novità editoriale scrittrice napoletana segnalata da Maurizio de Giovanni
Presentazione del romanzo thriller ambientato a Napoli di
Presentazione del romanzo thriller ambientato a Napoli di
C’è un tema assai dibattuto in letteratura: in che misura è giustificato l’interesse per la vita di uno scrittore?
Conoscere traumi dell’infanzia, vicissitudini amorose, rovesci economici,disturbi digestivi e difficoltà respiratorie di un poeta o di un romanziere ci mette in condizione di capire ed interpretare meglio al sua opera?
C’è chi dice di si’ , chi dice di no.
Una cosa pero’ è certa: che ricevere informazioni sulla vita degli scrittori – al di la’ delle chiavi di lettura che queste possono offrire o meno sulla loro opera – puo’ essere istruttivo e divertente.
E infatti molto istruttivo e divertente è il libro di Bruna Durante “Specchio delle mie trame“, pubblicato da Mimesi.
Il libro contiene dieci interviste a dieci scrittori italiani : Eraldo Baldini, Gianni Biondillo, Giancarlo De Cataldo,Giorgio Faletti, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Raul Montanari, Santo Piazzese, Andrea G. Pinketts, Gaetano Savatteri.
Dice Bruna Durante:
“Anni fa sono andata con alcuni amici scrittori ad un festival di letteratura in Francia e lì, lontano da casa, dalla fama (per alcuni) sono emerse le loro vere personalità . Così ho pensato che sarebbe stato divertente far conoscere ai lettori, le loro vite, le loro famiglie di origine, ciò che pensano della vita in generale, insomma da dove nascono quelle storie, a volte terribili, che scrivono. Ecco, se il libro è interessante ed emozionante il merito è dei miei amici scrittori. Io ho solo trascritto ciò che loro mi hanno raccontato confidandomi i loro segreti.”
Diciamo subito che Bruna Durante ci sa fare.
In particolare le vanno riconosciuti due meriti: il primo è quello di essere riuscita a creare con gli intervistati un rapporto di grande confidenza ( molti di loro si raccontano a lei come si racconterebbero ad una vecchia amica, di quelle alle quali è inutile raccontare balle perchè, appena lo fai, ti sgamano subito e ti ridono in faccia).
Il secondo merito è che fa sempre le domande “giuste”.
Quelle che noi lettori vorremmo fare.
Ma, come dico sempre, un libro è come un melone, è meglio estrarne un tassello per sapere quanto è buono, piuttosto che guardarlo dall’esterno o palpeggiarlo.Così rimando tutti alla lettura di questo breve squarcio di una delle interviste del libro: quella a Raul Montanari.
E poi ditemi se non è divertente e istruttiva….
Cosa deve avere un libro per piacerti?
Fondamentalmente tre cose: o la scrittura o la storia o i contenuti. Se poi ci sono tutt’e tre ancora meglio.
Aldo Busi per esempio è uno scrittore di scrittura perché quasi non racconta storie, infatti è impossibile fare film dai suoi libri: se togli la scrittura ti rimane poco da trasportare al cinema.
Niccolò Ammaniti è uno scrittore di storie, ha fatto un grande e intelligente lavoro di sottrazione nella scrittura che caratterizza il suo stile veloce, ma è evidente che il lettore di Ammaniti è più interessato alla storia che non alla scrittura, infatti i libri di Ammaniti possono diventare film.
Poi ci sono libri e autori in cui c’è poca scrittura, poca storia ma viene detta una cosa talmente importante, talmente forte che quel libro vale la pena di leggerlo comunque, come per esempio il primo libro di Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, bruttissimo, con una storia assurda, personaggi insopportabili e una scrittura sciatta senza ancora la finezza che l’autore ha poi acquisito ma con un concetto molto originale che non avevomai trovato messo al centro di un testo narrativo con la forza con cui lo fa Houellebecq.
Lo scopo dello scrittore è quindi quello di comunicare un’impressione che non si potrà più dimenticare?
Tutti gli scrittori sognano di riuscire a scrivere almeno un libro indimenticabile.
Per farlo ci vuole bravura, coraggio e anche fortuna ma soprattutto bisogna saper imitare il reale perché la natura fondamentale del raccontoè l’imitazione della realtà, non quella quotidiana però.
Con i mattoni del reale si costruiscono edifici narrativi che nella realtà non esistono e per questo sono così interessanti da abitare sia per lo scrittore sia per il lettore.
Anche i Formalisti russi sostenevano che l’operazione fondamentale del narratore non è raccontare la storia, ma restituire al lettore il mondo comese il lettore lo vedesse per la prima volta.
Gli scrittori allora riescono a vedere il lato oscuro dell’umanità che gli altri non vedono?
Innanzitutto lo scrittore deve conservare lo stupore che hanno i bambini, riuscire a vedere le cose con uno sguardo vergine.
Goethe diceva che bisogna conservare la capacità di meravigliarsi, che poi è la teoria sartriana de La nausea.
Poi ti dò due risposte: la prima è che ci sono un sacco di persone che hanno la stessa sensibilità degli scrittori, a volte anche superiore ma la differenza tra uno scrittore ed una persona che non lo è risiede nella capacità espressiva: sentire sentiamo tutti, il problema è scrivere.
L’altra risposta è che sicuramente – come diceva Thomas Mann – lo scrittore deve avere nei confronti della vita e delle esperienze che fa, che sono più o meno uguali a quelle degli altri, una distanza di osservazione in modo da poter adoperare poi quelle esperienze nella narrazione.
Vuoi dire che lo scrittore vampirizza la propria vita e quella degli altri?
Esatto, ed è anche un vampiro schizofrenico.
La metafora perfetta del rapporto dell’artista con la propria vita non è in un libro ma in una scena del film Amadeus di Milos Forman: Mozart, tubercolotico, alcolizzato, torna a casa una mattina dopo aver gozzovigliato con gli attori con cui lavoraa Il Flauto Magico e si accorge che sua moglie Costanza se n’è andata portando con sé suo figlio.
Disperato, fa la cosa più umiliante per un uomo che è quella di andare in ginocchio da sua suocera, quella terribile suocera grassa con la faccia da Austriaca che quasi non lo fa parlare e lo aggredisce gridando:”Tu sei un mostro, un mostroooo!!”, ma mentre la suocera urla si vede Mozart che guarda la bocca della suocera inquadrata sempre più da vicino, e improvvisamente i suoi strilli diventano i gorgheggi sublimi di un’aria della Regina della Notte ne Il Flauto Magico.
Ecco, Mozart è lì nella merda più totale, eppure trasforma la merda in capolavoro. Anche a me è successa una cosa analoga.
E cioè?
Stavo con una ragazza che mi piaceva molto, litighiamo e lei mi dimostra che sono un pezzo di merda e mentre l’ascolto, disperato, c’è un angolino del mio cervello che pensa velocemente: ”Mmh, perfetto, questo è ottimo per il dialogo tra X e Y che devo mettere nel capitolo quattro”.
In che modo sta cambiando il modo di costruire l’informazione?
Una volta l’informazione era il prodotto di un solo artefice. Il giornalista andava a cercare la notizia, la riportava su un giornale e quel giornale diventava il mezzo di divulgazione di quella informazione.
Niente filtrava di quella notizia, se non in ambiti estremamente circoscritti prima dell’intervento del giornalista, che era di fatto “scopritore” e “diffusore” dell’evento che solo grazie a lui e al suo intervento diventava di dominio pubblico.
La televisione non aveva cambiato questo aspetto della catena di distribuzione delle news.
Il “demiurgo”, lo scopritore di notizie era sempre il giornalista: semplicemente il mezzo televisivo era enormemente più potente e pervasivo di quello cartaceo e aveva a sua disposizione la forza delle immagini filmate.
Oggi è evidente che la catena di produzione delle informazioni è radicalmente cambiata rispetto all’epoca, ancora a noi così vicina nel tempo, del giornalista “demiurgo”.
Ce lo dice con grande incisività e chiarezza l’ultimo libro di Michele Mezza “Sono le news, bellezza! Vincitori e vinti nella guerra della velocità digitale” ( Donzelli editore)
“Siamo all’inizio di un processo di liberalizzazione dell’individuo– ci dice l’autore, eminente giornalista e docente di Scienza della comunicazione all’università di Perugia e di Roma- di ogni individuo, che ci porterà a riconfigurare ruoli e figure sociali . A cominciare dagli intellettuali, che non a caso, sono i più scettici”.
La rete, lo puntualizza già Derrick De Kerckhove nella prefazione, è diventata in brevissimo tempo il luogo in cui si costruisce grandissima parte dell’informazione.
La fabbrica e non solo la piattaforma di distribuzione.
Ci sono stati anni, lo ricordiamo tutti, in cui Internet sembrava un’opportunità per pochi, uno strumento per professionisti, per iniziati.
Ve la ricordate l’epoca della cosidetta bolla specutiva legata alla new economy? Stiamo parlando di appena una decina di anni fa….
Era l’epoca in cui bastava avere la notizia che un’azienda aveva creato un suo sito, magari anche un semplicissimo accesso informatico, per vederne schizzare alle stelle il titolo.
Poi quella bolla si e’ sgonfiata anche perchè ci si e’ resi conto che quel modo di lavorare non solo era “necessario” per tutti gli addetti ai lavori, ma era anche semplice e alla portata di tutti.
Chi di noi in quegli anni, sentendo un amico o un vicino vantarsi di avere un blog, non pensavamo a lui come ad uno “smanettone”, ad una persona cioè dotata di grandissime tecnicalità lontanissime dalla nostra portata?
Salvo poi scoprire, una volta entrati in punta di piedi in quel mondo, che aprire un blog è cosa semplicissima e alla portata di tutti.
Piano piano quei siti e quei blog, nati come sede di distribuzione e di commento delle notizie acquisite dal giornalista demiurgo sono diventati, però, fabbrica di notizie a loro volta.
Insomma la rete in brevissimo tempo da vetrina di esposizione delle news e’ diventata fabbrica, il luogo in cui quelle news vengono “prodotte”.
E il grande comunicatore di massa, il giornalista della carta stampata e della tv, che conserva- chissà ancora per quanto- il privilegio di disporre dei mezzi più potenti- da scopritore della notizia è diventato prevalentemente “selezionatore” delle notizie “scoperte” o lanciate da altri.
E’ il tramonto del giornalismo?
No, è semplicemente una mutazione genetica.
Un cambio di passo necessario per chi fa questo mestiere.
Maneggiare le teconologie informatiche diventa una necessità, lo strumento principe, non più una semplice opzione.
Quello che una volta si definiva il fiuto giornalistico, cioè la capacita’ di scoprire la notizia, adesso è diventata la capacità di pescare nel mare magnum della rete, con il compito non facile di distinguere, nel mare magnum della rete, le notizie vere dalle bufale.
Senza dimenticare che anche una bufala, quando sono in molti a crederci perchè ben costruita e ben distribuita attraverso la rete, può diventare una notizia….
Chiudo citando un passo di un’intervista fatta da Grazia Gaspari a Michele Mezza per il giornale on line AGORAVOX:
Michele, un’idea di fondo gira, appunto, per questo libro: la rete non è una vetrina, ma una fabbrica, e chi non lo capisce la subisce e non la sfrutta nelle sue vere potenzialità. Cosa comporta praticamente?
In politica, ad esempio, molto. Proprio in questi giorni abbiamo sotto i nostri occhi una straordinaria storia della rete: la rivoluzione egiziana. Al Cairo, come a Tunisi, si è visto che la rete non è solo un megafono, ma è opratutto un soggetto sociale, un luogo che forma identità e bisogni. In piazza e’ scesa la “gioventù connessa” egiziana che rivendicava spazi alle proprie ambizioni.
La stessa cosa vale per la grande manifestazione della donne di domenica scorsa “Se non ora quando?”, una manifestazione sostanzialmente preparata e sbocciata in rete. Nessun giornale o tv ne aveva parlato, nessuna agenzia di stampa. Eppure un milione di persone sono scese in piazza in tutta Italia. Non solo, decine e decine di manifestazioni si sono svolte in tutto il mondo… Tokio compresa.
FILIPPO CUSUMANO
Aleksej Kručënych, Vittoria sul sole, a cura di Michaela Böhmig, La Mongolfiera Editrice Alternativa, 2003
Quella sera del 3 dicembre 1913 gli spettatori accorsi al teatro Luna Park di San Pietroburgo potevano legittimamente aspettarsi delle stranezze, considerando che tra i firmatari della rappresentazione Vittoria sul sole c’erano nomi già apparsi su manifesti sovvertitori dell’ordine delle arti e già noti per la loro stravaganza, ma non avrebbero mai potuto immaginare la totale eversione di ogni equilibrio spaziale, temporale, prospettico, semantico, teleologico, ideologico, ontologico, di qualunque ordine logico accettabile. Al termine dei due atti la maggior parte del pubblico rimase attonita, smarrita come di fronte al nero abisso dell’infinito cosmico, scioccata come di fronte ad un follia, altri inveirono disgustati con urla minacciose e fischi, qualcuno rise, pochi applaudirono, probabilmente gli amici e i colleghi degli autori. Che erano tre, anzi quattro considerando l’autore del prologo: Aleksej Kručënych, Velimir Chlebnikov, Michajl Matjušin e Kazimir Malevič, autori rispettivamente del dramma, del prologo, delle musiche (a chiamarle musiche) e della scenografia nonché dei costumi.
Perché tanto scandalo? Facciamo un passo indietro. Anzi: due.
Tra i firmatari dei manifesti futuristi russi, fra i quali il celeberrimo Schiaffo al gusto corrente di un anno prima, c’è anche un tale Aleksej Kručënych, geniale inventore di estetiche lettriste (e ben prima, un trentennio abbondante, che Isidore Isou proclami a Parigi la dittatura del lettrismo, contestato da quegli esuli russi, come il poeta georgiano Iliazd, che ricordavano benissimo le follie linguistiche di Kručënych e del gruppo dadaista 41°) ed inesauste avanguardie, ma non così poeticamente ingegnoso, profondo e prestigioso come il suo sodale Chlebnikov. Più un fantasioso istintivo che un metodico costruttore, più uno sciamano che un ingegnere del linguaggio. Nel 1912 pubblica Starinnaja ljubov’ (Amore all’antica) il primo libro d’avanguardia e all’avanguardia come oggetto-libro: trattasi di quattordici fogli non rilegati di carta da pacchi, e pure tagliata male, infilati in una copertina, manoscritti e litografati, testi di Kručënych e disegni di Larionov, dove l’autore attua una omogeneità, perlomeno visiva, di testo e pittura che sembrano incisi dalla stessa mano. E questo è un primo esperimento di fusione, di totalità artistica.
Fautore dello zaumnyj jazyk, del linguaggio transmentale, o più brevemente zaum’, un astrattismo fonico di lettere e fonemi anarchicamente fluenti da una fantasia “senza offesa di concreto“, come ebbe a chiosare lui stesso, un inseguirsi di lettere senza capo né coda ma dalla sconcertante potenza onomatopeica e perciò evocativa (il celebre verso dyr bul ščyl “sulle sue labbra aveva qualcosa di sciamanico” testimonia l’insigne slavista Vittorio Strada che lo conobbe ormai vecchio, dimenticato e alla fine), Kručënych prosegue nelle sue pubblicazioni eccentriche e confeziona Mirskonca (Mondoallarovescia) insieme a Velimir Chlebnikov, dove il progetto di rivoltare le regole esistenti riguarda prima ancora che il contenuto dei testi il raccoglitore dei testi stessi, il libro, che stavolta viene scomposto, disarticolato, differenziato, decostruito: carta di tipo e qualità assortiti, scrittura soltanto sulle pagine dispari, molti illustratori con stili disparati, caratteri impressi sulla carta per mezzo di litografie e timbri di gomma, inchiostri variegati, e varia è la grafia che muta al mutare del sentimento del poeta, rendendo leggibile il cambiamento di stato d’animo. E questo è un primo esperimento di capovolgimento, di sovvertimento dell’ordine tipografico che nel titolo si riferisce all’idea di un mondo alla rovescia.
Il 18 luglio 1913, circa cinque mesi prima della rappresentazione di Vittoria sul sole, si incontrano a Uusikirkko in Finlandia (allora provincia dell’Impero zarista) Aleksej Kručënych, Kazimir Malevič e Michajl Matjušin, e nella dacia di quest’ultimo danno vita al “Primo congresso panrusso dei rapsodi del futuro”, intenzionati a creare un’opera di rinnovamento assoluto dell’arte, quella che si potrebbe definire l’Opera Totale o l’Opera Assoluta. I tre se ne escono con una Dichiarazione nella quale si attesta tra l’altro la volontà di abrogare i processi logici fondati sulla legge di causa-effetto e di farla finita con il buonsenso, la logica simmetrica e il sentimentalismo simbolista, per fare spazio finalmente alla potenza creativa degli uomini nuovi.
Gli uomini nuovi ci sono, o almeno c’è l’idea coniata da Chlebnikov dei budetljane, “gli abitanti del sarà” o futuriani. Colossi futuriani saranno infatti i protagonisti del dramma intitolato Pobeda nad solncem (Vittoria sul sole), i titani che daranno l’assalto al cielo.
L’opera è composta di un prologo e due azioni o atti. Il prologo è scritto da Chlebnikov che si diverte con le radici linguistiche slave per dare vita a brillanti, impensabili, straordinari neologismi (il cui fascino estetico nelle traduzioni può essere soltanto intuito), con il suo tipico approccio sapiente e irrazionale, magicamente scientifico e scientificamente magico, nel senso di sistematico e filologico ma senza verificabile fondamento linguistico (laddove Kručënych nella sua logopoiesi è pure irrazionale ma caoticamente arbitrario).
Il primo atto illustra la battaglia condotta dai Titani Futuriani contro il Sole , simbolo del vecchio mondo, il cui abbattimento da parte dei colossi allude allo scardinamento dei canoni estetici vigenti: “abbiamo sparato al passato” gridano gli abitanti del mondo nuovo.
Il secondo atto è ambientato appunto in questo mondo nuovo, un mondo alla rovescia, dove cessano di essere valide tutte le regole del vivere quotidiano: il tempo scorre all’indietro, non c’è legge di gravità, le finestre delle case guardano all’interno, il regime delle proporzioni e della prospettiva è impazzito, mentre i vari personaggi del dramma, tra i quali il “Viaggiatore del tempo”, il “Nerone e Caligola” (una sola persona), il “Grassone”, il “Codardo”, il “Titano budetljanin”, l'”Aviatore”, parlano secondo una sintassi decostruita attraverso lo sdvig “spostamento”, traduzione del francese déplacement, scomposizione cubista che riaggrega i frammenti verbali in modo nuovo e inaspettato dando luogo a straniamento e insensatezza, fino a toccare le vette dell’assurdo nei versi zaum’ della canzone filistea e della canzone di guerra.
Come il testo di Kručënych è in realtà una non-trama, senza sviluppo spazio-temporale e senza climax drammatico, così la trama musicale di Matjušin è priva di melodia classicamente intesa, ma ordita con trovate rumoriste (la strada, i clacson, i cantieri, la folla) e le scenografie di Malevič dissolvono l’ordine delle forme nello spazio, anticipando temi che distingueranno il Suprematismo: il sole rappresentato sul sipario da un quadrato nero, le scatole sceniche basate sul cromatismo bianco e nero, il nero su nero (pavimento e pareti) che segna la sconfitta del sole e l’avvento del buio; e un certo Costruttivismo: le case con le finestre irregolari, la mitragliatrice futurista, la locomotiva, l’aeroplano, eliche, ruote e altri dispositivi meccanici (per Kručënych il dramma doveva rappresentare il trionfo del tecnico sul naturalistico), il tutto illuminato da un sistema di luci veramente innovativo rispetto alla tecnica allora diffusa nei teatri europei.
Opera Assoluta e Totale quindi non solo nella fusione di letteratura, pittura, musica e arte plastica, ma anche nel suo volersi anticipatrice di molti sviluppi avanguardisti di là da venire, dal Dada al Surrealismo, presunzione futuriana di voler essere principio e fine dell’arte: secondo lo studioso delle avanguardie Nikolaj Chardžiev, Kručënych è già dadaista prima ancora che il non-senso dada sia pronunciato da Tzara e soci; in un fotomontaggio i tre autori del dramma sono ritratti sotto la minaccia di un pianoforte capovolto e appeso al soffitto, anticipando analoghi collages surrealisti e immaginisti.
“Tutto è bene ciò che comincia bene, e non ha fine, il mondo finirà ma per noi la fine non sarà” canta il coro finale dei Titani Futuriani, chiara epitome di una volontà di potenza tesa al superamento assoluto dello spazio e del tempo attraverso il cataclisma dei piani logici ordinari, risentendo ideologicamente tale visione delle indagini scientifiche ed occultiste allora in voga sulle geometrie non euclidee, sulla logica iperbolica e sulla super-razionalità trascendentale legata all’iperspazio, fino a tradurne artisticamente l’utopia.
In seguito Kručënych animerà durante gli anni della guerra civile il gruppo del 41° che si riuniva alla Fantastičeskij kabačok (Fantastica Taverna) della georgiana Tiflis (Tbilisi), dove ancora più rilevante diventa la componente dadaista. Rientrato a Mosca nei primi anni ’20 per portare avanti la sua inesauribile produzione d’avanguardia, sarà costretto alla clandestinità negli anni dell’opprimente realismo di regime e a scomparire dalla scena artistica occultandosi in una komunalka, uno di quei famigerati appartamenti collettivi con un unico gabinetto ed un’unica cucina per tutti gli inquilini, dove vivrà in una stanza zeppa di libri e soltanto una branda, fino alla sua morte avvenuta nel 1968, quando in Occidente le teorie e le pratiche di “fantasia al potere” e, ossimoricamente, di volontà totalitaria, avranno nuova linfa e nuova fioritura nell’ultima esplosione di avanguardia europea, cui non saranno estranei quei situazionisti passati attraverso il lettrismo debitore a sua volta dello zaumnyj jazyk ideato da Kručënych.
Oggi ci resta il piacere intellettuale e il fascino estetico dell’avanguardia ‘900, poiché come ha scritto Vittorio Strada a proposito di una rappresentazione contemporanea di Vittoria sul sole, “il dadafuturismo ha smesso da tempo di epater borghesi e proletari. Ma diverte davvero. E in un mondo squallido come il nostro non è poco.”
Mauro Del Bianco
William Gibson, Luce Virtuale, Mondadori 2008
La letteratura cyberpunk, nella penna di taluno dei suoi fondatori, come William Gibson, ha saputo vedere lontano, intuendo con perspicacia visionaria, talvolta solo tra le righe, sottotraccia, il rovescio della medaglia di quella società ipertecnologica e spettacolare che si andava annunciando alla fine degli anni ’70, l’altro lato del cartone di sfondo della splendida Parvenza che cela una squallida Sostanza o la totale assenza di Sostanza.
Molti dettagli di Luce virtuale, il primo dei tre romanzi che costituiscono la Trilogia del Ponte, precisano infatti il paesaggio di una società fondata sull’immagine, sulla rappresentazione, un’Era della Parvenza talmente sofisticata da non accontentarsi più della riproduzione/adorazione dell’immagine-copia-di-realtà, ma che è già arrivata ad identificarsi nell’immagine virtuale slegata da ogni riferimento sostanziale, l’icona illusoria che i giapponesi chiamano Aidoru (titolo del secondo romanzo della Trilogia): dagli ologrammi decorativi sui cofani delle auto a quelli che riproducono nude geishe in notti di luna, dagli occhiali che procurano visioni consolatorie alle trasmissioni televisive a contenuto pseudoreligioso – i televangelisti – o con funzione assistenziale-legale (Poliziotti nei guai), dalla necessità per chiunque di avere un proprio agente, come ce l’hanno i cineasti, i cantanti e i calciatori, a falsi storici e ideologici quali il Gotico Sudista, invenzione commerciale di un occultismo dixie mai esistito, dalle corporation di polizia privata con sede a Singapore che trattano i cittadini come clienti (il cliente ha sempre ragione) e la legalità e il diritto come un business (“sono clienti, nessuno si è fatto male, per cui ti togli dalle palle, okay?“) al programma di identificazione investigativa che basa l’identikit sulla somiglianza con attori o gente dello spettacolo, sicchè uno dei protagonisti è Tommy Lee Jones, un altro è Rainer Fassbinder e così via. Un mondo di plastica, un incubo schizoide in cui “(…) le loro vite assomigliavano a quello che uno vedeva in TV, ma non lo erano“.
Nel romanzo, originale trasposizione in un futuro terremotato di un contesto epico medievale (gli occhiali dalla vista magica, il cavaliere che lotta per salvare la fanciulla dai malvagi, la disputa per il tesoro, il quartiere casbah abbarbicato ai piloni e ai viadotti del Bay Bridge di San Francisco come le costruzioni elevate sui ponti della Parigi di Villon: “E quel ponte, amico, è un posto brutto. Pieno di anarchici, anticristi, fottuti cannibali, amico (….) praticamente fuori dalla portata della legge“), un futuro in cui i vecchi Stati Uniti sono separati in casa, con una NOrth CALifornia e una SOuth CALifornia, Tokyo e San Francisco sono state devastate e azzerate dal Big One, ziggurat foderate di specchi si slanciano nel cielo sporco di Città del Messico mentre la misera periferia è bombardata da missili di una guerra appunto periferica e perciò eterea come un evento televisivo, nella penisola italiana è sorto uno Stato chiamato Padania, e i suoi abitanti padanesi (sic!), un’imprecisata guerriglia è condotta da un Fronte Separatista di Sonora, e un fronte di liberazione neozelandese, che trasmette in TV comunicati anarco-sciamanici, contrasta truppe giapponesi di pacificazione a bordo di carri armati, il molteplice, proteiforme e caotico manifestarsi del fenomeno postmoderno della Parvenza è sintetizzato da un ricercatore nipponico con la parola “Thomasson”:
“Thomasson era un giocatore di baseball americano, molto bello, molto potente. Venne acquistato dai Yomiyuri Giants nel 1982 per una grossa somma di denaro. Poi si scoprì che non sapeva colpire la palla. Lo scrittore e artigiano Genpei Akasegawa si appropriò del suo nome per descrivere certi monumenti inutili e inesplicabili (…)“.
Alle origini della Storia, nell’Era della Renna, il tomahawk con potenza di sacra folgore del cacciatore-poeta paleolitico.
Alla fine della Storia, nell’Era della Parvenza, il thomasson, che della folgore ha solo l’abbagliante ed effimero barbaglio.
L’Era della Parvenza che genera il thomasson ha tra le sue prerogative fondamentali la friabilità della causa, da intendersi quest’ultima come ragione funzionale delle cose ideata in virtù della loro destinazione. Non vi è più certezza condivisa sulla ragionevolezza nell’uso delle cose, che impassibilmente si consolida in abuso: l’oggetto-fulcro del romanzo, un paio di occhiali a luce virtuale, era stato inventato per i ciechi, poiché agendo direttamente con impulsi elettronici sul nervo ottico, purchè sano, avrebbe consentito anche ad un cieco di vedere. Causa meritevole e umanitaria. In apparenza, appunto. Infatti nel romanzo tale causa è citata distrattamente quasi come un residuo primitivo, essendo la causa attuale e più gettonata dalla massa – la folla solitaria – lo spettacolare e onanistico sesso virtuale.
Il concetto di relatività o friabilità della causa (da preferirsi friabilità in quanto evoca l’idea di un qualcosa che si atomizza in innumerevoli, caotici e mutanti frattali) favorisce lo sviluppo di grandi affari, perché l’Era della Parvenza è soprattutto l’epoca del Mercato. E talvolta si presta al liberticidio autorizzato e passivamente accettato. Quanta indipendenza abbiamo già sacrificato sull’altare della comodità tecnologica disseminando lo spazio virtuale di tracce informatiche alla mercè della merce? Quanto ancora per incessanti miraggi di falso benessere?
“(…) gli era sembrata la cosa migliore di una lunga serie a cui pensava di potersi abituare senza difficoltà. Come volare in business-class o avere una carta di credito della SoCal MexAmeriBank (…)“
In un ipotetico mondo di ipermercati come il Container City, dove ci si indebita prima di entrare garantendo così l’acquisto della merce e privando la persona della libertà di non comprare, il contante – che ha il grande pregio dell’anonimato – sparisce per sempre dalle transazioni commerciali, sostituito dalla più comoda, veloce, universale e inesauribile (si fa per dire) carta di credito. Chi ha il controllo dei codici allora ha un potere enorme, il Potere: non sei conforme alle logiche sociali vigenti? ti disabilito la carta.
“Il giorno dopo, la rete staccò la spina della sua carta MexAmeriBank“.
È uno dei tanti inganni della Parvenza: tutto ciò che è virtuale non ha sostanza, ma avendo usurpato il ruolo della sostanza ne determina paradossalmente il destino se si sconfina oltre il circuito della simulazione. E così le Borse crollano o svettano per mera virtualità, intere fortune sono fondate sulle sabbie mobili dell’apparente, sancito in carta bollata ma non rinvenibile materialmente in alcun luogo, la competenza è un sentito dire, la qualità un’immagine certificata dai guitti del reality o del talk show, la storia una chiacchiera, l’indegnità una calunnia, quattro opinioni fanno un vangelo, il dato più cliccato è quello accettato indiscutibilmente come vero.
Uomo di Cro-magnon, dove sei?
Il romanzo di Gibson si snoda come un giallo, un noir con un bel plot, un avvincente incalzare di azioni, eventi, sorprese, con l’immancabile, ottimistico, americano, happy end… ? Sì, alla fine tutto finisce bene, i colpevoli sono assicurati alla giustizia, i cattivi che muovono i fili della cospirazione smascherati, carriere ripristinate e libertà riacquistate, nonché reputazioni ristabilite, ma… ma la produzione del reality si getta come un avvoltoio sulla vicenda e ne fa un format televisivo, quel briciolo di realtà vissuta all’ombra della rappresentazione virtuale, con le sue ansie, la paura, la gioia, i lutti, l’amicizia, l’amore, la sofferenza, le sciocchezze, le miserie e i grandi gesti, ciò che è vita vera, tutto viene riassorbito, commutato e distorto in immagine, inesorabilmente.
C’è ancora un vecchio tuttavia, un vecchio e la sua memoria e la sua consapevolezza di essere che sopravvivono lassù, che resistono in cima al pilone centrale del ponte. C’è ancora un domani:
“Volevano trasportarla in fondo al ponte, lasciarla alla città. Dicevano che sarebbe morta prima di arrivare, comunque. Gli ho detto che potevano andare a farsi fottere tutti quanti. L’ho portata quassù. Potevo ancora farlo. Perché? Perché. Vedi qualcuno che sta morendo, gli passi vicino come se fosse alla televisione?“.
Mauro Del Bianco
Cambridge, 1914.
G.H. Hardy , a soli 37 anni, è considerato il più brillante matematico inglese del suo tempo.
Ha un bell’appartamento al Trinity College, nel quale vive con una gatta di nome Hermione.
E’ un uomo alla perenne ricerca di qualcosa, anche se appare a tutti come appagato e soddisfatto. E’ un omosessuale, ma pratica il suo “vizio” con la prudenza necessaria in una società ancora dominata dallo scandalo Wilde.
Un giorno riceve una lettera da un impiegato indiano, Srinivasa Ramanujan, il quale dichiara di aver risolto un importante e complesso problema matematico, al quale da tempo lo stesso Hardy si applica senza successo.
La prima reazione è di scetticismo: possibile che un piccolo burocrate sia riuscito, senza alcuna preparazione scolastica, animato dalla sola passione per la matematica, ad arrivare molto più avanti di lui nella soluzione di quel problema?
La lettera, però, è molto lunga . Rileggendola a fondo, dopo aver in un primo momento pensato di cestinarla, Hardy si accorge di trovarsi di fronte ad un diamante grezzo di eccezionale valore.
Certo, fintanto che questo diamante rimane dov’è, è difficile che possa irradiare la sua luce, pensa Hardy.
L’occasione per entrare in contatto con Ramanujan e verificare più da vicino le sue qualità si presenta quasi subito.
Un amico di Hardy, a sua volta matematico, è in procinto di partire per l’India con la moglie.
Hardy lo incarica di contattare l’impiegato e di verificare la sua disponibilità a trasferirsi a Cambridge.
Il progetto, pur tra mille difficoltà, legate soprattutto alla resistenza del giovane all’idea di lasciare al sua famiglia ( una madre autoritaria e una giovanissima moglie, tiranneggiata dalla suocera) alla fine va in porto.
Lo studioso esperto e riconosciuto e il giovane talento finalmente si incontrano e cominciano a lavorare insieme.
Trai due si sviluppa un rapporto quasi simbiotico, tra i cui ingredienti non c’è solo la comune passione per la matematica , ma anche, nonostante la differenza d’età, di cultura, di posizione sociale, una notevole vicinanza umana.
Rapporto fruttuosissimo sul piano dei risultati, anche se destinato a risolversi in modo drammatico.
La lontananza da casa, lo stress per lo sforzo di raggiungere i risultati che si è prefisso, la difficoltà di procurarsi in misura sufficiente il cibo vegetariano ( il periodo è quello della prima guerra mondiale) minano la già fragile salute del matematico, che nel 1919 torna in India, dove è arrivata l’eco dei suoi successi e dove viene accolto come una star, e lì muore poco dopo.
Questa, in poche battute, è la storia- vera- che fornisce la trama al romanzo “Il matematico indiano” di David Leavitt.
Va detto subito che siamo di fronte ad un libro di prim’ordine.
E’ passato un quarto di secolo dall’eplosione letteraria di Leavitt e dal suo folgorante esordio a soli 23 anni con i racconti di “Ballo di famiglia” ( Family dancing).
Etichettato negli anni successivi come autore minimalista, come cantore delle inquietitudini e delle problematiche del mondo gay, con questo libro, frutto anche di un notevolissimo lavoro di ricerca, Leavitt dimostra di essere uno scrittore a tutto tondo, forse il più grande, insieme a Jonathan Franzen, della generazione di mezzo, quella dei cinquantenni che arrivano alle spalle dei grandi vecchi che hanno dominato la scena nell’ultima parte del secolo scorso ( Saul Bellow, Philiph Roth, Norman Mailer, Tom Wolfe).
Il fatto che i due protagonisti del libro parlino tra loro quasi esclusivamente di matematica non deve indurre a pensare che “Il matematico indiano” sia un libro ostico e di difficile lettura.
E’ invece, nonostante le circa seicento pagine, un libro avvincente.
Di quelli che si “divorano”.
La passione per la matematica è lo straordinario collante che unisce e fa interagire tra loro i due personaggi, ma il libro pur addentrandosi abbastanza nel versante tecnico della vicenda- il tentativo di arrivare alla dimostrazione di un’ipotesi matematica- restituisce soprattutto l’atmosfera della Cambridge del periodo della prima guerra mondiale: quasi un’isola felice per la libertà di espressione del pensiero e per la tolleranza ( anche nei confronti dell’omosessualità) che vi regnavano, a differenza di quello che accadeva nel resto della ancora puritanissima Inghilterra postvittoriana.
Il matematico indiano, insomma, non è solo un romanzo che ci racconta la vita di due studiosi.
E’ anche l’affresco di un’epoca.
E’ anche la storia di due culture diverse, quella inglese e quella indiana, che si confrontano continuamente.
Ovviamente per coloro che hanno la passione per la matematica, questo libro è il non plus ultra. Un matematico, infatti, diversamente da me, che sono un profano della materia, troverà avvincente anche quella parte del libro in cui vengono descritti i tentattivi dei due studiosi di venire a capo dell’enigma al quale stavano lavorando.
Note
Vale la pena di ricordare che, quando gli fu chiesto quale fosse il suo più grande contributo alla matematica, Hardy rispose senza esitazione che era stato la scoperta di Ramanujan. Hardy definì la loro collaborazione “l’unico incidente romantico della mia vita”.
“I limiti della sua conoscenza erano sorprendenti come la sua profondità. Era un uomo capace di risolvere equazioni modulari e teoremi… in modi mai visti prima, la cui padronanza delle frazioni continue era… superiore a quella di ogni altro matematico del mondo, che ha trovato da solo l’equazione funzionale della funzione zeta e i termini più importanti di molti dei più famosi problemi nella teoria analitica dei numeri; e tuttavia non aveva mai sentito parlare di una funzione doppiamente periodica o del teorema di Cauchy, e aveva una vaga idea di cosa fosse una funzione a variabili complesse…”
Esiste un libro che racconta le vicende di Srinivasa Ramanujan, si intitola “L’uomo che vide l’infinito” di Robert Kanigel ( ediz. Rizzoli).Trascrivo una frase di questo libro:
Ramanujan fu un matematico così grande che il suo nome trascende le gelosie, il più superlativamente grande matematico che l’india abbia prodotto nell’ultimo migliaio d’anni. I suoi sbalzi di intuizione confondono i matematici ancor oggi, sette decenni dopo la sua morte. I suoi scritti vengono scandagliati per i loro segreti. I suoi teoremi vengono applicati in aree difficilmente immaginabili quando era in vita.
FILIPPO CUSUMANO
Ho acquistato un libro, un libro di racconti: LA GEOMETRIA DEGLI INGANNI, l’autore è Luca Martini, ha 37 anni, è di Bologna, l’editore è Voras di Ravenna. L’autore non è conosciuto. Dopo aver letto il libro mi dico: “Ancora per poco”.
Talvolta, ci si ritrova senza accorgersene a farsi lucidamente i propri conti in tasca per fare anche una piccola scelta: io che in questo periodo di soldi davvero non ne ho (non andrò, ahimè, nemmeno in vacanza quest’anno..) so però che non ha prezzo il talento di una persona, di uno scrittore in questo caso. Si tratta di un esordiente, è vero, almeno per la narrativa, conosco ben poco di lui praticamente nulla, ma qualcosa già posso intuire, ad esempio dal titolo “La geometria degli inganni” e dalla descrizione in quarta pagina. Mentre la scelta si avvicina, aggiungo un pizzico di curiosità per darle una spinta più decisa nella direzione inconsciamente voluta, e all’improvviso mi accorgo che…sono già affascinata sull’ipotesi di contenuto. Il “rischio di impresa” a quel punto si chiarisce: rischierò di buttare via quei pochi soldi che ho, ma rischierò anche di regalare a me stessa prima di tutto e in secondo luogo di contribuire a regalare al mondo una voce che non può restare nascosta, che le persone devono conoscere.
La capacità di Martini di guardare con garbata e mai superficiale leggerezza agli inganni ed alle meschinità che spesso si celano nelle relazioni umane, alle difficoltà ed alle sconfitte della vita, e poi di regalarci quel suo sguardo con la delicatezza di chi conosce bene la materia che sta trattando (la sensibilità dell’anima umana, che a volte può essere molto forte, ma talvolta è di una fragilità disarmante) fanno intuire una sorta di vulcano che si sta preparando ad eruttare, non nel senso più scontato della violenza che quest’immagine richiama, ma nel senso a mio avviso più prezioso: quello della fertilità. Luca Martini manifesta di avere molta lava fertile dentro di sé. Con la sua scrittura schietta, giocosa, lungimirante, poetica. Come si potrebbe d’altra parte riportare la tragedia di un incidente mortale nel quale muore la madre di una bambina piccola con le seguenti parole se non si fosse un poeta?:
“L’alluminio dello sportello non aveva avuto alcuna pietà del suo bel corpo e si era insinuato tra le membra, senza rispettarne la femminilità, né tanto meno la grazia innata.”
Sono parole che risuonano dentro di me come le parole di un grande poeta che scelse di seminare tra le note e non su carta e racconti la propria sensibilità poetica, Fabrizio De Andrè.
In alcuni passaggi del libro, Martini rivela l’abilità rara di saper interpretare e dar voce al femminile dell’anima e manifesta uno spirito di osservazione per le piccole cose che sottintendono la capacità di avvicinarvisi e di porvi attenzione. E di fermarsi a dare il giusto rilievo e la sacrosanta attenzione anche agli eventi collettivi, che penetrano, a volte senza regalare sconti, la nostra vita:
“Cambiammo un po’ tutti, da quel giorno.
Cambiò l’Italia che ebbe più paura.
Cambiò il professore di ginnastica, che non era venuto a scuola perché morto in quel maledetto rapido 904, a pochi chilometri da casa, da solo, nella polvere.
Insomma, bene o male cambiarono gli occhi di tutti, quel 23 dicembre 1984.”
Se ci si vuole guardare un po’ allo specchio con passione per sé e per la propria storia snocciolata nel quotidiano, con passione per i propri simili compagni di brevi o lunghi viaggi, con un sorriso sempre ironico ma mai cinico, io consiglio di comprarlo questo libro per tenerlo in casa e per tornare ogni tanto a rileggerlo.
E poi noi lettori attendiamo, non con ansia, ma con la nostra capacità di saper attendere il giusto tempo di gestazione, una creatura di Martini che ci permetta di stare con lui e con la sua scrittura un po’ più a lungo di quanto è successo con questo “La geometria degli inganni” che se ha un difetto si, è questo: cresce il desiderio di leggerlo leggendolo e presto ti accorgi che…sei già all’ultimo racconto.
Francesca Zucchero
E’ grazie a queste concessioni che il detenuto trova ragione di vita nella scrittura del De Profundis, la sua lettera- requisitoria indirizzata all’amico e al mondo.
Da una parte, lo ammette c’è stata debolezza .” Lo dico francamente, barcollavo come una bestia condotta al macello. Avevo commesso un madornale errore psicologico: avevo sempre creduto che cederti nelle piccole cose non avesse importanza e che al momento opportuno sarei riuscito a far prevalere la mia forza di volontà .Non fu così. Quando giunse il momento, la forza di volontà mi mancò completamente”.
Ma non è stato solo questione di debolezza, aggiunge Wilde subito dopo, ansioso di dimostrare che c’è stato anche una motivazione nobile nel suo lasciarsi trascinare alla rovina.
“Qualunque fosse la tua condotta verso di me, sentii sempre che in fondo mi amavi davvero”.
Il fascino del poeta, la sua posizione nel mondo dell’arte e nel bel mondo, il lusso di cui si circonda hanno sicuramente innescato l’attrazione del giovane nei confronti dell’amico più maturo. Ma non c’è solo l’amore per le cose esteriori in questo rapporto, Wilde lo sente.
“Vi era qualcosa di più, qualcosa che aveva per te un’attrazione strana: mi amavi molto più di quanto tu amassi chiunque altro”
Ed ecco il terzo movimento: nonostante gli riconosca capacità d’amore, Wilde è costretto ad ammettere che il vero motivo conduttore della vita di Bosie è l’odio implacabile per il padre, al quale senza esitare ha sacrificato la vita dell’amico.
“Perché non mi hai scritto? Aspettavo una lettera. Ero certo che alla fine avresti capito che se l’antico affetto, l’amore tanto proclamato, i mille atti di cortesia mal ricevuta di cui ti avevo inondato non erano niente per te, il solo dovere ti avrebbe dovuto far scrivere. […..] Il tuo silenzio è stato orribile. Non di settimane o di mesi, ma di anni. E’ un silenzio che non ha scuse”
Con questa ultima pesantissima accusa si conclude la requisitoria di Wilde.
Che ha un finale ( o un quinto movimento se vogliamo restare alla metafora musicale) veramente sorprendente.
Un po’ come nei famosi paradossi wildiani, che affidano al rovesciamento inatteso del luogo comune non solo la loro forza di persuasione, ma anche la loro capacità di creare divertimento.
“ E la fine di tutto questo è che devo perdonarti. Devo farlo: per il mio bene stesso devo perdonarti. Devo toglierti il fardello e caricarlo sulle mie spalle. Sono prontissimo a farlo”.
L’artista , per essere veramente e compiutamente tale, secondo Wilde, deve provare l’esperienza del dolore, perché, è una esperienza che diversamente da quella del piacere è portatrice di verità, “non porta maschera”.
“Ora capisco che il Dolore, essendo la suprema emozione di cui l’uomo è capace, è insieme il modello e il banco di prova di tutta la grande Arte”
E’ il tema del Sacrificio Necessario.
Il fardello di cui parla Wilde è di fatto molto simile alla croce di Cristo:
Cristo è descritto come un poeta ( “Il posto di Cristo è infatti tra i poeti”) , come “il vero precursore del movimento romantico nella vita”.
Anche il Pentimento, come il Sacrificio, è quindi l’inizio di una presa di coscienza di sé, è un momento di verità ( e quindi di bellezza ) , l’inizio di una vita nuova, “il mezzo attraverso il quale ci è dato trasformare il nostro passato”.
Wilde non ha dubbi e lo dice con nettezza: Peccato e Sofferenza per Cristo erano cose belle e sante in se stesse, autentiche “forme di perfezione”.
“Sono certo che, se glielo avessero chiesto, Cristo avrebbe risposto che nel momento in cui il Figliol Prodigo cadde in ginocchio e pianse trasformò l’aver sperperato le sue sostanze con donne di malaffare, fatto il guardiano dei porci ed essersi nutrito delle loro stesse ghiande, nei momenti più belli e più sacri della sua vita. A molta gente riesce difficile comprendere questo. Forse si deve finire in carcere per comprenderlo. In questo caso, forse, vale la pena di finire in carcere”.
La lettera si avvia alla sua conclusione.
Il nostro sodalizio, dice il poeta, ha ancora molto da darci.
“..Per incompleto ed imperfetto che io sia, tu, da me, hai ancora molto da imparare. Venisti da me per imparare il Piacere della Vita e il Piacere dell’Arte. Forse sono stato scelto per insegnarti qualcosa di più splendido: il significato del Dolore, e la sua bellezza.”.
Filippo Cusumano
Excursus su Scarpa, Wells, Camilleri, Calvino e Borges: scrupoli letterari e copie (involontarie)
Da ultimo – ma proprio l’altro giorno – è capitato al vincitore 2009 dello Strega, Tiziano Scarpa. Nel senso che qualcuno ha insinuato il sospetto di una più che vaga somiglianza del romanzo vincitore con una storia altrui scritta negli anni ’50. Il volgo, al solito, ha tradotto in soldoni ed è iniziato il passaparola devastante di chi ha ascoltato da altri che hanno letto o sentito dire che quello diceva che l’altro aveva scritto che… infilando così il loop diabolico che ti porta dritto al Piazzale Loreto della reputazione.
Scarpa dice: io non ho mai letto quella storia. Faranno fatica a credergli. Io invece gli credo o almeno gli accordo il beneficio del dubbio. Perché sono un ingenuo idealista? In parte. Perché anch’io uso carta e penna e quindi un po’ sono pratico? In parte. Perché sono bastian contrario? Più che in parte.
Cominciamo con l’interrogarci su come funziona l’ispirazione artistica in generale e quella letteraria in particolare. L’idea folgorante che sprona l’autore a realizzarla su carta su tela su pietra su pellicola, da dove arriva? C’è un mondo delle idee artistiche dove ciascuno va ad attingere la propria?
Sembrerebbe di sì. Niente di sicuro, ovviamente, ma si vocifera che un certo tipo di dimensione metafisica dove riposano le idee dell’arte ci sia, o almeno esista qualcosa del genere. È un po’ come l’esistenza di Dio, si raccolgono indizi qua e là della sua presenza senza poterli oggettivare, parola difficile che significa de-finire, de-limitare, ridurre a categoria mentale in modo da trarne castelli di conclusioni campate per aria. Gli indizi metafisici fuggono sfuggono si sfilano, così veloci e inafferrabili da lasciarti più ignorante di prima. L’importante è saperlo, diceva qualcuno che se ne intendeva.
Comun que, come in tutti i mondi metafisici, anche in quello dell’arte le cose funzionano così, gli indizi sfilano fuggono sfuggono su carta su tela su pietra su pellicola, dove cacchio vanno, buon Dio, ma soprattutto: da dove arrivano… Sunt qui dicunt, cominciavano così certi discorsi i Romani, quando non volevano sbilanciarsi – il che significa che erano proprio presi male, dato che erano famosi per essere di solito pragmatici e decisionisti: iacta alea est insegna – c’è chi sostiene che le trame letterarie siano circa una cinquantina (credo di essermi accodato anch’io alla moltitudine di tali pensatori in qualche mio scritto) e che le varianti siano costituite da esercizi di stile. Può essere: qualunque storia si può ridurre alla sua cruda linearità cronologica fino a farla coincidere con una sorta di archetipo narrativo, una matrice dalla quale si possono sfornare storie a sporte. I formalisti l’hanno dimostrato. E questo è un indizio.
L’altro indizio, ben più inquietante, è quando capita di scrivere qualcosa già scritto da un altro, in un’altra regione della terra e in tutt’altra epoca del mondo. Vale a dire che i due autori, separati dal tempo o dallo spazio o da tutte e due le dimensioni insieme, hanno avuto o attinto la stessa idea e l’hanno sviluppata allo stesso modo, senza sapere niente l’uno dell’altro. A volerla fare semplice, giacché Platone ha fatto la fatica per noi, si potrebbe dire che essendo l’arte di per sé mimetica, in quanto copia qualcosa che è già copia, è naturale che si producano più copie, e a diversi livelli di dignità, della stessa Idea, secondo il rapporto platonico: Idee -> Realtà = copia delle Idee -> Arte = copia della Realtà, quindi copia di copia.
Non so se sia così semplice, ma so che accade. Accade che tu scrivi una storia bellissima (tutte le storie quando le scrivi ti sembrano bellissime, specie se sono le tue prime storie, specie se è la prima storia in assoluto), credi di essere stato un campione di originalità, e poi un giorno, così, a tradimento, ti bisbigliano (un articolo di giornale, un riferimento bibliografico, una notizia enciclopedica, una chiacchiera, più raramente la lettura della fonte sosia, per fortuna, perché quando ti capita di leggere direttamente l’altro ti prende un colpo) ti bisbigliano che qualcuno quella bellissima storia e quell’originalissimo soggetto li ha già scritti. Ed essendo tu arrivato per secondo, è normale che la gente pensi male: hai visto da chi ha copiato l’infingardo? Cioè: ti fa male essere stato fregato, più che altro dal destino impietoso perché il primo autore non ha nessuna colpa, ma quello che più ti logora è il venticello della calunnia: vaglielo a spiegare che il caso ha voluto che la stessa Idea circolasse in due cervelli contemporaneamente o, ancora peggio, a distanza di giorni, mesi, anni, secoli – più aumenta il lasso temporale meno credibile è la dichiarazione di innocenza – senza che uno abbia mai letto una riga scritta dall’altro, a costo di apparire di un’ignoranza abissale: “ho scritto un romanzo che parla di due promessi sposi ostacolati nei loro propositi da un paio di fetentoni, ma giuro che non ho mai letto Manzoni, non so neanche se era un pittore o uno scrittore, giuro, mi confondo sempre”. Meglio ignoranti che plagiari.
A me è capitato con il mio primo racconto propriamente detto – vale a dire quello che poteva essere licenziato senza troppa vergogna come racconto – che fu addirittura acquistato dalla RAI quasi vent’anni fa e poi non se ne fece più nulla, sicché mi ritrovo il mio bel contratto in busta azzurra senza sapere se poi lo sceneggiato radiofonico l’hanno fatto o se si sono sbellicati dalle risate ancora prima di cominciare. Per la cronaca: era un racconto dell’orrore.
Molto tempo dopo averlo scritto mi capitò di leggere l’introduzione di Sam Moskowitz ad una collezione di racconti di fantascienza (Il futuro era già cominciato, Oscar Mondadori 1990) e di scoprire che nel numero di novembre 1898 della rivista “Pearson’s Magazine” Herbert George Wells aveva pubblicato il racconto The Stolen Body, storia di un tale che lascia il corpo e si proietta mentalmente in altre dimensioni, salvo poi tornare e trovare nel proprio corpo un’altra entità abusiva. Mi sono dato un pizzicotto per crederci: l’idea era la stessa sviluppata da me senza aver mai letto una riga di Wells, nemmeno La guerra dei mondi. Potevo ritenerlo anche uno scherzo del destino, che talvolta va giù pesante, oppure un incidente che fatalmente capita agli scrittori clandestini (categoria particolare di scrittori – alla quale fino a qualche tempo fa mi pregiavo di appartenere, poi mi hanno sgamato ed eccomi qua – categoria che non coincide necessariamente con quella dei dilettanti né con quella dei geni incompresi). Son cose che succedono, ti dicono. Antipatiche coincidenze. Ma che il protagonista del mio racconto si chiamasse Herbert (beffarda fatalità: proprio come Wells), era anche questa un’antipatica coincidenza?
Dottore, ho un problema: scrivo cose già scritte da altri, senza infamia da parte mia, ma sicuramente senza lode. Si può fare qualcosa? Pensi perfino che sia un tuo problema, e dannatamente serio, visto che i cosiddetti colleghi, meno clandestini ma comunque abbottonatissimi, nulla dicono e muti stanno (‘sti pesci in barile…)
Poi finalmente apri l’inserto culturale di Repubblica, vedi un bell’articolo con fotografia di Camilleri dal titolo Quando scrivevo come Amado, e pensi di trovarvi il racconto di quando Camilleri scriveva storie nello stile di Amado. E invece no: scopri, horribile dictu, che Camilleri era stato colpito dalla spietata sindrome copiativa del replicante ignaro, consistente nello scrivere le stesse storie che aveva già scritto Jorge Amado. E tiri un sospiro di sollievo. È capitato anche a Camilleri, infatti, con il racconto Capitan Caci sostanzialmente simile alla trama contenuta nelle Due storie del porto di Bahia del brasiliano: “Sono due racconti. Comincio a leggere il primo e mi sento davvero male. perché due episodi, e di difficile invenzione, erano lì (…) E pensa che con Amado mi è successo ben tre volte, ma una di queste tre me ne sono fottuto, ho detto: lo pubblico lo stesso, chi se ne frega e buonasera!“
Poi vai avanti nella lettura dell’articolo e scopri che è successo anche a Italo Calvino con un racconto di Beniamino Joppolo, e si badi: non solo la trama, ma addirittura le stesse battute, e qui metaforicamente stappi e festeggi, la gente che ti sta intorno non capisce, pensa che tu sia esaurito, ma poco importa, va bene così, non sanno che sollievo, che salutare sintonia artistica si espande nel cuore e nelle vene, mica appartengono alla categoria, loro.
Italo Calvino pensava ad una dimensione di archetipi letterari, di idee a disposizione dell’ispirazione, il che dovrebbe spiegare perché capita che due o più persone scelgano la stessa.
Questo deposito metafisico è l’universo esagonale delle storie, esagonale perché questa, scrive Borges, è la “forma necessaria dello spazio assoluto“, dove vai e catturi l’immagine dell’Idea, la copia, il ricordo, perché l’Idea resta lì a disposizione di un altro che un giorno arriverà, la guarderà, gli piacerà e se ne porterà via un altro simulacro. In questa Biblioteca di Babele degli Scrittori, come in quella di Borges, c’è infatti uno specchio “che fedelmente duplica le apparenze” affinchè lo scrivere, come il parlare, diventi un “incorrere in tautologie“.
Rimane il problema della frequenza discreta dei doppi, perché esaurito l’impulso solidale degli scrittori replicanti, resta da capire e da spiegare come mai capita a qualcuno e non a tutti, quando capita. Quali meccanismi scattano nel cervello di uno scrittore che va a pescare nell’universo delle storie proprio quell’Idea e non un’altra? A volerla fare più complicata: è lo scrittore che sceglie l’Idea o è piuttosto l’Idea che si sceglie lo/gli scrittori?
Comincia già a friggervi il cervello? Allora è bene fermarsi qui, perché non ci sono soluzioni all’enigma, ci sono soltanto indizi, che fuggono, sfuggono, scivolano via, slittano, deragliano, e senza nemmeno un goccio di Strega, pensa te…
Mauro Del Bianco
“Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe.
L’esistenza degli eroi, quella che ci raccontano, è semplice: va diritta al suo scopo come una freccia.
E gli uomini, per lo più, si compiacciono di riassumere la propria esistenza in una formula- talvolta un’ostentazione, talvolta una lamentela, quasi sempre una recriminazione; la memoria compiacente compone loro un’esistenza chiara, spiegabile.
La mia vita ha contorni meno netti, la definisce con maggiore esattezza proprio quello che non sono stato”
( “Le memorie di Adriano- Marguerite Yourcenar”)
Ci sono libri che è impossibile leggere con velocità, lasciandosi abbindolare dalla loro trama ed estraneandosi completamante da quello che ci circonda.
“L’isola del tesoro” si può leggere in questo modo: entri in un mondo lontanissimo dal tuo e vorresti rimanerci fino alla fine della storia, senza farti distrarre dalla banalità sconfortante delle vicende di tutti i giorni.
Ma per altri libri non è così.
E’ il caso de “ Le memorie di Adriano”.
E’ un libro talmente profondo e ricco di stimoli da richiedere alcune accortezze.
Non si può affrontare che a piccole dosi, perchè quasi ogni frase richiede un supplemento di riflessione personale prima di essere assimilata.
Va letto avendo a disposizione una matita, per sottolineare i passi più importanti, per avere poi il piacere di riaprirlo casualmente e rileggerli.
FILIPPO CUSUMANO