Carlo Lucarelli

Specchio delle mie trame ( uno straordinario libro di interviste a 10 scrittori italiani)

C’è un tema assai dibattuto in letteratura: in che misura è giustificato l’interesse per la vita di uno scrittore?
Conoscere traumi dell’infanzia, vicissitudini amorose, rovesci economici,disturbi digestivi e difficoltà respiratorie di un poeta o di un romanziere ci mette in condizione di capire ed interpretare meglio al sua opera?

C’è chi dice di si’ , chi dice di no.

Una cosa pero’ è certa: che ricevere informazioni sulla vita degli scrittori – al di la’ delle chiavi di lettura che queste possono offrire o meno sulla loro opera – puo’ essere istruttivo e divertente.

E infatti molto istruttivo e divertente è il libro di Bruna Durante “Specchio delle mie trame“, pubblicato da Mimesi.

Il libro contiene dieci interviste a dieci scrittori italiani : Eraldo Baldini, Gianni Biondillo, Giancarlo De Cataldo,Giorgio Faletti, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Raul Montanari, Santo Piazzese, Andrea G. Pinketts, Gaetano Savatteri.

Dice Bruna Durante:

bru       “Anni fa sono andata con alcuni amici scrittori ad un festival di      letteratura in Francia e lì, lontano da casa, dalla fama (per alcuni) sono emerse le loro vere personalità .
Così ho pensato che sarebbe stato divertente far conoscere ai lettori, le loro vite, le loro famiglie di origine, ciò che pensano della vita in generale, insomma da dove nascono quelle storie, a volte terribili, che scrivono.
Ecco, se il libro è interessante ed emozionante il merito è dei miei amici scrittori.
Io ho solo trascritto ciò che loro mi hanno raccontato confidandomi i loro segreti.”
 

Diciamo subito che Bruna Durante ci sa fare.
In particolare le vanno riconosciuti due meriti: il primo è quello di essere riuscita a creare con gli intervistati un rapporto di grande confidenza ( molti di loro si raccontano a lei come si racconterebbero ad una vecchia amica, di quelle alle quali è inutile raccontare balle perchè, appena lo fai, ti sgamano subito e ti ridono in faccia).
Il secondo merito è che fa sempre le domande “giuste”.
Quelle che noi lettori vorremmo fare.

Ma, come dico sempre, un libro è come un melone, è meglio estrarne un tassello per sapere quanto è buono, piuttosto che guardarlo dall’esterno o palpeggiarlo.Così rimando tutti alla lettura di questo breve squarcio di una delle interviste del libro: quella a Raul Montanari.

E poi ditemi se non è divertente e istruttiva….

Cosa deve avere un libro per piacerti?

Fondamentalmente tre cose: o la scrittura o la storia o i contenuti. Se poi ci sono tutt’e tre ancora meglio.

Aldo Busi per esempio è uno scrittore di scrittura perché quasi non racconta storie, infatti è impossibile fare film dai suoi libri: se togli la scrittura ti rimane poco da trasportare al cinema.

Niccolò Ammaniti è uno scrittore di storie, ha fatto un grande e intelligente lavoro di sottrazione nella scrittura che caratterizza il suo stile veloce, ma è evidente che il lettore di Ammaniti è più interessato alla storia che non alla scrittura, infatti i libri di Ammaniti possono diventare film.

Poi ci sono libri e autori in cui c’è poca scrittura, poca storia ma viene detta una cosa talmente importante, talmente forte che quel libro vale la pena di leggerlo comunque, come per esempio il primo libro di Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, bruttissimo, con una storia assurda, personaggi insopportabili e una scrittura sciatta senza ancora la finezza che l’autore ha poi acquisito ma con un concetto molto originale che non avevomai trovato messo al centro di un testo narrativo con la forza con cui lo fa Houellebecq. 

Lo scopo dello scrittore è quindi quello di comunicare un’impressione che non si potrà più dimenticare?

Tutti gli scrittori sognano di riuscire a scrivere almeno un libro indimenticabile.

Per farlo ci vuole bravura, coraggio e anche fortuna ma soprattutto bisogna saper imitare il reale perché la natura fondamentale del raccontoè l’imitazione della realtà, non quella quotidiana però.

Con i mattoni del reale si costruiscono edifici narrativi che nella realtà non esistono e per questo sono così interessanti da abitare sia per lo scrittore sia per il lettore.

Anche i Formalisti russi sostenevano che l’operazione fondamentale del narratore non è raccontare la storia, ma restituire al lettore il mondo comese il lettore lo vedesse per la prima volta. 

Gli scrittori allora riescono a vedere il lato oscuro dell’umanità che gli altri non vedono?

Innanzitutto lo scrittore deve conservare lo stupore che hanno i bambini, riuscire a vedere le cose con uno sguardo vergine.  

Goethe diceva che bisogna conservare la capacità di meravigliarsi, che poi è la teoria sartriana de La nausea.

Poi ti dò due risposte: la prima è che ci sono un sacco di persone che hanno la stessa sensibilità degli scrittori, a volte anche superiore ma la differenza tra uno scrittore ed una persona che non lo è risiede nella capacità espressiva: sentire sentiamo tutti, il problema è scrivere.

L’altra risposta è che sicuramente – come diceva Thomas Mann – lo scrittore deve avere nei confronti della vita e delle esperienze che fa, che sono più o meno uguali a quelle degli altri, una distanza di osservazione in modo da poter adoperare poi quelle esperienze nella narrazione. 

Vuoi dire che lo scrittore vampirizza la propria vita e quella degli altri?

Esatto, ed è anche un vampiro schizofrenico.

La metafora perfetta del rapporto dell’artista con la propria vita non è in un libro ma in una scena del film Amadeus di Milos Forman: Mozart, tubercolotico, alcolizzato, torna a casa una mattina dopo aver gozzovigliato con gli attori con cui lavoraa Il Flauto Magico e si accorge che sua moglie Costanza se n’è andata portando con sé suo figlio.

Disperato, fa la cosa più umiliante per un uomo che è quella di andare in ginocchio da sua suocera, quella terribile suocera grassa con la faccia da Austriaca che quasi non lo fa parlare e lo aggredisce gridando:”Tu sei un mostro, un mostroooo!!”, ma mentre la suocera urla si vede Mozart che guarda la bocca della suocera inquadrata sempre più da vicino, e improvvisamente i suoi strilli diventano i gorgheggi sublimi di un’aria della Regina della Notte ne Il Flauto Magico.

Ecco, Mozart è lì nella merda più totale, eppure trasforma la merda in capolavoro. Anche a me è successa una cosa analoga. 

E cioè?

Stavo con una ragazza che mi piaceva molto, litighiamo e lei mi dimostra che sono un pezzo di merda e mentre l’ascolto, disperato, c’è un angolino del mio cervello che pensa velocemente: ”Mmh, perfetto, questo è ottimo per il dialogo tra X e Y che devo mettere nel capitolo quattro”.

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Carlo Lucarelli, Carta bianca

SONO UN POLIZIOTTO

Carlo Lucarelli,

Carta bianca,

Sellerio editore Palermo,

2003 XVI edizione

È frequente la delusione derivante dalle trasposizioni cinematografiche dei romanzi: se si è letto prima il testo difficilmente la pellicola potrà eguagliare l’emozione provata durante la lettura, e viceversa, una volta visto il film, si sarà disorientati dalla caratterizzazione dei personaggi e dall’atmosfera precostituite dal regista, non coincidenti con quelle dello scrittore o semplicemente con la voce narrante e con l’immaginazione del lettore. Niente di riprovevole in tutto ciò: regista e scrittore sono due artisti diversi che operano su due piani diversi di arte narrativa, sicché è normale che questo accada, malgrado le nostre delusioni, altrettanto naturali.

È invece criticabile, soprattutto negli ultimi tempi, la rappresentazione approssimativa del contesto storico in cui è calata la narrazione, lasciata spesso all’improvvisazione e ai luoghi comuni di sbrigativi cineasti poco attenti al rispetto dei dettagli, se non addirittura ignoranti in materia. In una rievocazione storica il ricreare il contesto di riferimento esattamente, o comunque con una diligenza che si avvicini il più possibile all’esattezza, non è mero esercizio di stile, ma fondamentale presupposto di credibilità della pellicola e della storia che si sta raccontando.

Una volta tanto pellicola e testo narrativo ispirano felicemente la medesima emozione e l’ambientazione storica appare senza difetti. Mi riferisco all’ottima trasposizione televisiva delle vicende del commissario De Luca, recentemente andata in onda su RAI 1, quattro soggetti tratti dagli omonimi romanzi di Carlo Lucarelli: Indagine non autorizzata, Carta bianca, L’estate torbida, Via delle Oche. In questo caso la difficoltà era duplice: non si trattava soltanto di rendere una qualunque atmosfera storica, ma di rappresentare (in tre storie su quattro) un periodo scomodo ed ispiratore di emozioni negative come quello del fascismo e della guerra civile, con tutti i rischi didascalici annessi e relative cadute di stile.

Problematicità che ancor prima del regista è stata dello scrittore Lucarelli nel fissare sulla carta e portare all’attenzione dei lettori, con meritato successo alla fine, la fisionomia di un uomo che in quei giorni drammatici, fascista o non fascista, colpevole o innocente, coinvolto o no, comunque è stato dall’altra parte della barricata, il commissario Achille De Luca appunto. In Carta bianca, che è il primo romanzo della serie, pubblicato nel 1990, De Luca è “il più brillante investigatore della Questura Repubblicana” (vale a dire della Polizia fascista della Repubblica Sociale) che negli ultimi giorni dell’aprile 1945 si trova incastrato in una storia torbida di sesso e stupefacenti. Incastrato è il termine tecnico corretto, nel senso che un misterioso omicidio diventa strumento della lotta di potere tra due fazioni del fascismo repubblicano, tra due importanti esponenti della RSI in realtà doppiogiochisti, preoccupati di salvare pelle e polli nell’imminenza del crollo, trafficando con inglesi e partigiani. De Luca, blandito dal Questore e dal Federale, viene incoraggiato a perseguire senza remore e con carta bianca una certa pista prestabilita, favorevole ad una delle due fazioni in lotta. Il commissario non tarderà a rendersi conto della trappola e proseguirà le indagini per scoprire a qualunque costo la verità.

Lo stile impersonale di De Luca è infatti il suo tratto caratteristico, la fermezza nel subordinare tutto alla totale aderenza al suo ruolo di poliziotto, al compito affidatogli di tutore della legge e della giustizia, qualunque sia il prezzo da pagare. Non è un uomo privo di sentimenti e di emozioni: è capace di ironia, di collera, di sofferenza, è capace perfino di innamorarsi, ma di fronte alla restaurazione dell’ordine delle cose secondo verità anche l’amore retrocede di un passo: “Non si chiedono scelte politiche ad un poliziotto, gli si chiede solo di fare bene il suo mestiere” (p. 88), dice De Luca, così come ama spesso ripetere “Sono un poliziotto”.

Questo atteggiamento estremamente professionale può avere e di fatto ha nel romanzo due chiavi di lettura, che coesistono lungo il crinale del dubbio e del non detto, senza prevaricarsi a vicenda: da una parte l’impersonalità attiva e l’integrità morale di cui si è detto, e dall’altra una sorta di alibi psicologico per giustificare ed assolvere l’essere presente e schierato in un contesto di violenze e di soverchierie.

La donna di cui si innamora, Valeria in arte Sibilla, chiromante e medium del Circolo degli Spiritisti, dove si incontrano gli esponenti fascisti che De Luca dovrebbe indagare, coglie soltanto uno dei due aspetti:

“Io lo so che tipo sei (…) sei uno che si nasconde (…) che pensa sempre al suo lavoro e se lo sogna anche di notte (…) In mezzo a tutta questa confusione pochi sanno veramente chi sono e cosa fanno ed è per questo che ti tieni così attaccato al tuo ruolo, tu che ce l’hai, da dirlo ogni volta che puoi, sono un poliziotto, sono un poliziotto. Così non devi pensare (…) So leggere negli occhi, io. Ho letto nei tuoi e so che hai paura (…) che ti ammazzino.” (pp. 57-58).

Il nome di De Luca è infatti presente in una lista di condannati a morte da parte del Comitato di Liberazione Nazionale, fatto che lo turberà aumentando l’insonnia di cui soffre, ma che non gli impedirà di andare fino in fondo alla sua indagine. Dal che si deduce che in De Luca la fedeltà alla propria missione è tale da vincere anche la paura.

In quei giorni convulsi quando tutto un mondo sta per crollare rovinosamente, quando ciascuno pensa per sé e la paura e la disperazione spingono alle azioni più ignobili, dove ci si annega nel nirvana del sesso e delle droghe, o si cerca consolazione nei tavolini spiritici e nelle pratiche occulte, o si dà sfogo alla violenza gratuita e alla brutalità, Achille De Luca appare di una statura morale gigantesca, un uomo che riesce a mantenere la sua dignità nonostante tutto intorno a lui stia franando (significativo e metaforico l’inizio del romanzo con i calcinacci che gli piovono addosso dopo lo scoppio di una bomba) e che conferma tuttavia la sua umanità fatta anche di malinconie, esitazioni ed insicurezze, non certo un ammazzasette di tanta paccottiglia poliziottesca.

A quest’ultimo proposito il rischio era grosso, rischio in termini stilistici: facile scadere nell’apoteosi o nella totale ignominia del personaggio, facile lasciarsi catturare dallo stampo giallistico, attento al plot e alle dinamiche investigative, ma spesso carente di spessore letterario. La letteratura di genere è quella infatti dove abbondano opere di scarso valore estetico, benché interessanti sotto altri profili, e pochi autori possono vantare veri e propri capolavori degni di rimanere nella storia delle lettere. Sembrano infatti tutti preoccupati dall’intreccio e scrivono un po’ come capita, come parlano o sentono parlare intorno a loro, senza cioè quella necessaria opera di cesellatura della lingua letteraria che ci si aspetta da uno scrittore propriamente detto.

Non è questo il caso di Lucarelli: in Carta bianca troviamo competenza storica (se non ricordo male Lucarelli si è laureato con una tesi sulla Polizia nella Repubblica Sociale Italiana), stile sobrio ma dotato di personalità, abile costruzione, di cui modello è il capitolo 8°, soltanto due pagine, ma soddisfacenti per intersecare sei telefonate, tre di servizio e tre alla sua donna, che rendono la dinamica della vicenda in modo efficace ed immediato, e che tradiscono della psicologia del protagonista assai di più di quanto possano tante righe esplicative e spesso stonate, con quel ricorrente “Pronto, Valeria?” senza risposta che s’insinua fra le prosaiche telefonate d’indagine quasi come una richiesta di aiuto.

Mauro Del Bianco