vita e delle esperienze che fa, che sono più o meno uguali a quelle degli altri, una distanza di osservazione in modo da poter adoperare poi quelle esperienze nella narrazione. 

Vuoi dire che lo scrittore vampirizza la propria vita e quella degli altri?

Esatto, ed è anche un vampiro schizofrenico.

La metafora perfetta del rapporto dell’artista con la propria vita non è in un libro ma in una scena del film Amadeus di Milos Forman: Mozart, tubercolotico, alcolizzato, torna a casa una mattina dopo aver gozzovigliato con gli attori con cui lavoraa Il Flauto Magico e si accorge che sua moglie Costanza se n’è andata portando con sé suo figlio.

Disperato, fa la cosa più umiliante per un uomo che è quella di andare in ginocchio da sua suocera, quella terribile suocera grassa con la faccia da Austriaca che quasi non lo fa parlare e lo aggredisce gridando:”Tu sei un mostro, un mostroooo!!”, ma mentre la suocera urla si vede Mozart che guarda la bocca della suocera inquadrata sempre più da vicino, e improvvisamente i suoi strilli diventano i gorgheggi sublimi di un’aria della Regina della Notte ne Il Flauto Magico.

Ecco, Mozart è lì nella merda più totale, eppure trasforma la merda in capolavoro. Anche a me è successa una cosa analoga. 

E cioè?

Stavo con una ragazza che mi piaceva molto, litighiamo e lei mi dimostra che sono un pezzo di merda e mentre l’ascolto, disperato, c’è un angolino del mio cervello che pensa velocemente: ”Mmh, perfetto, questo è ottimo per il dialogo tra X e Y che devo mettere nel capitolo quattro”.

Finiamola con questo pane fatto di terra!

L’ARTE COME TERAPIA.

Un progetto editoriale curato da Federico Berti in collaborazione con la Fondazione Santissima Annunziata, nel comune di Firenzuola (Fi). Consiste nella programmazione di attività culturali negli istituti di cura, si pone come obiettivo di stimolare la creatività e il senso critico nel paziente affinché possa rompere l’isolamento e affrontare con maggior serenità e consapevolezza il disagio fisico o mentale, migliorando così il suo stato di salute. Il prodotto finale sono delle pubblicazioni realizzate dagli stessi ospiti e divulgate fuori dalla struttura.

AA.VV.La lira non c’è più, è scoppiata, a Montecitorio hanno detto che abbiamo bisogno di aiuto dagli altri paesi, chissà forse sono più in gamba. Ma è tanto che lo dicono.

La Germania non ne dà, è grossa e grande si sente la padrona e li tiene tutti per sé. Non è un po’ vero? Io me lo chiederei. Quindi si risolve coi nostri soldi.

A pagare in realtà sono i poveri, perché per i ricchi tutto è facile, tanto hanno i dollari e non se li lasciano scappare, io di pensione tiro meno di cinquecento euro e la Asl fa quello che può. Alla radio poco fa hanno detto che l’euro è in calo, ecco perché succede la crisi in tutto il mondo, e ne succederà ancora che fanno la ribellione, vanno in città coi cartelloni e dicono: “Finiamola con questo pane fatto di terra! Aiutateci, qualcuno che ne ha”. Io dico finché ce n’è sto qui, poi quando non ce n’è più si va tutti per la strada…

Altro che a dormire, per la strada ci vado a urlare. Pensa tutti questi deputati si sono affacciati alla finestra e vedevano i cartelli, “Abbiamo fame!” Vogliamo i soldi. Si perché c’è da pagare anche i camini, l’erba, la verdura, la legna, sai quanti soldi vanno via? A Montecitorio sono tutti ricchi, hanno un portafogli grande così mentre quelli vanno a fare i festini colle donne: noi siamo pacifisti, chiediamo un po’ di giustizia. Magari li mandiamo tutti a casa, poi due schiaffoni e a letto senza cena.  Sai che mi piacerebbe, dargli la pensione che prendiamo noi, come diceva quello: “I bovi fanno le vacche, gli alzano la coda e leccano le chiappe!”.

Per esempio questo che ci hanno messo adesso non è mica politico, è solo economico, poi avrà anche lui le sue pecche ma fra un po’ vogliono che paghiamo anche il nostro respiro, siamo mica imbecilli noi queste cose le capiamo, ci siamo passati!

Bisogna stare attenti perché è molto grave, si rischia il crollo mondiale e alla fine ci ritroviamo in rivoluzione, la mia nonna diceva che è tanto brutta perché ai suoi tempi l’ha vissuta , si ricorda la gente che bolliva l’olio e lo buttava di sotto dalle finestre; sarà stato del millesettecento, anzi no se la mamma era dell’880 allora sarà di poco prima, il Risorgimento, via.

Lei diceva sempre: “Che brutta è la rivoluzione mamma mia, muoiono tutti!”. Speriamo di no.

VAI AL SITO DELLA FONDAZIONE SS. ANNUNZIATA

Acquista il libro “Evviva l’allegria!”, scritto dalle autrici di questo articolo.

Prezzo: 8 euro

Per ordinare il libro tel. 329/1017544

 ( articolo originale qui )

Amore a prima vista… come in una vera storia d’Appendice

  • La vendetta della Sepolta viva di Rosaspina di Belvedere

    Giusy Pieragostini

    Intervista all’Editora Sandra Giuliani

    “Amore a prima vista… come in una vera storia d’Appendice.

    Ho incontrato questo libro grazie all’Agenzia letteraria Il Menabò con la quale collaboro svolgendo il ruolo di lettrice: uno scambio di competenze che mi consente di annusare la qualità dei testi che circolano, già filtrati da un occhio esperto.

    I lettori consulenti sono tenuti a scrivere una scheda di valutazione che individui i pregi e i difetti del testo suggerendo all’agente, dove è possibile, anche la casa editrice papabile ad accoglierli o fornendo i criteri per una risposta più evasiva se non del tutto drammatica: va riscritto, è impresentabile.

    La Sepolta viva di Rosaspina di Belvedere” è uno di quei testi che ti auguri come lettore (senza aggettivi) di incontrare e che come editore vorresti essere proprio tu a pubblicare ereditando, per proprietà transitiva, le qualità che possiede.
    L’ho letto e l’ho amato. Soprattutto ho riso. Non perché fosse comico: graffia con la sua ironia. E devi trattenerti nel pensare che tutto sommato quella donna sgangherata, brutta e sognante, se ti mettessi allo specchio, potrebbe causarti un balzo di riconoscimento e che quell’anima inquieta che vive dentro di lei alla fine non è molto diversa dall’inquietudine di gloria che all’identico modo seppellisci in finta umiltà quando i sensi di colpa atavici non ti mordono il collo per conto loro aiutandoti a soffocarla e a seppellirti nello stesso tempo.

    Perché la creatività è un problema. Le donne devono servire a qualcosa (e qualcuno usa il verbo per diventare un “uomo di riordino” con molta facilità anche senza apparire con la veste azzurra del principe). Devono servire cioè essere utili e se è utile rassettare la casa, pulire l’insalata… leggere e scrivere sono atti illeciti.

    Leggere ammala perché ti estranea dalla realtà (e come Don Chisciotte la madre della Rosaspina si consuma letteralmente di letture e si dissolve).
    Scrivere è un compito che non trova mai spazio né tempo ma soprattutto autorizzazione interna anche se è proprio da quell’interno che la Sepolta viva reclama il suo diritto a un’esistenza.

    E fin qui tutta la gamma dell’anti-eroismo e dello squallore mediocre della commedia umana, femminile e maschile, è ben citato ma poi arriva il colpo di genio: l’invenzione di un Angelo che custode non è ma Sterminatore… perché questo nell’alto dei cieli è stato stabilito per vegliare sulle femmine.
    Rido. Con un’amarezza tale che se non mi aggrappo all’ampollosità della lingua che descrive il tutto mi lascerei cadere sfranta proprio come la casalinga che vorrebbe scrivere il Grande Romanzo votando la pattumiera e insieme tutti i sogni di essere qualcuno (o qualcosa).

    Le parole per dirlo: una questione che disegna la rotta infinita di ciò che lettura dopo lettura, epoca dopo epoca, diventa Letteratura: lo stile. Quella mano felice che colloca le parole al posto giusto, che le ripesca dal vocabolario dei libri già scritti – letti e interiorizzati – e prendedole in prestito restituisce loro una nuova vita. Parole, sintassi, strutture del discorso che improvvisamente sorreggono il mondo e lo stupore del mio io gramnmaticale si fa enorme, enorme e grato.

    Questo succede a una lettrice (senza aggettivi): stupirsi.
    Questo pensa la lettrice consulente di un’agenzia letteraria: voglio per me questo libro, perché sono un’editora.
    Poi incontro l’Autrice: Giuseppina Pieragostini. E ovviamente la incontro nel posto giusto: alla Fiera del Libro di Roma.
    Lei sa che sono io la “recensora”: ha letto la mia scheda e ha voluto incontrarmi.

    Io ho rivelato a il Menabò che l’avrei voluta come scrittrice ma non avevo il coraggio di dirlo: cosa potevo offrire a un talento così?
    Poi lei è arrivata, con un dono: cioccolatini.

    Io adoro il cioccolato.
    “Chocolat” è il mio film preferito, che mi concedo quando cerco magia.
    E così abbiamo iniziato un’altra storia: quella che ha che fare con la vita di un libro.”

    www.ilcasoeilvento.it

TERRA BARBARA di Irene Iorno

TERRA BARBARA di Irene Iorno

autobiografico –

edito da “il caso e il vento di Sandra Giuliani” novembre 2011

Si vive distratte, certe che il mondo che ci circonda o quello fantastico e personale non vadano mai via e poi lentamente tutto si sgretola o diventa inaccessibile o diventa impossibile abitarlo.
La vita allora si trasforma, in questa lentissima e inesorabile perdita, in un tentativo di adattamento e anche di conquista di qualcosa di completamente diverso: noi.

… La storia di Irene Iorno è il diario di una malattia che sgretola l’identità e di come la reinvenzione di se stessa costruisca un metodo clinico di resistenza che coinvolgerà anche i medici facendo della sua storia uno strumento terapeutico.

Ci sono resistenze e illuminazioni nella sofferenza che sono un inno alla vita. E vanno condivise non solo con chi conosce il dolore ma soprattutto con chi, come noi, vive distrattamente pensando che tutto quello che ha e che è non cambierà mai.

“E se cercare è sempre stata l’unica cosa che mi è riuscita meglio fare, allora scelsi di usarla tentando di trasformare la mia giornata in una serie di giochi da compiere che, messi insieme, dopo anni mi furono riconosciuti con l’espressione di costante riabilitazione…”

Un libro che ama la vita. E l’amore, vero, non grida

www.ilcasoeilvento.it

Irene Iorno:

È nata a Roma nel 1976, artista e giornalista pubblicista, socia dell’Associazione Il Paese delle donne, terminati gli studi classici frequenta un corso di Pittura e ottiene le qualifiche di Disegnatrice Autocad e di Graphic Design. Nel 2005, nell’ambito dell’indirizzo Arti Visive e Discipline dello Spettacolo (tesi in Regia), consegue la laurea in Pittura e due anni dopo la specialistica in Scultura. Artista di sorprendente intensità, Irene Iorno si è cimentata in tutti i settori dell’arte, dai dipinti ai disegni, dalle incisioni alle fotografie, alle installazioni sino ai videoclip, con una profonda attenzione al femminile, e per le sue opere è stata premiata in numerose manifestazioni d’arte contemporanea.

Roberta Alunni ci racconta Alda Merini


Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita”. E’ una sacrosanta verità. Eppure c’è un segreto per saperli leggere, incontrare, raccontare, scrivere. Roberta, classe ’77 di Mercatale, conosce il segreto.

L’”io” in scena è quello di Alda Merini, la più grande poetessa vivente. E’ nata a Milano il primo giorno di primavera del 1931, e questo risveglio delle stagioni se lo porta addosso, come un destino.

E’ la prima monografia su questa donna così forte e così unica nel panorama letterario italiano, perché autentica, allo stesso tempo classica e modernissima, con un gli occhi pieni di una vita densa e una leggerezza personalissima.

Roberta Alunni ci racconta Alda Merini con attenzione, con una cura al dettaglio della parola e del verso, che diventa stile.

Si muove con la ricercatezza di critico letterario cercando però di riempire di umanità, di passione, di poesia quelli che i considerano canoni accademici per produrre un ritratto letterario. Roberta sa che sta parlando di un genio, di quelli irripetibili, di quelli fuori dal tempo eppure sempre attuali, vicini alle miserie comuni, anzi che le sublimano in un una strofa, in un verso delicato e carnoso al tempo stesso.

Questo lavora inizia dalla una tesi universitaria, quando, ventiquattrenne assetata di parole e prospettive diverse, incontra Alda Merini a Milano, in un bar davanti ai navigli, a giugno. Era il 2001, sono passati già otto anni e quella ragazza è diventata donna ma quella sete non l‘ha mai abbandonata.

[…] perciò tu che mi leggi/ fermo a un tavolino di caffé,/ tu che passi le giornate sui libri/ a cincischiare la noia/ e ti senti maestro di critica,/ tendi il tuo arco/ al cuore di una donna perduta./ Lì mi raggiungerai in pieno”

Quella prima intervista è cresciuta con lei. Roberta ha lavorato a Milano, alla Rizzoli, e continua a collaborarvi, ha incontrato ancora la poetessa, ha affinato la sua capacità di critica… Da qualche anno collabora con la professoressa Enza Biagini della facoltà di lettere dell’Università degli Studi di Firenze, questa collaborazione l’ha spinta a riprendere in mano questo progetto che è diventato libro, inaugurando la collana “Il genio femminile. Ritratti e istantanee”, diretta dalla stessa Enza Biagini e da Ernestina Pellegrini e sostenuta da Alessia Ballini, Assessore alle Pari Opportunità della Provincia di Firenze.

E’ la storia di una vita, di un genio più forte degli eventi di una vita difficile. Ma è anche la storia, meno dichiarata, di due donne “A trent’anni i muore d’amore. A sessanta di lunghe attese”. Il libro si chiude con un’intervista, in cui l’autrice con discrezione lascia la scena alla poetessa, sapendo che le parole dei poeti forse non ci salveranno ma ce lo fanno credere come incantatori di serpente.

La pubblicazione è impreziosita dalle fotografie di Giuliano Grittini, che è legato alla poetessa da profonda amicizia oltre che da un rapporto professionale, che ha portato a ritratti che rispecchiano l’esigenza poetica della Merini: l’essenza del vivere e a volte del resistere. Lo stesso in cui è riuscita Roberta.

Il segreto. “Io vivo nell’aperto dell’anima”.

Autore: Roberta Alunni

Titolo: aldamerini – L’”io” in scena

Casa editrice: Società Editrice Fiorentina

Città: Firenze

Anno di edizione: 2008 Pp. 188

Albano Ricci

Maledetto Sanmartino, il nuovo libro di Kiro Fogliazza

Giovedì 11 novembre alle ore 17,15 nella Sala Bonfatti della CGIL di Cremona in Via Mantova, 25 verrà presentato il nuovo libro di Enrico Fogliazza (*) “Maledetto Sanmartino“, rendiconto “a cuore aperto” sulla Liberazione, il dopoguerra, le lotte nelle campagne e per i diritti, a Cremona e nella pianura padana irrigua.

334 pagine, 230 di testo, con 57 fotografie e 19 documenti allegati, alcuni assolutamente inediti.

In anteprima vengono qui presentati – in allegato – sia l’indice del volume che i testi introduttivi di Renato A. Rozzi, Gian Carlo Corada, Mimmo Palmieri e Rodolfo Bona (**) che saranno presenti, insieme all’autore, alla presentazione del libro pubblicato per i tipi di Edieffe editore a cura di Deo Fogliazza.

L’incontro prenderà avvio dopo una breve narrazione in forma teatrale, sull’importanza della Memoria, attingendo all’esperienza di Kiro nel periodo di guerra partigiana in valle di Susa, presentata da Gian Luca Foglia “Fogliazza” (www.fogliazza.net ), autore dell’opera grafica “KIRO” pubblicata in ultima di copertina.

Per leggere le prime pagine del libro clicca QUI

Il volume sarà nelle migliori librerie di Cremona e provincia a partire dal 12 novembre 2010.

Chi fosse interessato alla prenotazione del volume può farlo inviando una mail a:

edieffeeditore@libero.it oppure inviando un fax al numero 0372803895.

(*)        Enrico Fogliazza è nato a Castelleone (CR) il 22 marzo 1920, da una famiglia di 9 fratelli, con padre bergamino e madre casalinga. Giovanissimo affronta varie esperienze di studio e di lavoro pur di uscire dai confini del chiuso mondo della cascina. Impiegato alla Banca Popolare di Cremona, nella primavera del 1944 prende la via della lotta partigiana, operando in Val di Susa, con il nome di “Kiro”, come Commissario politico nella 17° Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Dopo la Liberazione continua l’impegno sociale e politico nell’ANPI, poi come Segretario responsabile della Confederterra CGIL, alla direzione delle dure lotte bracciantili che si sviluppano nella seconda metà degli anni ’40. Eletto Deputato per il PCI dal 1953 al 1963, nel 1964 fonda l’Alleanza Contadini di Cremona ed è assessore provinciale all’Agricoltura dal 1970 al 1975. Oggi è Presidente provinciale dell’ANPI di Cremona.

(**)        Renato A. Rozzi, già docente di psicologia nelle Università di Trento, Cosenza, Urbino e Verona.

Gian Carlo Corada, insegnante, è stato prima Presidente della Provincia poi Sindaco di Cremona

Mimmo Palmieri è Segretario provinciale della CGIL di Cremona

Rodolfo Bona, insegnante, fa parte della Presidenza provinciale dell’ANPI di Cremona

Sentire che stai male mi toglie il respiro… perdutamente


Il quinto libro di Alessandra Galdiero s’intitola “Sentire che stai male mi toglie il respiro… perdutamente” edito dalla CSA Editrice.

Un romanzo psicologico denso di passione in cui s’intrecciano amore e morte, immaginazione e poesia.

Andrea, il protagonista del libro, si sente perduto nel momento in cui la donna con cui ha condiviso la maggior parte del suo tempo lo abbandona a se stesso.
Lui si mostra come un uomo fragile, indifeso, che non riesce ad accettare il vuoto che si crea da quell’attimo. Entrando in contatto con la difficile realtà inizia la sua lotta contro tutto e tutti, uccidendo coloro che ama, ma da cui non si sente ricambiato e capito.
Vede attorno a sé solo tradimento e menzogna, guarda ogni cosa solamente dal suo punto di vista e tutto gli appare diverso da ciò che è. Si tratta di follia, di paura o di un errore di valutazione?

Quello che il protagonista vuole, che desidera ardentemente, è sincerità, fiducia e affetto. Ma incontra sul suo percorso solo delusione e incomprensione.
Andrea è frustrato da una vita spietata e non può fare a meno di bruciare dietro di lui tutto ciò che fa parte del passato, per poter ricominciare, per contrastare la sua solitudine, per ritrovare la verità.

Ma quello che scopre non è facile da accettare, gli sembra addirittura impossibile convivere con la nuova realtà che si va delineando dinanzi a lui. E il rimorso per gli sbagli commessi diventa una colpa da espiare…

Forse tutto ciò che è osservabile è così come lo vediamo. Ma cosa c’è invece nel fondo dello stomaco? Quali sono le sensazioni che vibrano allo stato puro? Basta porsi delle domande per scoprirlo? Basta respirare per sentirsi vivi? E quando manca il respiro non siamo comunque vivi? E se questo libro rispondesse per noi almeno ad una di queste domande, non avremmo raggiunto uno stato d’incoscienza tale da essere in grado di capire quello che siamo veramente?

Citazione

I nemici vivono in casa, ci osservano, ci studiano, carpiscono le nostre debolezze e ce le puntano contro, fino a che siamo costretti a saltare dal grattacielo per non finire divorati dalle fiamme e per questo la nostra morte potrebbe quasi definirsi un suicidio…

Biografia

Alessandra Galdiero, scrittrice napoletana e dottoressa in scienze politiche, ha pubblicato Attraverso i miei occhi (L’autore Firenze Libri), Ritorno Andando (CSA Editrice), Non ho problemi a credermi (CSA Editrice) e La verità si offende (Il Filo).

È co-fondatrice del portale http://www.recensionelibro.it

Si può leggere di lei sul suo sito www.alessandragaldiero.it

L’INADEGUATEZZA DEI GILLES


Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, BUR 2005

Sul capolavoro di Perec molto si è discettato, financo a sproposito, per il carattere iperletterario e definitivo nella storia del romanzo di un’opera a suo modo, e in senso etimologico, titanica, progetto cioè pervaso dalla volontà di scardinare il limite letterario (il titano della mitologia è nel suo significato più profondo un forzatore, un coartatore e quindi un sopraffattore), di esplorare tutte le possibilità narrative affastellando una serie infinita di storie che si dipanano dalle vite degli inquilini di un fabbricato parigino. È il progetto di una visione sincrona e di un libro aperto, di un romanzo senza fine, che tuttavia fallisce – titanicamente – nel momento stesso della sua stampa tipografica come oggetto necessariamente finito e necessariamente non sincrono, poiché la lettura è inevitabilmente monotemporale, al di là degli artifici ammirevoli che uno scrittore può escogitare (pagina divisa in due, intertesto, parentesi, tabulazioni, barre, o come in questo caso: capitoli come stanze di un palazzo) e che comunicano più l’intenzione della simultaneità, più la sua immagine che la realizzazione concreta.

Personalmente considero geniale il progetto ideale, alla luce anche delle implicazioni matematiche e strutturali che sembrano aver guidato l’opera di Perec (e che accetto come un dato di cultura, posto che non mi sono così evidenti nell’impianto del romanzo, anzi: mi verrebbe da dire che il teorema del biquadrato e del salto del cavallo non è sempre confortato dallo svolgimento letterario, comunque mi taccio), geniale come intuizione creativa, ma di una noia pesante nella resa effettiva e quindi nella lettura. L’ordine categorico di Perec non è certo nelle mie corde, ne apprezzo la funzione letteraria e metaletteraria, ma trovarmi un lungo e dettagliato catalogo di oggetti, pressoché all’inizio di ogni capitolo, sulle prime mi incuriosisce, poi mi annoia, infine mi indispone non diversamente dalle letargiche liturgie e dall’ottusa pedanteria dei burocrati. Come lettore. Come scrittore ammiro la cifra stilistica, ma non scriverei mai un romanzo così. Non arriverei nemmeno alla seconda pagina. E non per incapacità, ma per temperamento.

Di fronte ad opere che tecnicamente sono dei capolavori, ma emozionalmente sono fredde come un’equazione algebrica, il sentimento più autentico, e non falsato da ipocrisie di circostanza, è la noia. Come ho già scritto, se è vero che ogni opera ha una sua struttura portante progettata e non casuale, e quindi risponde a delle regole deliberatamente adottate, è anche vero che l’opera d’arte che resta nel cuore dei lettori, e non soltanto nel cervello dell’autore, è quella in cui la struttura è un mezzo e non un fine, e le lettere ti conducono là dove l’emozione deve arrivare affinché accada la meraviglia.

Emozione e meraviglia. Nient’altro. È questo il difficile. Non confondiamo l’abilità (tecnica) con il talento (spirito), cosa che alcune scuole d’avanguardia, come quella cui apparteneva Perec, invece hanno fatto stabilendo che la creatività non dovesse riguardare il pensiero e lo stile (che sono i principali agenti di emozione e meraviglia, e che non si trovano nei prontuari né nei computer, né nelle scuole di scrittura, e non sono misurabili, replicabili, standardizzabili, bensì elitari) ma la regola di struttura. Se l’unico interesse è rispettare questa regola, per quanto assurda possa essere (esempio: scrivere un intero capitolo senza usare la lettera “a” è un funambolismo molto difficile e tecnicamente apprezzabile, ma se a questa abilità non si accompagna un valore o un’emozione estetica, resta un mero funambolismo cerebrale e letterale) allora la noia è pari a quella dell’ascolto di un’opera dodecafonica, virtuosismo algebrico musicale che non sa cosa sia l’emozione, filologicamente interessantissimo ma di fatto buono per chi soffre d’insonnia.

Note sono le dotte analisi tecniche elaborate a proposito di La vita istruzioni per l’uso da Calvino e da Odifreddi, per cui non mi avventurerò in terreni dove altri han saputo dire molto meglio di me. Anche il ripetere non troppo male cose già dette da altri fin troppo bene, non è nelle mie corde. Quasi subito mi prende una noia tale da farmi passare la voglia di scrivere per giorni. E forse per sempre.

Parlerò invece del personaggio principale, se tale può essere definito in un guazzabuglio di vite e di storie, dell’eccentrico Bartlebooth che decide di dedicare la propria vita ad un progetto singolare e fondamentalmente inutile:

(…) il progetto si sarebbe distrutto da solo nel corso stesso del suo divenire; la sua perfezione sarebbe stata circolare: (…) partito da zero, Bartlebooth allo zero sarebbe tornato (…)“.

Il progetto che dura la bellezza di cinquant’anni, un’intera vita, la vita di Bartlebooth, consiste sinteticamente nel dipingere acquerelli, 500 paesaggi marini, incollare gli acquerelli su 500 tavole di legno, rompere le tavole per farne puzzle di 750 pezzi, ricomporre i puzzle uno ad uno, ricostruire l’integrità degli acquerelli, quindi staccarli dalla tavola, immergerli in un solvente e ripristinare la candida nullità del foglio bianco. E qui c’è tutto, comicità e disperazione, follia e rigore metodico, utopia e mondanità. È un progetto così totalitariamente gratuito ed inutile da far paura, così come totalitariamente gratuito ed inutile è l’intero romanzo fatto di caterve di storie rese mera cronaca, esplosione di quantità, labirinto di compilazione. È la presa di coscienza della mancanza di senso dell’esistenza che spinge a creare/inventare un senso altrettanto inutile, diabolicamente titanico nel voler costringere nel finito – e in un finito stupido e dozzinale: acquerelli, puzzle – il grandioso ciclo di Creazione e Distruzione dell’Infinito. Quasi una parodia della vita stessa. La vie mode d’emploi, cioè cosa fare della vita: un passatempo inutile e sarcastico:

Sul piano del tavolo, chissà dove nel cielo crepuscolare del quattrocentotrentanovesimo puzzle, lo spazio nero dell’unico pezzo non ancora posato disegna la sagoma quasi perfetta di una X. Ma il pezzo che il morto [n.d.r. Bartlebooth] tiene fra le dita ha la forma, da molto tempo prevedibile nella sua stessa ironia, di una W.

Il Bartlebooth di Perec è in buona compagnia nel mondo delle lettere. Barnabooth, Bartlebooth, Bartleboom, personaggi letterari di onomastica vagamente dickensiana che trovano il loro capostipite nel Bartleby di Herman Melville. In proposito è già stato condotto uno studio da parte di Stefano Lazzarin (Bartleby, Barnabooth, Bartlebooth. Baricco e il grande oceano delle storie, Narrativa 16, 1999, pp. 143-165), lavoro che trovo spesso citato e che finora non ho ancora avuto la fortuna di reperire, ma del quale posso immaginare la tematica.

Bartleby è il famoso scrivano che sa opporre una sola, inesorabile, irragionevole e tetragona negazione al vivere sociale: I would prefer not to (preferirei di no, avrei preferenza che non…). In un’edizione italiana del racconto di Melville sono state allegate in appendice un centinaio circa di interpretazioni accademiche su questo personaggio enigmatico, da quella religiosa a quella filosofica, da quella psicanalitica a quella politica. Alcune veramente curiose, più curiose dello stesso Bartleby, segno che non c’è limite all’umana bizzarria, per quanto erudita possa essere.

Quelle che mi hanno impressionato di più tendevano ad individuare nel Bartleby melvilliano la rappresentazione di un autismo autosufficiente in quanto edotto dell’inutilità di ogni azione, una preferenza negativa che conduce via via all’estinzione del soggetto stesso. In quanto tale Bartleby può essere considerato il capostipite letterario di una serie di personaggi che ne riprendono l’onomastica e la maschera esistenziale, dal miliardario snob Barnabooth di Valery Larbaud del romanzo omonimo, al Bartlebooth di Perec che passa la sua vita nel puzzle del nulla, al Bartleboom dell’Oceano Mare di Baricco, perso nella sua Enciclopedia dei Limiti (progetto utopico, titanico e fondamentalmente insulso) e redattore appassionato di lettere d’amore ad una sconosciuta (la “donna della sua vita”, destinata a non concretizzarsi mai in una donna reale) conservate in una scatola di mogano che ad un certo punto, inutilità nell’inutilità, va sperperata.

Per tutti costoro il comune denominatore è la solitudine/solipsismo, la mancanza di affettività, l’impossibilità a vivere/incapacità di vivere una vita normale. Il che mi ha fatto venire in mente un altro personaggio che non si chiama Bartle e qualcosa, ma Gilles, e che, trovando la sua origine in un dipinto del XVIII secolo, almeno cronologicamente può essere considerato il vero progenitore della genia dei Bartle e qualcosa.

Al Louvre te lo trovi di fronte, Gilles, a grandezza naturale (185 x 145), l’unico dipinto di Jean Antoine Watteau a grandezza naturale. Se c’è un perché a questa eccezione nella sua produzione artistica, sei tentato di ricondurlo a quel qualcosa di ineffabile che comunica questa immagine. Ci hanno provato in tanti a spiegarlo, con risultati poco soddisfacenti, dato che ti riportano sempre a quello sguardo, a quegli occhi che ti guardano e non sai cosa vogliono dirti. I tanti, che sono anche gli esperti, parlano di contemplazione apollinea, di malinconia, di dolore, di idiozia, di tristezza, di una sofferenza che punge gli occhi colmi di lacrime non versate, ma ciò che resta insondabile è una catena di quesiti: perché Watteau l’ha dipinto, perché l’ha dipinto così, cosa voleva comunicarci.

Watteau è morto nel 1721, poco dopo aver dipinto Gilles, non ha lasciato interpretazioni autentiche, nessuno sa nulla, il resto sono solo illazioni, o sensazioni, come quelle provate dallo scrittore Pierre Drieu La Rochelle, che un giorno andò al museo, lo vide e disse: È il mio ritratto. Intendiamoci, non è che gli somigliasse molto fisicamente, lui aveva visto una somiglianza caratteriale, spirituale, e l’aveva vista in quello sguardo, in quella posa, in quel personaggio vestito da pierrot.

C’è una sola parola che può riassumere il sentimento espresso da Gilles e che Drieu La Rochelle ha percepito così nitidamente da adottare il nome del pierrot per i suoi personaggi, che poi erano quasi sempre alter ego dello stesso Drieu, e la parola è: inadeguatezza.

Questo Gilles se ne sta in piedi, in primo piano, da solo, immobile. Dietro di lui s’intravede il movimento della vita e anche il piacere della vita: altre maschere che parlano, ridono, forse lo stanno prendendo in giro, qualunque cosa stiano facendo o dicendo se la godono un mondo, all’ombra di una statua di Sileno, il simbolo della lussuria, intesa appunto come godimento della vita. A questo godimento Gilles è completamente estraneo. Si trova lì, sembra obbligato a stare lì, ma capisci che lui non c’entra niente con gli altri, e forse l’ha capito anche lui. E ti guarda. Se non proprio te, guarda fuori campo, guarda da un’altra parte. Cerca comprensione? Nel cinema comico di Laurel & Hardy la trovata si chiama camera look: guardare in macchina per coinvolgere lo spettatore. È un camera look quello di Gilles? Tecnicamente potrebbe esserlo. Emozionalmente no, non lo è. Non è lo sguardo di Oliver Hardy che riemerge sconsolato dalla piscina dove l’ha fatto cadere Stan Laurel, è lo sguardo sconsolato di un uomo che è in disparte, ma che non ti chiede nulla: nessuna espressione nel suo volto di pietra. Buster Keaton, tanto per dire, non usava di solito il camera look, perché allora non avremmo riso, avremmo pianto.

C’è il peso di un’inguaribile tristezza nelle vicende, a tratti esasperanti, dello scrivano Bartleby che a un certo punto rifiuta di scrivere per sempre e abbandona qualunque gesto di vita; si scopre una malinconia infinita nel goffo Bartleboom, una volta lasciata alle spalle la prima divertente lettura delle sue vicissitudini, ed è solo questione di espediente stilistico la risata immediata che scaturisce dalla lettura, la verità nascosta dietro lo stile ironico, e perfino comico, è il dolore di un uomo solo che non riesce a stare al passo con la realtà: il suo ridicolo andirivieni in diligenza tra un paese e l’altro alla ricerca dell’amata, tra ripensamenti, dubbi e gaffe, è la metafora dell’incapacità di vivere e di cogliere la vita al momento opportuno, una dannazione cui si può non pensare soltanto – nella soluzione romanzata di Baricco – esplodendo in una fragorosa e contagiosa risata, laddove altri esplosero su se stessi colpi di revolver; perfino l’agghiacciante, meticoloso ed inane lavorio di Bartlebooth maschera la miseria umana della solitudine e dell’inettitudine a vivere.

Sono tutti figli di Gilles, costoro, e Gilles è un’individualità che accade nel mondo come infelicità. Esistono percorsi esistenziali che impediscono di vivere la vita come tutti gli altri, che fanno indossare il vestito di pierrot ad una festa in maschera alla quale, benché invitati e per quanto ci si sforzi, non si riesce a divertirsi. È la consapevolezza di non essere adeguati alla vita che lo impedisce, una festa che non può essere capita, un gioco di emozioni che lascia muti a guardare il riflesso della propria estraneità, come lo sguardo finale di Daniel Auteuil nel vetro del bistrot in Un cuore in inverno di Claude Sautet.

Anche Drieu La Rochelle pronunciò il suo I would prefer not to e si uccise per questo, per la sua triste e segreta inettitudine alla vita, dopo aver provato tutta la vita a viverla, l’esistenza. Il resto, collaborazionismo, decadentismo, egotismo, afroditismo e tutti gli -ismi possibili, sono soltanto sciocchezze, palliativi per trovare una via di fuga, per non pensarci su, come la risata iperbolica di Bartleboom.

Ma queste cose, dirà qualcuno, Watteau non le ha mai pensate, non poteva pensarle. Vero. Ha fatto di peggio: le ha dipinte.

Mauro Del Bianco

Si sbagliava da professionisti

SI SBAGLIAVA DA PROFESSIONISTI

José Giovanni, Il buco, Longanesi 1960

Non me ne voglia Paolo Conte per l’appropriazione indebita, ma affettuosissima, di una sua frase tratta da Boogie. Il buco è uno dei pochissimi libri di Giovanni tradotti – tanto tempo fa – in Italia. Titolo originale Le Trou, Série Noire Gallimard. José Giovanni è stato, prima che regista cinematografico, scrittore di talento apprezzato da Camus e da Cocteau, tanto per dire. In un certo senso l’ha salvato la letteratura, l’ha salvato dalla galera e dalla malavita. Dalla ghigliottina l’aveva salvato suo padre: Il m’a sauvé la vie, ricordava José e lo tradurrà nel suo ultimo romanzo (Il avait dans le coeur des jardins introuvables) e nel suo ultimo suo film (Mon père).

Le Trou invece è stato il suo primo romanzo. Ed è stata anche la prima riduzione cinematografica, l’occasione per muovere i primi passi su un set. Poi José vi ha preso gusto e ha cominciato a girare da solo, dopo una lunga gavetta come aiuto, soggettista, sceneggiatore. Bellissimi film, come non se ne fanno più. Anche il noir d’Oltralpe oggi è tutta un’altra cosa. Una volta era forse meno spettacolare e tecnicamente più ingenuo, ma aveva il gusto amaro del fumo di una gallica che ti brucia gli occhi fino a farti lacrimare e insieme ti tira un pugno allo stomaco per non illuderti troppo sul sentimentalismo, con una fotografia in bianco e nero che aveva sempre l’aria di un cielo d’autunno, anche quando giravano a colori, e un’atmosfera di rassegnata consapevolezza in qualche modo saturnina. Gli autori si chiamavano Claude Sautet, Robert Enrico, Jacques Deray, José Giovanni, e gli attori erano giganti come Jean Gabin, Lino Ventura, Michel Constantin, Jean Paul Belmondo, Alain Delon. Talvolta erano persone tratte dalla strada o dalla galera, come Roland Barbat alias Jean Keraudy alias Roland Darban che in Le Trou interpretò se stesso. Perché in fondo Giovanni raccontava storie vere, decorate dal talento narrativo e rese poetiche dalla sua sensibilità crepuscolare, e rese eroiche dal suo piglio anarchico, uno contro tutti, ma tratte dalla cronaca, le sue storie erano prima di tutto vita vissuta.

Una vita che troppo presto fu costretta a fare i conti con la violenza. José, classe 1923, nato a Parigi ma di origine corsa, ha appena vent’anni quando, come molti suoi coetanei in Francia e in Europa, è tirato dentro la guerra, guerra contro l’occupazione tedesca, guerra civile, dove il valore della vita, propria e altrui, scende al ribasso. Sperimenta il contatto freddo con l’acciaio delle armi, l’odore di cordite, il colore del sangue, i muri fradici di una cella: imprigionato dai tedeschi, evade.

Dopo la Liberazione si trova a Parigi ed insieme allo zio e al fratello entra nel milieu, la malavita di Pigalle. Come in tutti i dopoguerra (vedi, per un parallelo italiano, le imprese di Ezio Barbieri e della banda dell’Aprilia ricordate nel romanzo di Bevilacqua La Pasqua rossa, e il film di Lattuada Il bandito) circolano molte armi, molto denaro sporco e molti disadattati, ex partigiani, ex collaborazionisti, disertori, borsaneristi, approfittatori, pescecani di tutte le risme, e la vecchia malavita cerca di trattenere rabbiosamente le proprie quote di mercato di fronte all’assalto di questi nuovi affaristi (vedi l’efficace rappresentazione di questo contesto in La Scoumoune, it. Il clan dei marsigliesi).

José e parenti mettono su un racket per estorcere denaro ai pescecani di guerra e ai borsaneristi, ma qualcosa va storto, qualcuno si ribella, e ci scappa il morto. José è arrestato e paga per tutti, benché non abbia mai ucciso nessuno. Caparbio e ligio all’onore, da vero duro tiene la bocca chiusa e le Assise, severissime, lo condannano a morte. Gli salva la vita suo padre, pokerista severo, che si danna l’anima finché riesce ad ottenere la grazia dal Presidente della Repubblica e la commutazione della pena in vent’anni di lavori forzati. José ne sconterà una decina, senza aver rinunciato a qualche tentativo di evasione. Sarà riabilitato soltanto nel 1986.

Le Trou è il racconto di uno di questi tentativi, memorabile nella resa cinematografica di Jacques Becker con la consulenza appunto di Giovanni: quattro detenuti in attesa di giudizio, un giudizio d’Assise che già presumono senza misericordia, decidono di evadere dalla Santé, contando sull’esperienza e l’abilità tecnica di un re delle evasioni, Roland Darban (Roland Barbat), sul fatto che la cella si trova al primo piano del carcere e comunica con i sotterranei, i quali a loro volta sono contigui al collettore delle fogne di Parigi, sul fatto che in quel braccio della Santé sono in corso lavori edili ed idraulici di manutenzione. Sennonché, inaspettato, arriva un quinto detenuto nella cella già affollata, un ragazzo accusato di tentato omicidio nei confronti della moglie, molto ricca e più anziana di lui. I duri indovinano subito in quel ragazzo troppo perbene qualcosa che non va e il loro istinto li spinge a diffidare del nuovo venuto, però gli accordano fiducia lo stesso e lo fanno partecipe del piano di evasione, al quale il ragazzo aderisce con entusiasmo.

È questo uno dei temi preferiti di José Giovanni, l’amicizia virile, la solidarietà tra disperati che in fondo restano uomini soli, gravati da un passato che non dà tregua, chiusi nella loro cupa consapevolezza di destino, inesorabili e al limite violenti, mai disumani tuttavia. L’amicizia virile e il pathos che sgorga dal dramma dell’amicizia tradita.

Gesti parchi e misurati, sguardi e silenzi che dicono tutto, dialoghi asciutti rivelatori di introspezione e psicologia non banali, sono le tecniche narrative con le quali Giovanni esprime senza gridarla la solitudine esistenziale di questi duri, di cui l’epitome perfetta è lo sguardo deluso, ferito ma severo di Roland Darban e le sue parole soffiate tra i denti: Povero Gaspard…, quando il ragazzo, manovrato dal direttore del carcere che ha intuito e sfruttato il suo debole carattere, li tradirà.

Il resto è appassionante ed epica ricostruzione millimetrica di un tentativo di fuga: lo scavo del buco in un angolo della cella, il periscopio costruito con uno specchietto legato al manico di uno spazzolino ed infilato nello spioncino della porta della cella (l’altro buco, l’occhio invisibile e onniveggente del Guardiano) per controllare il corridoio, chiavi improvvisate con materiale di fortuna, lime occultate negli spigoli del tavolo, clessidre artigianali – due boccette da infermeria e sabbia per pulire la gavette – per misurare lo scorrere del tempo nel buio delle gallerie, pupazzi animati via filo per simulare il movimento dei corpi sotto le coperte, quando di notte i detenuti lavorano a coppie nei sotterranei per aprire il varco che li condurrà alla libertà.

È questo un altro dei temi presenti spesso nella narrativa letteraria o cinematografica di Giovanni, la fuga, l’evasione, la rivolta tutta personale e non sanguinaria in barba ai sistemi di oppressione, che rilancia allo spettatore/lettore un gioioso retrogusto di riscossa, di un’epica lotta contro il Tempo e contro il Guardiano – figura che assurge a ruolo simbolico – il quale, per dirla alla Arsenio Lupin, è il vero carcerato giacché non evade mai.

Così ritroviamo i tentativi di evasione, spesso ritmati dalle cadenze magicamente evocative delle musiche di François de Roubaix, il Morricone francese morto troppo giovane per ottenere tutta la gloria che meritava il suo talento, in Ho! (Storia di un criminale), in cui François Holin prende le sembianze e il posto di un barbone rinchiuso alla Santé per svignarsela in un crescendo rossiniano di simulazione ed irrisione, e li troviamo anche in La Scoumoune (Il clan dei marsigliesi) dove Roberto e Xavier costruiscono pezzo per pezzo il castello di sogni chiamato libertà senza poterlo vedere realizzato, e ancora in Comme un boomerang (Il figlio del gangster) che si chiude tragicamente con il tentativo di fuga oltre frontiera o in Un aller simple (Solo andata) con la fuga dall’infermeria del carcere.

Tema peraltro molto francese, da Vidocq e i suoi epigoni letterari (Jacques Collin/Vautrin e Jean Valjean, rispettivamente di Balzac e di Hugo) al più recente Papillon/Henri Charrière. Così francese che ancora oggi è in grado di esaltare gli amici d’Oltralpe, come testimonia la corrispondenza da Parigi di Domenico Quirico “La Francia tifa per Jean-Pierre l’evaso fuggito nei boschi” (La Stampa, 24 ottobre 2009), in cui si narrano le imprese di Jean-Pierre Treiber, evaso dal carcere e rifugiatosi nella foresta come i fuorilegge d’antan.

Sospettato di duplice omicidio e in attesa di giudizio, Jean-Pierre evade “con estro, confortevolmente nascosto in uno scatolone caricato sul camion di una ditta che fa le consegne nel carcere di presunta massima sorveglianza di Auxerre“. Nell’accusa che lo vuole inchiodare non c’è niente di romantico (due ragazze assassinate) e lui non è fisicamente il bel tenebroso da film, eppure la gente stravede per lui, sostiene la sua innocenza, si dichiara disposta ad aiutarlo nella fuga.

Il nero di Francia, come scrive bene Quirico: amaro e brutale, pieno di fatalismo e di pernod, sublimato in un idealismo di natura consolatoria, diventa fonte di epica letteraria e cinematografica in cui l’evasione è uno degli stereotipi cardine: non c’è una bella storia noir se non c’è una bella evasione, se non c’è se faire la belle, che nell’argot malavitoso significa svignarsela.

Come cantava Serge Gainsbourg su un arpeggio di chitarra che ritmava i passi dei forzati alla catena, générique della mitica serie televisiva ORTF Vidocq (la prima, quella del 1967 con Bernard Noël), Qui ne s’est jamais laissé enchainer/Ne saura jamais c’qu’est la liberté/Moi, oui, je le sais/Je suis un evadé.

Nelle storie di José Giovanni invece non c’è consolazione, non c’è sublimazione falsamente idealistica. La realtà è quella che è e gli uomini restano quelli che sono, con i loro slanci di umanità e le loro crudeltà, le loro miserie e la loro dignità, con il peso delle loro azioni, con qualcosa da dire e molto da nascondere, professionisti in quanto sanno sempre essere se stessi, sanno accettare la loro condizione, il loro destino, senza piagnistei e falsi moralismi, sanno ribellarsi all’ingiustizia senza pretendere visioni del mondo, sanno essere benevoli senza pretendere santità, sanno cioè essere grandi personaggi.

È questa qualità che ha fatto apprezzare l’eroe tipico di Giovanni e che lo conserverà nella storia del cinema e della letteratura come carattere indelebile e non dozzinale, anche se poi tale eroe cadeva, era sconfitto, vedeva svanire amaramente tutte le illusioni, si sbagliava. Ma sbagliava da professionista.

 

Mauro Del Bianco