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TAREQ IMAM : Le mani dell’assassino

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In un Cairo spettrale, dall’atmosfera cupa e insolitamente piovosa, una metropoli sovrastata da grattacieli abbandonati e popolati da fantasmi, lungo strade affollate da storpi, prostitute e strani manichini animati, vive Salem, impiegato dell’Organismo Centrale per le Statistiche e la Mobilità Pubblica con il “sacro compito” di collaborare al censimento. Salem, “un vecchio di trent’anni”, uno dei discendenti dell’Eremita capostipite di una stirpe di assassini che popolano la città, vive e rivive i fatti di sangue narrati nell’antico manoscritto ereditato dal suo avo e ne mette in pratica gli insegnamenti perpetrando i propri delitti con la mano destra, “quella che lavora sodo”, affinché la sinistra, “liscia, superba e amante del lusso”, possa completare la stesura del suo diwan, la raccolta di poesie scritte con il sangue di ogni vittima.

Un affresco della capitale egiziana e dei suoi abitanti dalle inusuali e sorprendenti tinte gotiche.

«Un assassino sociopatico e schizofrenico, una creatura in via d’estinzione nella letteratura araba, ma soprattutto, Imam ha qualcosa da dire su come si viva nel Cairo moderno». Ahmed Khalifa, blogger.

Tareq Imam (nato in Egitto nel 1977) scrittore, critico e giornalista, è il capo redattore della prestigiosa rivista letteraria egiziana Al Ibda‘. Ha pubblicato cinque raccolte di racconti e altrettanti romanzi, ottenendo importanti riconoscimenti e premi quali il So’ad El Sabah (2004), il Sawiris (2009 e 2012) e nel 2013, con ‘Ayn (Un occhio), ha vinto la III Edizione dell’International Flash Fiction Competition Cesar Egido Serrano Foundation, Museum of Words nella categoria “racconti in lingua araba”. Le mani dell’assassino (Hudu’ al-qatala, il Cairo) è stato pubblicato in lingua araba nel 2008.

traduzione dall’arabo di Barbara Benini
DAL 14 GENNAIO

 

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Lars Pettersson Kautokeino, un coltello insanguinato

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La macchina slitta sulla strada ghiacciata e colpisce violentemente una renna. Anna Magnusson si ferma, si infila un berretto di lana e prende il coltello dallo zaino nel bagagliaio. L’orologio segna le 01:30 di notte, e ci sono più di 30 gradi sotto zero lì, sulla strada tra Luleå e Pajala. Anna è cresciuta a Stoccolma e non ha mai pensato alle sue origini. Sua madre, che è una Sami, non ha mai spiegato il motivo per cui se n’è andata dal remoto villaggio di montagna nel nord della Norvegia. Ora Anna, che lavora come sostituto procuratore, è sulla strada per Kautokeino, in Lapponia, dopo diversi anni di assenza. La nonna l’ha chiamata e le ha chiesto di andare a difendere il cugino Nils Mattis, accusato di stupro. La famiglia è disperata: non può fare a meno del lavoro di Nils Mattis in montagna. Ma quando Anna legge l’inchiesta della polizia, si insospettisce. Come farà a restare imparziale? Per lei è difficile rispettare il codice silenzioso della famiglia, fatto anche di leggi non scritte. Chi c’è dietro le morti che si verificano mentre Anna è lì? Chi vuole sbarazzarsi di lei? L’autore descrive l’ambiente, la natura, il freddo e le condizioni di vita in modo così realistico e tangibile che si perde il respiro. La natura si fa invadente, soprattutto quando scrive come il freddo e i suoi effetti incidano sulla psiche e lo stile di vita. Un thriller emozionante che si svolge in Lapponia. Un romanzo sul diritto e la morale in una comunità di minoranza etnica, che evidenzia le contraddizioni tra le consuetudini e il moderno Stato di diritto.
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PREMIO Deckarakademin 2012
AL MIGLIORE THRILLER SVEDESE DI UN AUTORE ESORDIENTE

«Uno dei migliori romanzi polizieschi dell’anno. Lo prometto!» Dast magazine

«Lars Pettersson fa un forte debutto come romanziere. Kautokeino, un coltello insanguinato è un romanzo di diritto e morale, la tradizione contro la modernità. E, a differenza di molti altri thriller, non è una storia che si impara a dimenticare in fretta». Tidningen Kulturen

Lars Pettersson è un regista indipendente svedese che ha prodotto film, serie TV, documentari e reportage. Ha anche lavorato come insegnante e produttore della televisione di stato svedese. Trascorre i suoi inverni a Kautokeino in Norvegia. Kautokeino, en blodig kniv (Kautokeino, un coltello insanguinato) è stato pubblicato in Germania, Norvegia, Francia, Estonia.

 
pp. 380 € 17,50
traduzione dallo svedese di Stefania Forlani
LIBRO: 9788865641132
EBOOK: 9788865641255

ALESSANDRA PEPINO CATTIVI PRESAGI

novità editoriale scrittrice napoletana segnalata da Maurizio de Giovanni‏

Presentazione del romanzo thriller ambientato a Napoli di

ALESSANDRA PEPINO
CATTIVI PRESAGI
cattivi presagi
Giugno 2013: una pioggia torrenziale si abbatte su una Napoli mai esplicitata, ma che emerge con prepotenza tra le pieghe della narrazione. Complice un black out, due fatti di sangue avvengono all’interno di uno stesso condominio: Cesare Melchionna, famoso scrittore in crisi, rinviene per caso il cadavere strangolato e brutalmente percosso della sua avvenente vicina, Benedetta Fierro, nascosto alla meglio tra le piante del cortile. A pochi minuti di distanza, un colpo di pistola raggiunge alla testa l’ingegnere Ignazio Botta, misantropo conclamato che abita al primo piano dello stabile. A tentare di risolvere i due casi, apparentemente estranei l’uno all’altro, è chiamato Jacopo Guerra, ispettore dal carattere burbero ma incapace di non farsi coinvolgere emotivamente dagli eventi. Parallela all’ indagine ufficiale, si sviluppa quella segreta di Costanza, sorella di Benedetta, costretta fino a quel momento in casa da una acuta forma di agorafobia, che trova nel dolore la forza per guardare in faccia le sue paure e mettersi sulle tracce dell’assassino. Qual è il filo sottile che tiene avvinte le due vittime? E che ruolo svolge nella vicenda il senzatetto che ha tenuto compagnia all’ingegnere durante la sua ultima cena? False ipotesi e piste ingannevoli si intrecciano incessantemente fino al raggiungimento della più amara delle verità.
 
«Pioggia. Pioggia e solitudine. Un palazzo popolato da fobie, oscurità e sofferenze mascherate da sorrisi di circostanza. Il luogo dove dovremmo trovare sicurezza e calore, che può diventare un inferno. Una ventata d’aria torbida nel romanzo nero italiano, scandita da una scrittura secca, partecipe e coinvolgente che racconta della danza della morte all’interno di una casa che potrebbe essere la vostra».
           MAURIZIO DE GIOVANNI,
autore della serie del commissario Ricciardi
 
Biblioteca del giallo
Euro 15,00
ISBN: 9788865641149
Atmosphere libri

“L’isola nomade”

L’isola amata da Elsa Morante raccontata dai grandi scrittori del ‘900

Procida, astro del Mediterraneo

Presentazione de “L’isola nomade”, un libro a cura di Tjuna Notarbartolo con prefazione di Dacia Maraini – venerdì 10 dicembre presso la libreria Treves

Napoli – Venerdì 10 dicembre alle ore 18,00, presso la libreria Treves a piazza Plebiscito, presentazione de “l’isola nomade” (adm libri), con Tjuna Notarbartolo, Enzo Colimoro, Patrizia Rinaldi, Antonio Carannante. Coordina Antonella Del Giudice, saluta il sindaco Vincenzo Capezzuto, legge Gerardo Vozza.
La giovane sigla editoriale ADM pubblica un libro che racconta storie, luoghi, atmosfere della più piccola e suggestiva delle isole del golfo di Napoli: Procida.

Dodici grandi autori, con una prefazione di Dacia Maraini, a cura di Tjuna Notarbartolo, nella collana “Astri del Mediterraneo” diretta da Enzo Colimoro: “i nostri astri sono tutti i luoghi che si affacciano sul Mediterraneo, ad ognuno cercheremo di dedicare un libro, nell’ottica degli scambi culturali, anche in vista di grandi eventi come, ad esempio, il Forum delle Culture 2013, in programma a Napoli”. Stili differenti, voci variegate, autonome ed unite da un accordo segreto, quello dell’armonia creata dall’unica protagonista: quell’isola di Arturo, ridente ed amena, che non ha mai smesso di affascinare scrittori e lettori, d’ogni tempo, d’ogni luogo. Il titolo del volume è “L’isola nomade, racconti per Procida” e contiene scritti di Maria Attanasio, Enzo Colimoro, Piera Degli Esposti, Raffaele La Capria, Luciano Ligabue, Dacia Maraini, Antonio Carannante, Michele Mari, Piero Meldini, Alberto Mario Moriconi, Tjuna Notarbartolo, Toti Scialoja.

Scritti preziosi, attimi in cui la vita s’intreccia con la letteratura, esperienze che si fanno storia.

Non c’è turista, che si fermi sull’isola o la incroci di passaggio che non cerchi di conoscere qualcosa in più, di quel luogo così diverso da tutto il resto. E spesso, questo qualcosa in più, è racchiuso in un libro, in poche parole, scritte da chi sull’isola ci è capitato, anche solo di passaggio o che l’ha conosciuta profondamente.

“Procida merita di essere cantata dai grandi nomi della letteratura, voci d’eccellenza che celebrano l’anima della nostra isola” dichiara il Sindaco Vincenzo Capezzuto, che ha patrocinato il libro. Il volume, nell’ambito di un’operazione culturale che intreccia turismo, stimolo creativo ed etica d’impresa, ha il supporto della Confcredito, il prestigioso confidi campano che, come sottolinea Il Direttore Generale Vittorio Iodice, “punta ad una crescita ed innovazione sul territorio e del territorio. E lo sviluppo non può non passare anche attraverso una crescita culturale”.

L’isola nomade” a cura di Tjuna Notarbartolo

Editore ADM Libri , pagg. 150, euro 15,00

Storie di trentenni “in equilibrio precario” raccontate da Dario Danti


Storie di trentenni “in equilibrio precario” raccontate da Dario Danti

Una virgola fa la differenza. Se dico “Amici miei” magari penso alle fortunate pellicole di Mario Monicelli con Ugo Tognazzi, Renzo Montagnani, Philippe Noiret. “Amici, miei” (con la virgola) è invece il titolo del libro di Dario Danti di cui esce in questi giorni la seconda edizione con la postfazione di Fausto Bertinotti ( “Amici, miei, storie di trentenni in equilibrio precario”, Edizioni ETS, Pisa 2010) : venti storie da cui emerge lo spaccato di una generazione che ha dovuto fare i conti con precarietà e globalizzazione.

Dario ce le racconta con leggerezza e con la partecipazione di chi ha compiuto un pezzo di strada insieme e per questo si sente prima di tutto  un amico: “L’amicizia lega queste storie. – scrive Fausto Bertinotti – Tra le tre, libertà, eguaglianza, fraternità, la terza è forse quella più trascurata dalla sinistra reale…”

Questi giovani sembrano aver fatto, come si dice, di necessità virtù, intraprendendo le strade più diverse, quelle dettate dalla vocazione di ciascuno, che è emersa in percorsi talvolta tortuosi, talaltra più lineari, ma sempre originali e creativi, tanto che nella prefazione Marco Malvaldi sottolinea il fatto che i protagonisti di queste storie “riconoscono di avere un  privilegio: quello di essere unici”.

Alcuni si scoprono artisti: Checco fonda il duo “Gatti Mezzi” con Tommaso, Manuel crea a Pisa ClanBanlie e disegna gioielli per Marithé Francois Girbaud, Gionata diventa Ozmo esponente di spicco della Street art italiana, Francesco porta le sue composizioni musicali in tutta Europa esibendosi con grandi orchestre internazionali come la Filarmonica di Berlino, Paolo fa il contrabbassista, Roan realizza il suo primo film “Ora o mai più” e per Einaudi pubblica il romanzo “Prove di felicità a Roma Est”. Per altri la scoperta, magari molto precoce, è la militanza politica: Emma ci riporta alle giornate del G8 di Genova, Nicola alla nascita dei Giovani Comunisti e all’avventura nella Puglia di Vendola.

E poi altre storie: Silvia si laurea in medicina, ma poi scopre la sua vera vocazione, il giornalismo scientifico, che la fa approdare alla redazione romana di Radio3 Scienza; Emiliano cresciuto nelle giovanili del Pisa Sporting Club sarà il capitano del Pisa Calcio dal 2000 al 2005; Eva attraversa un periodo di depressione e, grazie a questa sua sensibilità, diventa operatrice sociale; Enrico giunge a Gerusalemme in piena seconda Intifada con un progetto di cooperazione internazionale.

E ancora: Bufa l’enologo, Fausto l’operaio,  Franco il ristoratore, Roberto il consigliere parlamentare, Michele il commerciante, Francesca la fisioterapista, Federico il medico.

La cifra di queste storie è l’incontro – quello che fa crescere, che cambia la vita – e il caso, che non è mai casuale, ma è piuttosto necessità e destino. Pisa, che è molto nel cuore di Dario e dei suoi amici, attraversa tutti questi racconti e contribuisce a renderli unici: una città che sa suscitare amore, ma si dimostra avara verso i propri figli. “Pisa sembra ripudiare le sue storie, come  i suoi artisti. Purtroppo.” È il commento che chiude la storia di Francesco, e che riguarda anche tutte le altre storie naturalmente.

Un po’ di amarezza c’è del resto in questi trentenni, consapevoli dei tempi oscuri che stiamo attraversando (non ci resta che sperare che la loro creatività ci aiuti ad uscirne…) “Adesso ho una grossa difficoltà anche a credere nei progetti: viviamo in una fase di sopravvivenza senza entusiasmo” dice Emma; e Ozmo: “Tutto quel panorama di arte, di spontaneità, di fermento culturale è morto, ucciso. Tutti quelli che prima snobbavano le cose che facevamo noi, oppure che erano scarsi, si sono buttati sul carro e hanno firmato contratti per uno squalo che vende arte via satellite ( come fossero materassi)”.

Racconti di vita, dunque, biografie: ho sorriso leggendo il ringraziamento di Dario alla sua insegnante, Daniela Bettini, che so appassionata di autobiografia (ne abbiamo parlato anche su Pisanotizie): un altro incontro, ormai lontano, ma quanto fecondo se ha dato come frutto, sia pure in maniera inconsapevole e indiretta, questo bel libro di Dario!

Struggente il contrappunto delle foto di Anna  Benedetto: immagini di una Pisa straniata in cui è scomparsa ogni presenza umana e che assumono pertanto una forte valenza simbolica. A me suggeriscono pensieri su un futuro possibile della nostra città in cui trovino accoglienza le tante storie ed esperienze che questo libro racconta.

Ma io ti vedo

Titolo: “Ma io ti vedo“

Sottotitolo: “Il più insospettabile dei segreti non è mai al sicuro”

Autrice: Marinella Ioime

Prefazione: Nunzio Sisto

Editore: Lampi di Stampa

Collana: Tutti Autori

ISBN: 978-88-488-0908-5

Ispirato da fatti di cronaca “Ma io ti vedo” affronta, da un punto di vista sociologico, lo scottante tema dell’abuso sui minori.

Il romanzo nasce dalla convinzione che alla base del fenomeno della pedofilia vi sia il più impari dei rapporti esistenti tra vittima e carnefice.

Ma io ti vedo ribalta le relazioni di forza di questa drammatica dialettica, fornendo una rappresentazione dell’infanzia surreale, in costante contatto con il divino regalando, per quanto possibile, un’immagine “vincente” dei bambini violati. Bambini accomunati dalla stessa onta, che si stringono silenziosamente gli uni verso gli altri in un invisibile parallelo, sospeso tra cielo e terra.

Prefazione di Nunzio Sisto (psicoterapeuta e supervisore nella tecnica EMDR).

Si sbagliava da professionisti

SI SBAGLIAVA DA PROFESSIONISTI

José Giovanni, Il buco, Longanesi 1960

Non me ne voglia Paolo Conte per l’appropriazione indebita, ma affettuosissima, di una sua frase tratta da Boogie. Il buco è uno dei pochissimi libri di Giovanni tradotti – tanto tempo fa – in Italia. Titolo originale Le Trou, Série Noire Gallimard. José Giovanni è stato, prima che regista cinematografico, scrittore di talento apprezzato da Camus e da Cocteau, tanto per dire. In un certo senso l’ha salvato la letteratura, l’ha salvato dalla galera e dalla malavita. Dalla ghigliottina l’aveva salvato suo padre: Il m’a sauvé la vie, ricordava José e lo tradurrà nel suo ultimo romanzo (Il avait dans le coeur des jardins introuvables) e nel suo ultimo suo film (Mon père).

Le Trou invece è stato il suo primo romanzo. Ed è stata anche la prima riduzione cinematografica, l’occasione per muovere i primi passi su un set. Poi José vi ha preso gusto e ha cominciato a girare da solo, dopo una lunga gavetta come aiuto, soggettista, sceneggiatore. Bellissimi film, come non se ne fanno più. Anche il noir d’Oltralpe oggi è tutta un’altra cosa. Una volta era forse meno spettacolare e tecnicamente più ingenuo, ma aveva il gusto amaro del fumo di una gallica che ti brucia gli occhi fino a farti lacrimare e insieme ti tira un pugno allo stomaco per non illuderti troppo sul sentimentalismo, con una fotografia in bianco e nero che aveva sempre l’aria di un cielo d’autunno, anche quando giravano a colori, e un’atmosfera di rassegnata consapevolezza in qualche modo saturnina. Gli autori si chiamavano Claude Sautet, Robert Enrico, Jacques Deray, José Giovanni, e gli attori erano giganti come Jean Gabin, Lino Ventura, Michel Constantin, Jean Paul Belmondo, Alain Delon. Talvolta erano persone tratte dalla strada o dalla galera, come Roland Barbat alias Jean Keraudy alias Roland Darban che in Le Trou interpretò se stesso. Perché in fondo Giovanni raccontava storie vere, decorate dal talento narrativo e rese poetiche dalla sua sensibilità crepuscolare, e rese eroiche dal suo piglio anarchico, uno contro tutti, ma tratte dalla cronaca, le sue storie erano prima di tutto vita vissuta.

Una vita che troppo presto fu costretta a fare i conti con la violenza. José, classe 1923, nato a Parigi ma di origine corsa, ha appena vent’anni quando, come molti suoi coetanei in Francia e in Europa, è tirato dentro la guerra, guerra contro l’occupazione tedesca, guerra civile, dove il valore della vita, propria e altrui, scende al ribasso. Sperimenta il contatto freddo con l’acciaio delle armi, l’odore di cordite, il colore del sangue, i muri fradici di una cella: imprigionato dai tedeschi, evade.

Dopo la Liberazione si trova a Parigi ed insieme allo zio e al fratello entra nel milieu, la malavita di Pigalle. Come in tutti i dopoguerra (vedi, per un parallelo italiano, le imprese di Ezio Barbieri e della banda dell’Aprilia ricordate nel romanzo di Bevilacqua La Pasqua rossa, e il film di Lattuada Il bandito) circolano molte armi, molto denaro sporco e molti disadattati, ex partigiani, ex collaborazionisti, disertori, borsaneristi, approfittatori, pescecani di tutte le risme, e la vecchia malavita cerca di trattenere rabbiosamente le proprie quote di mercato di fronte all’assalto di questi nuovi affaristi (vedi l’efficace rappresentazione di questo contesto in La Scoumoune, it. Il clan dei marsigliesi).

José e parenti mettono su un racket per estorcere denaro ai pescecani di guerra e ai borsaneristi, ma qualcosa va storto, qualcuno si ribella, e ci scappa il morto. José è arrestato e paga per tutti, benché non abbia mai ucciso nessuno. Caparbio e ligio all’onore, da vero duro tiene la bocca chiusa e le Assise, severissime, lo condannano a morte. Gli salva la vita suo padre, pokerista severo, che si danna l’anima finché riesce ad ottenere la grazia dal Presidente della Repubblica e la commutazione della pena in vent’anni di lavori forzati. José ne sconterà una decina, senza aver rinunciato a qualche tentativo di evasione. Sarà riabilitato soltanto nel 1986.

Le Trou è il racconto di uno di questi tentativi, memorabile nella resa cinematografica di Jacques Becker con la consulenza appunto di Giovanni: quattro detenuti in attesa di giudizio, un giudizio d’Assise che già presumono senza misericordia, decidono di evadere dalla Santé, contando sull’esperienza e l’abilità tecnica di un re delle evasioni, Roland Darban (Roland Barbat), sul fatto che la cella si trova al primo piano del carcere e comunica con i sotterranei, i quali a loro volta sono contigui al collettore delle fogne di Parigi, sul fatto che in quel braccio della Santé sono in corso lavori edili ed idraulici di manutenzione. Sennonché, inaspettato, arriva un quinto detenuto nella cella già affollata, un ragazzo accusato di tentato omicidio nei confronti della moglie, molto ricca e più anziana di lui. I duri indovinano subito in quel ragazzo troppo perbene qualcosa che non va e il loro istinto li spinge a diffidare del nuovo venuto, però gli accordano fiducia lo stesso e lo fanno partecipe del piano di evasione, al quale il ragazzo aderisce con entusiasmo.

È questo uno dei temi preferiti di José Giovanni, l’amicizia virile, la solidarietà tra disperati che in fondo restano uomini soli, gravati da un passato che non dà tregua, chiusi nella loro cupa consapevolezza di destino, inesorabili e al limite violenti, mai disumani tuttavia. L’amicizia virile e il pathos che sgorga dal dramma dell’amicizia tradita.

Gesti parchi e misurati, sguardi e silenzi che dicono tutto, dialoghi asciutti rivelatori di introspezione e psicologia non banali, sono le tecniche narrative con le quali Giovanni esprime senza gridarla la solitudine esistenziale di questi duri, di cui l’epitome perfetta è lo sguardo deluso, ferito ma severo di Roland Darban e le sue parole soffiate tra i denti: Povero Gaspard…, quando il ragazzo, manovrato dal direttore del carcere che ha intuito e sfruttato il suo debole carattere, li tradirà.

Il resto è appassionante ed epica ricostruzione millimetrica di un tentativo di fuga: lo scavo del buco in un angolo della cella, il periscopio costruito con uno specchietto legato al manico di uno spazzolino ed infilato nello spioncino della porta della cella (l’altro buco, l’occhio invisibile e onniveggente del Guardiano) per controllare il corridoio, chiavi improvvisate con materiale di fortuna, lime occultate negli spigoli del tavolo, clessidre artigianali – due boccette da infermeria e sabbia per pulire la gavette – per misurare lo scorrere del tempo nel buio delle gallerie, pupazzi animati via filo per simulare il movimento dei corpi sotto le coperte, quando di notte i detenuti lavorano a coppie nei sotterranei per aprire il varco che li condurrà alla libertà.

È questo un altro dei temi presenti spesso nella narrativa letteraria o cinematografica di Giovanni, la fuga, l’evasione, la rivolta tutta personale e non sanguinaria in barba ai sistemi di oppressione, che rilancia allo spettatore/lettore un gioioso retrogusto di riscossa, di un’epica lotta contro il Tempo e contro il Guardiano – figura che assurge a ruolo simbolico – il quale, per dirla alla Arsenio Lupin, è il vero carcerato giacché non evade mai.

Così ritroviamo i tentativi di evasione, spesso ritmati dalle cadenze magicamente evocative delle musiche di François de Roubaix, il Morricone francese morto troppo giovane per ottenere tutta la gloria che meritava il suo talento, in Ho! (Storia di un criminale), in cui François Holin prende le sembianze e il posto di un barbone rinchiuso alla Santé per svignarsela in un crescendo rossiniano di simulazione ed irrisione, e li troviamo anche in La Scoumoune (Il clan dei marsigliesi) dove Roberto e Xavier costruiscono pezzo per pezzo il castello di sogni chiamato libertà senza poterlo vedere realizzato, e ancora in Comme un boomerang (Il figlio del gangster) che si chiude tragicamente con il tentativo di fuga oltre frontiera o in Un aller simple (Solo andata) con la fuga dall’infermeria del carcere.

Tema peraltro molto francese, da Vidocq e i suoi epigoni letterari (Jacques Collin/Vautrin e Jean Valjean, rispettivamente di Balzac e di Hugo) al più recente Papillon/Henri Charrière. Così francese che ancora oggi è in grado di esaltare gli amici d’Oltralpe, come testimonia la corrispondenza da Parigi di Domenico Quirico “La Francia tifa per Jean-Pierre l’evaso fuggito nei boschi” (La Stampa, 24 ottobre 2009), in cui si narrano le imprese di Jean-Pierre Treiber, evaso dal carcere e rifugiatosi nella foresta come i fuorilegge d’antan.

Sospettato di duplice omicidio e in attesa di giudizio, Jean-Pierre evade “con estro, confortevolmente nascosto in uno scatolone caricato sul camion di una ditta che fa le consegne nel carcere di presunta massima sorveglianza di Auxerre“. Nell’accusa che lo vuole inchiodare non c’è niente di romantico (due ragazze assassinate) e lui non è fisicamente il bel tenebroso da film, eppure la gente stravede per lui, sostiene la sua innocenza, si dichiara disposta ad aiutarlo nella fuga.

Il nero di Francia, come scrive bene Quirico: amaro e brutale, pieno di fatalismo e di pernod, sublimato in un idealismo di natura consolatoria, diventa fonte di epica letteraria e cinematografica in cui l’evasione è uno degli stereotipi cardine: non c’è una bella storia noir se non c’è una bella evasione, se non c’è se faire la belle, che nell’argot malavitoso significa svignarsela.

Come cantava Serge Gainsbourg su un arpeggio di chitarra che ritmava i passi dei forzati alla catena, générique della mitica serie televisiva ORTF Vidocq (la prima, quella del 1967 con Bernard Noël), Qui ne s’est jamais laissé enchainer/Ne saura jamais c’qu’est la liberté/Moi, oui, je le sais/Je suis un evadé.

Nelle storie di José Giovanni invece non c’è consolazione, non c’è sublimazione falsamente idealistica. La realtà è quella che è e gli uomini restano quelli che sono, con i loro slanci di umanità e le loro crudeltà, le loro miserie e la loro dignità, con il peso delle loro azioni, con qualcosa da dire e molto da nascondere, professionisti in quanto sanno sempre essere se stessi, sanno accettare la loro condizione, il loro destino, senza piagnistei e falsi moralismi, sanno ribellarsi all’ingiustizia senza pretendere visioni del mondo, sanno essere benevoli senza pretendere santità, sanno cioè essere grandi personaggi.

È questa qualità che ha fatto apprezzare l’eroe tipico di Giovanni e che lo conserverà nella storia del cinema e della letteratura come carattere indelebile e non dozzinale, anche se poi tale eroe cadeva, era sconfitto, vedeva svanire amaramente tutte le illusioni, si sbagliava. Ma sbagliava da professionista.

 

Mauro Del Bianco

Portugal Futurista‏

Portugal Futurista

Fernando Pessoa, Ultimatum e altre esclamazioni, Robin Edizioni 2006

Ed infine giunse anche all’estremo lembo d’Europa, all’ultima spiaggia di questa vecchia Europa, di fronte solo acqua, acqua ovunque, acqua comunque, interminabile acqua e nemmeno un’Atlantide, giunse il virus futurista. Portato da gente che era stata a Parigi, perché bisognava proprio portarlo di peso, il Futurismo, in Portogallo, posto che il semplice invito non sembrava sufficiente.

L’invito era uno dei tanti inviti spediti al mondo da Marinetti. Era l’inverno del 1909. Il Diário dos Açores, il quotidiano delle Azzorre (sarà anche un giornale importante, certo, ma pur sempre un quotidiano delle isole sperdute nell’Atlantico, i maggiori quotidiani di Lisbona s’erano persi l’esclusiva, e pare non ne fossero particolarmente afflitti…) aveva pubblicato, poco dopo Le Figaro, il primo manifesto di Marinetti, quello famoso dello schiaffo e del pugno, e dell’automobile da corsa “col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente [notare il genere maschile di automobile, n.d.r.] che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia“. Nessun effetto.

Tempo dopo altre cronache giornalistiche sulle esposizioni parigine dei pittori futuristi italiani tentarono di dare la sveglia all’intellettualità portoghese. Nessun effetto apprezzabile.Allmada Negreiros

Qualche altra stagione, e intanto siamo arrivati al 1915 – nel frattempo Marinetti era stato osannato dal bel mondo moscovita e pietroburghese e spernacchiato dai cubofuturisti, o almeno da alcuni di loro capeggiati da Chlebnikov, il futurismo dilagava fino al Mar del Giappone, dall’estetica s’era tuffato nella politica, era perfino scoppiata una guerra mondiale nella quale il futurismo dissanguava le sue giovani vene creative – e finalmente i lusitani dissero qualcosa di futurista: su Orpheu n°1, la rivista modernista animata da un ristretto numero di intellettuali raccolti intorno a Fernando Pessoa, appare una poesia di Álvaro de Campos (un eteronimo di Pessoa), Ode Triunfal, che di futurista ha il vestito ma non l’anima, in quanto la ridondanza verbale di grandes lâmpadas eléctricas da fábrica, rodas dentadas, engrenagens, cimento armado, maquinismos em fúria, mitragliatrici, aeroplani, sottomarini e metropolitane, si dispiega in un paesaggio emozionale che non è autenticamente futurista (il futurismo non riposa compiacendosi sulle riflessioni di sentimento, sia esso fierezza o saudade, poiché, semplicemente, non riposa mai, non è mai statico). E tale strana e détourné (traslata e riconvertita) adesione all’avanguardia del momento – “in mano a Fernando Pessoa anche il Futurismo diviene un’altra cosa“, ricorda Luciana Stegagno Picchio – è ribadita in una lettera al Diário de Noticias del 4 giugno 1915, dove Álvaro de Campos (sempre Pessoa) precisa che di intersezionismo è più corretto parlare, e non di futurismo (“Nessun futurista sopporterebbe Orpheu (…) La caratteristica principale del futurismo è l’Oggettività Assoluta, l’eliminazione dall’arte di tutto quanto è anima, sentimento, emozione, lirismo, soggettività insomma (…) il tedio, il sogno, l’astrazione sono gli usuali atteggiamenti dei poeti miei colleghi in quella brillante rivista“), al quale futurismo peraltro, annuncia, sarà dedicato il n° 2 di Orpheu (sembra una gufata, ma è un dato di fatto che con il n° 2 Orpheu chiude le pubblicazioni: che il futurismo fosse proprio così indigesto ai lusitani?…).

Nel numero 2 di Orpheu del giugno 1915, che porta la didascalia “Colaboração especial do futurista Santa Rita Pintor”, compaiono infatti quattro lavori del pittore futurista Santa Rita Pintor (al secolo Guilherme Augusto Cau da Costa de Santa Rita, nato nel 1889), l’Ode Maritima di Álvaro de Campos e due poemi di Mario de Sá Carneiro, Manucure e Apoteose, che possono essere considerati due omaggi alla tecnica parolibera e allo stile anarcotipografico dei futuristi, ma anche in questo caso: quanto c’è in essi di autenticamente futurista? Mentre infatti in Manucure troviamo un ribadire a più riprese il concetto di intersezionismo (E tudo, tudo assim me é conduzido no espaço/Por inúmeras intersecções de planos/Múltiplos, livres, resvalantes) accanto all’esaltazione della beleza futurista e di un Novo che è tuttavia guardato con sguardi pluriprospettici e quindi intersezionisti: meus olhos futuristas, meus olhos cubistas, meus olhos interseccionistas (ancora una volta il riferimento esplicito all’intersezionismo), in Apoteose sembra prevalere lo stile futurista, con adeguati collages di testate giornalistiche e marchi commerciali, e con esiti addirittura transmentali alla Kručënych: Beleza Numérica (…) nova sensibilidade tipográfica (…) Nova simpatia onomatopaica (…) beleza alfabética pura: Uu-um… kess-kress… vliiim… tlin… blong… flong… flak…, ma ancora una volta sorge il sospetto che si tratti più di un esercizio di stile o di un piacere estetico, più di sensazionismo che di sostanziale adesione allo spirito futurista. Così l’Ode Maritima di Álvaro de Campos è molto saudosa nell’immagine della dolorosa dolcezza della solitudine, della Distanza e delle partenze, del vuoto interiore, e in quanto tale assai poco futurista, nonostante Mario de Sá Carneiro l’abbia salutata come Obra Prima do Futurismo.

In definitiva, nell’ultimo numero di Orpheu, l’unico autentico futurista sembra essere il pittore Santa Rita Pintor, che presenta quattro suoi lavori, elaborati a Parigi tra il 1913 e il 1914, tre dal curioso sottotitolo simmetrico: Sensibilidade mecânica, Sensibilidade litographica, Sensibilidade radiographica, e l’ultimo, quasi a non voler dispiacere il modernismo pluriprospettico lusitano, Interseccionismo plastico.

Santa Rita, che è tornato nel settembre 1914 da Parigi, dove già si autodefiniva pintor futurista, portando con sé il futurismo e la velleità di pubblicare in Portogallo le opere e i manifesti di Marinetti, trova presto un sodale futuristicamente entusiasta in José Sobral de Almada Negreiros (1893-1970), che si definisce poeta d’Orpheu futurista e tudo, e che con il Manifesto Anti-Dantas del 1915 si scaglia con l’irruenza verbale tipica dei futuristi contro uno dei massimi intellettuali borghesi dell’epoca, Júlio Dantas, che si era permesso di tacciare i redattori di Orpheu come gente di poco cervello.Santa Rita Pintor

Sempre in questo 1915 che segna l’inizio delle ostilità futuriste in Portogallo, Santa Rita Pintor organizza insieme ad altri un congresso di giovani artisti in opposizione ai mandarini inerti della vecchia casta intellettuale portoghese.

Ma è il 1917 l’anno decisivo del futurismo lusitano. Il 4 aprile al Teatro República di Lisbona si tiene la 1a Conferência Futurista, nel corso della quale Almada Negreiros, vestendo un fato-macaco (una tuta da meccanico), declama il suo Ultimatum Futurista às Gerações Portuguesas do Século XX. Al meeting si esibisce anche Santa Rita Pintor.

Sempre nel 1917 Almada Negreiros pubblica K4 O Quadrado Azul, testo futurista composto di un unico paragrafo che si estende senza soluzione di continuità per una ventina di pagine e che con intenti satirici attacca violentemente la logica ordinaria e il saudosismo lusitano, opera edita insieme a Amadeo de Souza Cardoso, importante pittore d’avanguardia portoghese, ma anch’egli di provenienza e formazione parigina, che nel 1916 aveva allestito a Porto una grande mostra dal titolo Abstraccionismo.

Nel novembre del 1917 esce il primo numero della rivista Portugal Futurista, esce e sparisce, in quanto immediatamente sequestrato dalla polizia. E pare che il motivo del sequestro, a parte la pericolosità sociale ed il potenziale eversivo delle idee futuriste, fosse da cercarsi proprio in quell’Ultimatum scritto da Fernando Pessoa con la firma di Álvaro de Campos.

Il 1917 è un anno difficile per la giovane repubblica portoghese, già travagliata da lotte intestine, tentativi di rivolta e colpi di stato, che vedranno contrapporsi per tutto il secondo decennio del ‘900 i repubblicani e i monarchici che non si rassegnano alla fine della dinastia dei Bragança esiliati nel 1910. Ricordiamo per inciso che Pessoa e Santa Rita Pintor sono monarchici o filomonarchici, e che Almada Negreiros ha simpatie di destra che in seguito lo faranno avvicinare all’Estado Novo di Salazar.

Inoltre il Portogallo è coinvolto nella Grande Guerra a fianco dell’Intesa: nel febbraio 1917 il primo contingente portoghese è in linea nelle Fiandre. La censura di guerra era già stata instaurata nel marzo 1916, a seguito della dichiarazione di guerra della Germania, e l’Ultimatum di Pessoa contiene attacchi agli Alleati e allo stesso Portogallo giudicati dal regime democratico, che pochi giorni dopo è rovesciato dal golpe di Sidónio Pais, antipatriottici (ne contiene anche contro la Germania e l’Austria, se è per questo).

La rivista, ideata e indirizzata da Santa Rita Pintor, che compare soltanto in fotografia abbigliato con un clownesco abito a scacchi, ospita oltre a Ultimatum di Álvaro de Campos-Pessoa, citazioni dei manifesti futuristi italiani, il monologo intersezionista SaltimbancosContrastes Simultáneos di Almada Negreiros, i saggi sull’arte di Santa Rita elaborati da José Rebelo de Bettencourt e da Raul d’Oliveira Sousa Leal, poesie di Apollinaire e di Mario de Sá Carneiro, morto suicida a Parigi l’anno prima.

Come Ugo Serani precisa nell’introduzione a Ultimatum e altre esclamazioni, il manifesto di Álvaro de Campos-Pessoa ripercorre l’aggressivo tracciato stilistico dei manifesti futuristi, ma con un climax discendente, dall’invettiva verticale e scandalosa al nostalgico ammarare in riva all’Atlantico guardando l’Infinito (quando invece Marinetti concludeva lanciando la sfida alle stelle), ulteriore cifra della sostanziale originalità ed aderenza alla cultura nazionale del modernismo lusitano.

Nel 1918 la breve stagione del futurismo portoghese si estingue con la precoce scomparsa di Santa Rita Pintor seguita pochi mesi dopo dalla morte per “spagnola” di Amadeo de Souza Cardoso, e con la partenza di Almada Negreiros per Parigi.

A Lisbona rimane l’oscura solitudine di Pessoa che nel suo ideare eteronimi, finzioni, lettere a direttori di giornali mai spedite, traduzioni mai pubblicate, nel suo teorizzare la necessità dell’individuo multiplo ed architettare perfino la sensazionale (e bugiarda) scomparsa nella Boca do Inferno del mago inglese Aleister Crowley, anticipa tematiche e pratiche d’intonazione situazionista se non addirittura blissettiana.

Mauro Del Bianco

ASSOLUTAMENTE FUTURDADA

Pobeda nad solncem 1913

Aleksej Kručënych, Vittoria sul sole, a cura di Michaela Böhmig, La Mongolfiera Editrice Alternativa, 2003

Quella sera del 3 dicembre 1913 gli spettatori accorsi al teatro Luna Park di San Pietroburgo potevano legittimamente aspettarsi delle stranezze, considerando che tra i firmatari della rappresentazione Vittoria sul sole c’erano nomi già apparsi su manifesti sovvertitori dell’ordine delle arti e già noti per la loro stravaganza, ma non avrebbero mai potuto immaginare la totale eversione di ogni equilibrio spaziale, temporale, prospettico, semantico, teleologico, ideologico, ontologico, di qualunque ordine logico accettabile. Al termine dei due atti la maggior parte del pubblico rimase attonita, smarrita come di fronte al nero abisso dell’infinito cosmico, scioccata come di fronte ad un follia, altri inveirono disgustati con urla minacciose e fischi, qualcuno rise, pochi applaudirono, probabilmente gli amici e i colleghi degli autori. Che erano tre, anzi quattro considerando l’autore del prologo: Aleksej Kručënych, Velimir Chlebnikov, Michajl Matjušin e Kazimir Malevič, autori rispettivamente del dramma, del prologo, delle musiche (a chiamarle musiche) e della scenografia nonché dei costumi.

Perché tanto scandalo? Facciamo un passo indietro. Anzi: due.

Tra i firmatari dei manifesti futuristi russi, fra i quali il celeberrimo Schiaffo al gusto corrente di un anno prima, c’è anche un tale Aleksej Kručënych, geniale inventore di estetiche lettriste (e ben prima, un trentennio abbondante, che Isidore Isou proclami a Parigi la dittatura del lettrismo, contestato da quegli esuli russi, come il poeta georgiano Iliazd, che ricordavano benissimo le follie linguistiche di Kručënych e del gruppo dadaista 41°) ed inesauste avanguardie, ma non così poeticamente ingegnoso, profondo e prestigioso come il suo sodale Chlebnikov. Più un fantasioso istintivo che un metodico costruttore, più uno sciamano che un ingegnere del linguaggio. Nel 1912 pubblica Starinnaja ljubov’ (Amore all’antica) il primo libro d’avanguardia e all’avanguardia come oggetto-libro: trattasi di quattordici fogli non rilegati di carta da pacchi, e pure tagliata male, infilati in una copertina, manoscritti e litografati, testi di Kručënych e disegni di Larionov, dove l’autore attua una omogeneità, perlomeno visiva, di testo e pittura che sembrano incisi dalla stessa mano. E questo è un primo esperimento di fusione, di totalità artistica.Vittoria sul sole_Codardo

Fautore dello zaumnyj jazyk, del linguaggio transmentale, o più brevemente zaum’, un astrattismo fonico di lettere e fonemi anarchicamente fluenti da una fantasia “senza offesa di concreto“, come ebbe a chiosare lui stesso, un inseguirsi di lettere senza capo né coda ma dalla sconcertante potenza onomatopeica e perciò evocativa (il celebre verso dyr bul ščylsulle sue labbra aveva qualcosa di sciamanico” testimonia l’insigne slavista Vittorio Strada che lo conobbe ormai vecchio, dimenticato e alla fine), Kručënych prosegue nelle sue pubblicazioni eccentriche e confeziona Mirskonca (Mondoallarovescia) insieme a Velimir Chlebnikov, dove il progetto di rivoltare le regole esistenti riguarda prima ancora che il contenuto dei testi il raccoglitore dei testi stessi, il libro, che stavolta viene scomposto, disarticolato, differenziato, decostruito: carta di tipo e qualità assortiti, scrittura soltanto sulle pagine dispari, molti illustratori con stili disparati, caratteri impressi sulla carta per mezzo di litografie e timbri di gomma, inchiostri variegati, e varia è la grafia che muta al mutare del sentimento del poeta, rendendo leggibile il cambiamento di stato d’animo. E questo è un primo esperimento di capovolgimento, di sovvertimento dell’ordine tipografico che nel titolo si riferisce all’idea di un mondo alla rovescia.

Il 18 luglio 1913, circa cinque mesi prima della rappresentazione di Vittoria sul sole, si incontrano a Uusikirkko in Finlandia (allora provincia dell’Impero zarista) Aleksej Kručënych, Kazimir Malevič e Michajl Matjušin, e nella dacia di quest’ultimo danno vita al “Primo congresso panrusso dei rapsodi del futuro”, intenzionati a creare un’opera di rinnovamento assoluto dell’arte, quella che si potrebbe definire l’Opera Totale o l’Opera Assoluta. I tre se ne escono con una Dichiarazione nella quale si attesta tra l’altro la volontà di abrogare i processi logici fondati sulla legge di causa-effetto e di farla finita con il buonsenso, la logica simmetrica e il sentimentalismo simbolista, per fare spazio finalmente alla potenza creativa degli uomini nuovi.

Gli uomini nuovi ci sono, o almeno c’è l’idea coniata da Chlebnikov dei budetljane, “gli abitanti del sarà” o futuriani. Colossi futuriani saranno infatti i protagonisti del dramma intitolato Pobeda nad solncem (Vittoria sul sole), i titani Vittoria sul sole_Titano budetljaninche daranno l’assalto al cielo.

L’opera è composta di un prologo e due azioni o atti. Il prologo è scritto da Chlebnikov che si diverte con le radici linguistiche slave per dare vita a brillanti, impensabili, straordinari neologismi (il cui fascino estetico nelle traduzioni può essere soltanto intuito), con il suo tipico approccio sapiente e irrazionale, magicamente scientifico e scientificamente magico, nel senso di sistematico e filologico ma senza verificabile fondamento linguistico (laddove Kručënych nella sua logopoiesi è pure irrazionale ma caoticamente arbitrario).

Il primo atto illustra la battaglia condotta dai Titani Futuriani contro il Sole , simbolo del vecchio mondo, il cui abbattimento da parte dei colossi allude allo scardinamento dei canoni estetici vigenti: “abbiamo sparato al passato” gridano gli abitanti del mondo nuovo.

Il secondo atto è ambientato appunto in questo mondo nuovo, un mondo alla rovescia, dove cessano di essere valide tutte le regole del vivere quotidiano: il tempo scorre all’indietro, non c’è legge di gravità, le finestre delle case guardano all’interno, il regime delle proporzioni e della prospettiva è impazzito, mentre i vari personaggi del dramma, tra i quali il “Viaggiatore del tempo”, il “Nerone e Caligola” (una sola persona), il “Grassone”, il “Codardo”, il “Titano budetljanin”, l'”Aviatore”, parlano secondo una sintassi decostruita attraverso lo sdvig “spostamento”, traduzione del francese déplacement, scomposizione cubista che riaggrega i frammenti verbali in modo nuovo e inaspettato dando luogo a straniamento e insensatezza, fino a toccare le vette dell’assurdo nei versi zaum’ della canzone filistea e della canzone di guerra.

Come il testo di Kručënych è in realtà una non-trama, senza sviluppo spazio-temporale e senza climax drammatico, così la trama musicale di Matjušin è priva di melodia classicamente intesa, ma ordita con trovate rumoriste (la strada, i clacson, i cantieri, la folla) e le scenografie di Malevič dissolvono l’ordine delle forme nello spazio, anticipando temi che distingueranno il Suprematismo: il sole rappresentato sul sipario da un quadrato nero, le scatole sceniche basate sul cromatismo bianco e nero, il nero su nero (pavimento e pareti) che segna la sconfitta del sole e l’avvento del buio; e un certo Costruttivismo: le case con le finestre irregolari, la mitragliatrice futurista, la locomotiva, l’aeroplano, eliche, ruote e altri dispositivi meccanici (per Kručënych il dramma doveva rappresentare il trionfo del tecnico sul naturalistico), il tutto illuminato da un sistema di luci veramente innovativo rispetto alla tecnica allora diffusa nei teatri europei.Vittoria sul sole_Grassone

Opera Assoluta e Totale quindi non solo nella fusione di letteratura, pittura, musica e arte plastica, ma anche nel suo volersi anticipatrice di molti sviluppi avanguardisti di là da venire, dal Dada al Surrealismo, presunzione futuriana di voler essere principio e fine dell’arte: secondo lo studioso delle avanguardie Nikolaj Chardžiev, Kručënych è già dadaista prima ancora che il non-senso dada sia pronunciato da Tzara e soci; in un fotomontaggio i tre autori del dramma sono ritratti sotto la minaccia di un pianoforte capovolto e appeso al soffitto, anticipando analoghi collages surrealisti e immaginisti.

Tutto è bene ciò che comincia bene, e non ha fine, il mondo finirà ma per noi la fine non sarà” canta il coro finale dei Titani Futuriani, chiara epitome di una volontà di potenza tesa al superamento assoluto dello spazio e del tempo attraverso il cataclisma dei piani logici ordinari, risentendo ideologicamente tale visione delle indagini scientifiche ed occultiste allora in voga sulle geometrie non euclidee, sulla logica iperbolica e sulla super-razionalità trascendentale legata all’iperspazio, fino a tradurne artisticamente l’utopia.

Vittoria sul sole_ViaggiatoreIn seguito Kručënych animerà durante gli anni della guerra civile il gruppo del 41° che si riuniva alla Fantastičeskij kabačok (Fantastica Taverna) della georgiana Tiflis (Tbilisi), dove ancora più rilevante diventa la componente dadaista. Rientrato a Mosca nei primi anni ’20 per portare avanti la sua inesauribile produzione d’avanguardia, sarà costretto alla clandestinità negli anni dell’opprimente realismo di regime e a scomparire dalla scena artistica occultandosi in una komunalka, uno di quei famigerati appartamenti collettivi con un unico gabinetto ed un’unica cucina per tutti gli inquilini, dove vivrà in una stanza zeppa di libri e soltanto una branda, fino alla sua morte avvenuta nel 1968, quando in Occidente le teorie e le pratiche di “fantasia al potere” e, ossimoricamente, di volontà totalitaria, avranno nuova linfa e nuova fioritura nell’ultima esplosione di avanguardia europea, cui non saranno estranei quei situazionisti passati attraverso il lettrismo debitore a sua volta dello zaumnyj jazyk ideato da Kručënych.

Oggi ci resta il piacere intellettuale e il fascino estetico dell’avanguardia ‘900, poiché come ha scritto Vittorio Strada a proposito di una rappresentazione contemporanea di Vittoria sul sole, “il dadafuturismo ha smesso da tempo di epater borghesi e proletari. Ma diverte davvero. E in un mondo squallido come il nostro non è poco.”

Mauro Del Bianco

Sottotraccia

GIBSON_luce0William Gibson, Luce Virtuale, Mondadori 2008

La letteratura cyberpunk, nella penna di taluno dei suoi fondatori, come William Gibson, ha saputo vedere lontano, intuendo con perspicacia visionaria, talvolta solo tra le righe, sottotraccia, il rovescio della medaglia di quella società ipertecnologica e spettacolare che si andava annunciando alla fine degli anni ’70, l’altro lato del cartone di sfondo della splendida Parvenza che cela una squallida Sostanza o la totale assenza di Sostanza.

Molti dettagli di Luce virtuale, il primo dei tre romanzi che costituiscono la Trilogia del Ponte, precisano infatti il paesaggio di una società fondata sull’immagine, sulla rappresentazione, un’Era della Parvenza talmente sofisticata da non accontentarsi più della riproduzione/adorazione dell’immagine-copia-di-realtà, ma che è già arrivata ad identificarsi nell’immagine virtuale slegata da ogni riferimento sostanziale, l’icona illusoria che i giapponesi chiamano Aidoru (titolo del secondo romanzo della Trilogia): dagli ologrammi decorativi sui cofani delle auto a quelli che riproducono nude geishe in notti di luna, dagli occhiali che procurano visioni consolatorie alle trasmissioni televisive a contenuto pseudoreligioso – i televangelisti – o con funzione assistenziale-legale (Poliziotti nei guai), dalla necessità per chiunque di avere un proprio agente, come ce l’hanno i cineasti, i cantanti e i calciatori, a falsi storici e ideologici quali il Gotico Sudista, invenzione commerciale di un occultismo dixie mai esistito, dalle corporation di polizia privata con sede a Singapore che trattano i cittadini come clienti (il cliente ha sempre ragione) e la legalità e il diritto come un business (“sono clienti, nessuno si è fatto male, per cui ti togli dalle palle, okay?“) al programma di identificazione investigativa che basa l’identikit sulla somiglianza con attori o gente dello spettacolo, sicchè uno dei protagonisti è Tommy Lee Jones, un altro è Rainer Fassbinder e così via. Un mondo di plastica, un incubo schizoide in cui “(…) le loro vite assomigliavano a quello che uno vedeva in TV, ma non lo erano“.

Nel romanzo, originale trasposizione in un futuro terremotato di un contesto epico medievale (gli occhiali dalla vista magica, il cavaliere che lotta per salvare la fanciulla dai malvagi, la disputa per il tesoro, il quartiere casbah abbarbicato ai piloni e ai viadotti del Bay Bridge di San Francisco come le costruzioni elevate sui ponti della Parigi di Villon: “E quel ponte, amico, è un posto brutto. Pieno di anarchici, anticristi, fottuti cannibali, amico (….) praticamente fuori dalla portata della legge“), un futuro in cui i vecchi Stati Uniti sono separati in casa, con una NOrth CALifornia e una SOuth CALifornia, Tokyo e San Francisco sono state devastate e azzerate dal Big One, ziggurat foderate di specchi si slanciano nel cielo sporco di Città del Messico mentre la misera periferia è bombardata da missili di una guerra appunto periferica e perciò eterea come un evento televisivo, nella penisola italiana è sorto uno Stato chiamato Padania, e i suoi abitanti padanesi (sic!), un’imprecisata guerriglia è condotta da un Fronte Separatista di Sonora, e un fronte di liberazione neozelandese, che trasmette in TV comunicati anarco-sciamanici, contrasta truppe giapponesi di pacificazione a bordo di carri armati, il molteplice, proteiforme e caotico manifestarsi del fenomeno postmoderno della Parvenza è sintetizzato da un ricercatore nipponico con la parola “Thomasson”:

Thomasson era un giocatore di baseball americano, molto bello, molto potente. Venne acquistato dai Yomiyuri Giants nel 1982 per una grossa somma di denaro. Poi si scoprì che non sapeva colpire la palla. Lo scrittore e artigiano Genpei Akasegawa si appropriò del suo nome per descrivere certi monumenti inutili e inesplicabili (…)“.

Alle origini della Storia, nell’Era della Renna, il tomahawk con potenza di sacra folgore del cacciatore-poeta paleolitico.

Alla fine della Storia, nell’Era della Parvenza, il thomasson, che della folgore ha solo l’abbagliante ed effimero barbaglio.

L’Era della Parvenza che genera il thomasson ha tra le sue prerogative fondamentali la friabilità della causa, da intendersi quest’ultima come ragione funzionale delle cose ideata in virtù della loro destinazione. Non vi è più certezza condivisa sulla ragionevolezza nell’uso delle cose, che impassibilmente si consolida in abuso: l’oggetto-fulcro del romanzo, un paio di occhiali a luce virtuale, era stato inventato per i ciechi, poiché agendo direttamente con impulsi elettronici sul nervo ottico, purchè sano, avrebbe consentito anche ad un cieco di vedere. Causa meritevole e umanitaria. In apparenza, appunto. Infatti nel romanzo tale causa è citata distrattamente quasi come un residuo primitivo, essendo la causa attuale e più gettonata dalla massa – la folla solitaria – lo spettacolare e onanistico sesso virtuale.

Il concetto di relatività o friabilità della causa (da preferirsi friabilità in quanto evoca l’idea di un qualcosa che si atomizza in innumerevoli, caotici e mutanti frattali) favorisce lo sviluppo di grandi affari, perché l’Era della Parvenza è soprattutto l’epoca del Mercato. E talvolta si presta al liberticidio autorizzato e passivamente accettato. Quanta indipendenza abbiamo già sacrificato sull’altare della comodità tecnologica disseminando lo spazio virtuale di tracce informatiche alla mercè della merce? Quanto ancora per incessanti miraggi di falso benessere?

(…) gli era sembrata la cosa migliore di una lunga serie a cui pensava di potersi abituare senza difficoltà. Come volare in business-class o avere una carta di credito della SoCal MexAmeriBank (…)

In un ipotetico mondo di ipermercati come il Container City, dove ci si indebita prima di entrare garantendo così l’acquisto della merce e privando la persona della libertà di non comprare, il contante – che ha il grande pregio dell’anonimato – sparisce per sempre dalle transazioni commerciali, sostituito dalla più comoda, veloce, universale e inesauribile (si fa per dire) carta di credito. Chi ha il controllo dei codici allora ha un potere enorme, il Potere: non sei conforme alle logiche sociali vigenti? ti disabilito la carta.

Il giorno dopo, la rete staccò la spina della sua carta MexAmeriBank“.

È uno dei tanti inganni della Parvenza: tutto ciò che è virtuale non ha sostanza, ma avendo usurpato il ruolo della sostanza ne determina paradossalmente il destino se si sconfina oltre il circuito della simulazione. E così le Borse crollano o svettano per mera virtualità, intere fortune sono fondate sulle sabbie mobili dell’apparente, sancito in carta bollata ma non rinvenibile materialmente in alcun luogo, la competenza è un sentito dire, la qualità un’immagine certificata dai guitti del reality o del talk show, la storia una chiacchiera, l’indegnità una calunnia, quattro opinioni fanno un vangelo, il dato più cliccato è quello accettato indiscutibilmente come vero.

Uomo di Cro-magnon, dove sei?

Il romanzo di Gibson si snoda come un giallo, un noir con un bel plot, un avvincente incalzare di azioni, eventi, sorprese, con l’immancabile, ottimistico, americano, happy end… ? Sì, alla fine tutto finisce bene, i colpevoli sono assicurati alla giustizia, i cattivi che muovono i fili della cospirazione smascherati, carriere ripristinate e libertà riacquistate, nonché reputazioni ristabilite, ma… ma la produzione del reality si getta come un avvoltoio sulla vicenda e ne fa un format televisivo, quel briciolo di realtà vissuta all’ombra della rappresentazione virtuale, con le sue ansie, la paura, la gioia, i lutti, l’amicizia, l’amore, la sofferenza, le sciocchezze, le miserie e i grandi gesti, ciò che è vita vera, tutto viene riassorbito, commutato e distorto in immagine, inesorabilmente.

C’è ancora un vecchio tuttavia, un vecchio e la sua memoria e la sua consapevolezza di essere che sopravvivono lassù, che resistono in cima al pilone centrale del ponte. C’è ancora un domani:

Volevano trasportarla in fondo al ponte, lasciarla alla città. Dicevano che sarebbe morta prima di arrivare, comunque. Gli ho detto che potevano andare a farsi fottere tutti quanti. L’ho portata quassù. Potevo ancora farlo. Perché? Perché. Vedi qualcuno che sta morendo, gli passi vicino come se fosse alla televisione?“.

Mauro Del Bianco