Cambridge, 1914.
G.H. Hardy , a soli 37 anni, è considerato il più brillante matematico inglese del suo tempo.
Ha un bell’appartamento al Trinity College, nel quale vive con una gatta di nome Hermione.
E’ un uomo alla perenne ricerca di qualcosa, anche se appare a tutti come appagato e soddisfatto. E’ un omosessuale, ma pratica il suo “vizio” con la prudenza necessaria in una società ancora dominata dallo scandalo Wilde.
Un giorno riceve una lettera da un impiegato indiano, Srinivasa Ramanujan, il quale dichiara di aver risolto un importante e complesso problema matematico, al quale da tempo lo stesso Hardy si applica senza successo.
La prima reazione è di scetticismo: possibile che un piccolo burocrate sia riuscito, senza alcuna preparazione scolastica, animato dalla sola passione per la matematica, ad arrivare molto più avanti di lui nella soluzione di quel problema?
La lettera, però, è molto lunga . Rileggendola a fondo, dopo aver in un primo momento pensato di cestinarla, Hardy si accorge di trovarsi di fronte ad un diamante grezzo di eccezionale valore.
Certo, fintanto che questo diamante rimane dov’è, è difficile che possa irradiare la sua luce, pensa Hardy.
L’occasione per entrare in contatto con Ramanujan e verificare più da vicino le sue qualità si presenta quasi subito.
Un amico di Hardy, a sua volta matematico, è in procinto di partire per l’India con la moglie.
Hardy lo incarica di contattare l’impiegato e di verificare la sua disponibilità a trasferirsi a Cambridge.
Il progetto, pur tra mille difficoltà, legate soprattutto alla resistenza del giovane all’idea di lasciare al sua famiglia ( una madre autoritaria e una giovanissima moglie, tiranneggiata dalla suocera) alla fine va in porto.
Lo studioso esperto e riconosciuto e il giovane talento finalmente si incontrano e cominciano a lavorare insieme.
Trai due si sviluppa un rapporto quasi simbiotico, tra i cui ingredienti non c’è solo la comune passione per la matematica , ma anche, nonostante la differenza d’età, di cultura, di posizione sociale, una notevole vicinanza umana.
Rapporto fruttuosissimo sul piano dei risultati, anche se destinato a risolversi in modo drammatico.
La lontananza da casa, lo stress per lo sforzo di raggiungere i risultati che si è prefisso, la difficoltà di procurarsi in misura sufficiente il cibo vegetariano ( il periodo è quello della prima guerra mondiale) minano la già fragile salute del matematico, che nel 1919 torna in India, dove è arrivata l’eco dei suoi successi e dove viene accolto come una star, e lì muore poco dopo.
Questa, in poche battute, è la storia- vera- che fornisce la trama al romanzo “Il matematico indiano” di David Leavitt.
Va detto subito che siamo di fronte ad un libro di prim’ordine.
E’ passato un quarto di secolo dall’eplosione letteraria di Leavitt e dal suo folgorante esordio a soli 23 anni con i racconti di “Ballo di famiglia” ( Family dancing).
Etichettato negli anni successivi come autore minimalista, come cantore delle inquietitudini e delle problematiche del mondo gay, con questo libro, frutto anche di un notevolissimo lavoro di ricerca, Leavitt dimostra di essere uno scrittore a tutto tondo, forse il più grande, insieme a Jonathan Franzen, della generazione di mezzo, quella dei cinquantenni che arrivano alle spalle dei grandi vecchi che hanno dominato la scena nell’ultima parte del secolo scorso ( Saul Bellow, Philiph Roth, Norman Mailer, Tom Wolfe).
Il fatto che i due protagonisti del libro parlino tra loro quasi esclusivamente di matematica non deve indurre a pensare che “Il matematico indiano” sia un libro ostico e di difficile lettura.
E’ invece, nonostante le circa seicento pagine, un libro avvincente.
Di quelli che si “divorano”.
La passione per la matematica è lo straordinario collante che unisce e fa interagire tra loro i due personaggi, ma il libro pur addentrandosi abbastanza nel versante tecnico della vicenda- il tentativo di arrivare alla dimostrazione di un’ipotesi matematica- restituisce soprattutto l’atmosfera della Cambridge del periodo della prima guerra mondiale: quasi un’isola felice per la libertà di espressione del pensiero e per la tolleranza ( anche nei confronti dell’omosessualità) che vi regnavano, a differenza di quello che accadeva nel resto della ancora puritanissima Inghilterra postvittoriana.
Il matematico indiano, insomma, non è solo un romanzo che ci racconta la vita di due studiosi.
E’ anche l’affresco di un’epoca.
E’ anche la storia di due culture diverse, quella inglese e quella indiana, che si confrontano continuamente.
Ovviamente per coloro che hanno la passione per la matematica, questo libro è il non plus ultra. Un matematico, infatti, diversamente da me, che sono un profano della materia, troverà avvincente anche quella parte del libro in cui vengono descritti i tentattivi dei due studiosi di venire a capo dell’enigma al quale stavano lavorando.
Note
Vale la pena di ricordare che, quando gli fu chiesto quale fosse il suo più grande contributo alla matematica, Hardy rispose senza esitazione che era stato la scoperta di Ramanujan. Hardy definì la loro collaborazione “l’unico incidente romantico della mia vita”.
“I limiti della sua conoscenza erano sorprendenti come la sua profondità. Era un uomo capace di risolvere equazioni modulari e teoremi… in modi mai visti prima, la cui padronanza delle frazioni continue era… superiore a quella di ogni altro matematico del mondo, che ha trovato da solo l’equazione funzionale della funzione zeta e i termini più importanti di molti dei più famosi problemi nella teoria analitica dei numeri; e tuttavia non aveva mai sentito parlare di una funzione doppiamente periodica o del teorema di Cauchy, e aveva una vaga idea di cosa fosse una funzione a variabili complesse…”
Esiste un libro che racconta le vicende di Srinivasa Ramanujan, si intitola “L’uomo che vide l’infinito” di Robert Kanigel ( ediz. Rizzoli).Trascrivo una frase di questo libro:
Ramanujan fu un matematico così grande che il suo nome trascende le gelosie, il più superlativamente grande matematico che l’india abbia prodotto nell’ultimo migliaio d’anni. I suoi sbalzi di intuizione confondono i matematici ancor oggi, sette decenni dopo la sua morte. I suoi scritti vengono scandagliati per i loro segreti. I suoi teoremi vengono applicati in aree difficilmente immaginabili quando era in vita.
FILIPPO CUSUMANO