Filippo Cusumano

Un Airone a Venezia

Ci sono storie d’amore che finiscono. Alcune, come diceva una canzone, “fanno dei giri immensi
e poi ritornano”.

È un po’ quello che accade nel romanzo “Un Airone a Venezia” di Anna Bellini.
La protagonista della storia, Chiara, decide di trasferirsi a Venezia perché quello è il luogo che l’uomo che lei amava, e che ormai non c’è più, le aveva insegnato a conoscere a fondo.
Ad ogni passo, attraversando la città, si imbatte in una chiesa, in un monumento o più semplicemente in un caffè o in un’osteria che l’Airone (questo il soprannome che lei aveva dato al Matteo, il suo compagno) le aveva “presentato”.

“Non distinguevo un pittore da un altro e aver studiato ragioneria non mi facilitava certo le cose, le infinte lezioni di Matteo, accompagnate dalla sua insistenza nel volermi trascinare in giro per chiese e musei mi irritavano, ma lui non demordeva, oltretutto nel tempo libero dal suo lavoro di artista, s’era messo a fare la guida turistica e io ero la sua cavia preferita; se mi distraevo mi riprendeva e ricominciava la lezione, così di malavoglia ho imparato a distinguere Tintoretto da Tiziano e Giorgione da Veronese e adesso per questo gli sarò sempre grata.”

Ma la scelta di Chiara non è, banalmente, un pellegrinaggio, un modo per restare agganciata ad una relazione che fa parte del suo passato.
Chiara, ormai, da quell’uomo che non c’è più, ha assimilato un attaccamento viscerale ed indissolubile ad un luogo unico al mondo.
Un sentimento che capisco fino in fondo e che mi ha fatto apprezzare il romanzo.
Vivo a Venezia da quasi cinquant’annni.
Non ci sono arrivato per amore, ma per…lavoro: mi ero appena laureato e una grande azienda mi aveva offerto un lavoro lì.
Prestissimo, però, ho incominciato a dire una frase, che chi mi conosce bene  mi ha sentito pronunciare più volte. La frase è questa: Venezia è l’unica città in cui vale la pena vivere.
Frase enfatica e sicuramente esagerata, in qualche caso giustamente accolta con ironia. Soprattutto dai cultori di un luogo comune molto diffuso: Venezia è bella ma non ci vivrei.

Filippo Cusumano

Pubblicità

Sandro Bonvissuto, uno scrittore destinato a lasciare un segno.

Ho conosciuto Sandro Bonvissuto prima di leggere il suo libro d’esordio, “Dentro” ( Einaudi, 2012)dentro
Ero a Nazzano, al Festival letterario “Un fiume di storie”.
Sandro era lì per presentare il suo libro.

Mi ha colpito subito una delle prime cose che ha detto: “Scrivo i libri che vorrei leggere”.
Una frase che ci piacerebbe sentire spesso da uno scrittore.
E ci piacerebbe ancora di più se gli scrittori che la pronunciano poi la mettessero in pratica.
Perchè, diciamolo una volta per tutte, il tempo del lettore è prezioso.
Soprattutto adesso che le fonti di divertimento alternativo – o di distrazione se vogliamo dirla così – sono innumerevoli.

Ho avuto modo, a quel festival, di conoscere un po’ Sandro Bonvissuto.
Ho quindi iniziato a leggere il suo libro non solo per verificare se lo aveva scritto seguendo la regola che aveva enunciato, ma anche perchè contagiato dalla sua simpatia umana e dalla sua vitalità, travolgenti.

Leggendo il libro, poi, ho avuto modo di verificare che Sandro quella regola non l’aveva persa di vista nemmeno un secondo.

Sostengo da sempre che, parlando di un libro, bisogna evitare di raccontare troppo la trama ( e infatti non lo farò).

Trovo più utile, rivolgendomi a lettori incalliti, come questo sito ha la pretesa di fare, dire chi mi ricorda l’autore del libro di cui stiamo parlando.
Con il rischio – e’ già accaduto più volte – che qualcuno mi dica che esagero, che il paragone è improponibile, o addirittura blasfemo.
Pazienza. E’ un rischio che mi assumo.

Il fatto è che il libro di Sandro Bonvissuto mi fa venire in mente due grandissimi : Franz Kafka e Raymond Carver.
Penso anche che un libro è come un melone: se vuoi saperne qualcosa in più, devi fare un tassello e mangiarne un po’.
Ecco perchè trascrivo qui l’incipit di “Dentro”, mi sarà più facile poi spiegare perchè ho pensato a Kafka e a Carver.

“Mi presero le impronte delle dita. Dopo aver raccolto tutte le mie generalità e fatto le foto le fotografie, mi presero anche le impronte delle dita delle mani. E ora stavano su un foglio, sopra il tavolo, proprio davanti a me; sembravano un segreto svelato, una cosa che, fino a poco prima, era intima e privata, e che invece d’ora in avanti tutti avrebbero potuto vedere. Seanza dovermi chiedere niente.
Le guardavo. Era come se mi avessero tolto qualcosa di mio per sempre, come se quelle impronte me le stessero rubando. Per un attimo provai il desiderio di riprendermele. Ma mi guardavano tutti. Avrei dovuto quindi lasciarle lì, come un’altra cosa in più che si aggiungeva a tutte quelle che avevo già perso o dimenticato in qualche posto. Da quel momento avrebbero continuato a vivere ma senza di me. E io senza di loro”.

Non vi viene in mente “Il processo” di Kafka? sandro2
Anche lì, il protagonista viene arrestato e non si sa perchè. ( “Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato).
Oppure “La metamorfosi” sempre di Kafka? (“Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni inquieti si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto ripugnante” scrive Kafka, ma non ci spiega perchè è accaduta questa cosa incredibile a angosciante).

E non ricorda Carver, invece,  lo stile di scrittura ?
Frasi brevi, senza subordinate, dense di fatti. Secche e numerose, con un flusso costante, come se fossero il risultato di un crepitio da mitragliatrice.

“La letteratura è ritmo” ha detto una volta Aldo Busi, durante una trasmissione televisiva, alzandosi subito dalla poltrona per mimare un passo di danza.
Ecco, la letteratura di Sandro Bonvissuto, è ritmo. Inizi a leggere e subito ti senti trasportato. Grande tensione narrativa e stile inconfondibile. Penso sia nato uno scrittore destinato a lasciare il segno.

FILIPPO CUSUMANO

Sono le news, bellezza!

In che modo sta cambiando il modo di costruire l’informazione?

Una volta l’informazione era il prodotto di un solo artefice. Il giornalista andava a cercare la notizia, la riportava su un giornale e quel giornale diventava il mezzo di divulgazione di quella informazione.

Niente filtrava di quella notizia, se non in ambiti estremamente circoscritti prima dell’intervento del giornalista, che era di fatto “scopritore” e “diffusore” dell’evento che solo grazie a lui e al suo intervento diventava di dominio pubblico.

La televisione non aveva cambiato questo aspetto della catena di distribuzione delle news.

Il “demiurgo”, lo scopritore di notizie era sempre il giornalista:  semplicemente il mezzo televisivo era enormemente più potente e pervasivo di quello cartaceo e aveva a sua disposizione la forza delle immagini filmate.

Oggi è evidente che la catena di produzione delle informazioni è radicalmente cambiata rispetto all’epoca, ancora a noi così vicina nel tempo, del giornalista “demiurgo”.

Ce lo dice con grande incisività e chiarezza l’ultimo libro di Michele Mezza “Sono le news, bellezza! Vincitori e vinti nella guerra della velocità digitale” ( Donzelli editore)

Siamo all’inizio di un processo di liberalizzazione dell’individuo– ci dice l’autore, eminente giornalista e docente di Scienza della comunicazione all’università di Perugia e di Roma- di ogni individuo, che ci porterà a riconfigurare ruoli e figure sociali . A cominciare dagli intellettuali, che non a caso, sono i più scettici”.

La rete, lo puntualizza già Derrick De Kerckhove nella prefazione, è diventata in brevissimo tempo il luogo in cui si costruisce grandissima parte dell’informazione.

La fabbrica e non solo la piattaforma di distribuzione.

Ci sono stati anni, lo ricordiamo tutti, in cui Internet sembrava un’opportunità per pochi, uno strumento per professionisti, per iniziati.

Ve la ricordate l’epoca della cosidetta bolla specutiva legata alla new economy? Stiamo parlando di appena una decina di anni fa….

Era l’epoca in cui bastava avere la notizia che un’azienda aveva creato un suo sito, magari anche un semplicissimo  accesso informatico, per vederne schizzare alle stelle il titolo.

Poi quella bolla si e’ sgonfiata anche perchè ci si e’ resi conto che quel modo di lavorare non solo era “necessario” per tutti gli addetti ai lavori, ma era anche semplice e alla portata di tutti.

Chi di noi in quegli anni, sentendo un amico o un vicino vantarsi di avere un blog, non pensavamo a lui come ad uno “smanettone”, ad una persona cioè dotata di grandissime tecnicalità lontanissime dalla nostra portata?

Salvo poi scoprire, una volta entrati in punta di piedi in quel mondo, che aprire un blog è cosa semplicissima e alla portata di tutti.

Piano piano quei siti e quei blog,  nati come sede di distribuzione e di commento delle notizie acquisite dal giornalista demiurgo sono diventati, però, fabbrica di notizie a loro volta.

Insomma la rete in brevissimo tempo da vetrina di esposizione delle news e’ diventata fabbrica, il luogo in cui quelle news vengono “prodotte”.

E il grande comunicatore di massa, il giornalista della carta stampata e della tv, che conserva- chissà ancora per quanto- il privilegio di disporre dei mezzi più potenti- da scopritore della notizia è diventato prevalentemente “selezionatore” delle notizie “scoperte” o lanciate da altri.

E’ il tramonto del giornalismo?

No, è semplicemente una mutazione genetica.

Un cambio di passo necessario per chi fa questo mestiere.

Maneggiare le teconologie informatiche diventa una necessità, lo strumento principe,  non più una semplice  opzione.

Quello che una volta si definiva il fiuto giornalistico, cioè la capacita’ di scoprire la notizia, adesso è diventata la capacità di pescare nel mare magnum della rete, con il compito non facile di distinguere, nel mare magnum della rete, le notizie vere dalle bufale.

Senza dimenticare che anche una bufala, quando sono in molti a crederci perchè ben costruita  e ben distribuita attraverso la rete, può diventare una notizia….

Chiudo citando un passo di un’intervista fatta da Grazia Gaspari a Michele Mezza per il giornale on line AGORAVOX:

Michele, un’idea di fondo gira, appunto, per questo libro: la rete non è una vetrina, ma una fabbrica, e chi non lo capisce la subisce e non la sfrutta nelle sue vere potenzialità. Cosa comporta praticamente?

In politica, ad esempio, molto. Proprio in questi giorni abbiamo sotto i nostri occhi una straordinaria storia della rete: la rivoluzione egiziana. Al Cairo, come a Tunisi, si è visto che la rete non è solo un megafono, ma è opratutto un soggetto sociale, un luogo che forma identità e bisogni. In piazza e’ scesa la “gioventù connessa” egiziana che rivendicava spazi alle proprie ambizioni.

La stessa cosa vale per la grande manifestazione della donne di domenica scorsa “Se non ora quando?”, una manifestazione sostanzialmente preparata e sbocciata in rete. Nessun giornale o tv ne aveva parlato, nessuna agenzia di stampa. Eppure un milione di persone sono scese in piazza in tutta Italia. Non solo, decine e decine di manifestazioni si sono svolte in tutto il mondo… Tokio compresa.

FILIPPO CUSUMANO

Frasario essenziale per passare inosservati in società

Sempre, mentre porto avanti nuove letture, rileggo anche quelle che mi hanno colpito.

Rileggo oggi un libro di Ennio Flaiano, “Frasario essenziale per passare inosservati in società”, e mi soffermo sulla prefazione, scritta da uno scrittore di straordinaria intelligenza come Giorgio Manganelli.

Non posso riportare tutti i contenuti di questa prefazione perchè è abbastanza lunga, ma ho scelto di raccontarvene una parte, che ritengo molto significativa.

Cosa ci dice Manganelli? Ci dice che Flaiano è un maestro nell’arte di mettere insieme le due categorie dello SPIRITUALE e dello SPIRITOSO.

E fa due esempi, citando due frasi di Flaiano

Prima frase:

“Oggi il successo colpisce soprattutto gli uomini migliori”

Una bon mot di rara tristezza, alleggerito però da quell’espressione – “colpisce”– che Manganelli definisce “rapida e innocente”.

In quella frase, aggiungo io c’è tutto Flaiano: malinconia e stile, tristezza e humor.

Ed ecco la seconda frase. E’ stata scritta da Flaiano in un momento particolae della sua vita, subito dopo un ricovero per un principio di infarto.

Scrive Flaiano:

“La morte ha la faccia di certe signore che telefonano al bar con un gettone e ad un certo momento, senza smettere di telefonare, vi fanno un gesto di saluto e di sorpresa”

Un’immagine di singolare grazia e diimplicita terribilità, ci dice Manganelli. Un caso, aggiunge, in cui “ lo spirituale soverchia, ma non erode lo spiritoso.

Questa capacità che Flaiano ha di affacciarsi sull’orlo del tragico per poi distrarsene e lambire subito dopo il ridicolo e il risibile è quella che fa di lui uno scrittore di straordinaria complessità .

Attento– dice Manganelli- come può essere attento un orafo, un miniaturista, un perfetto amanuense, alla piccola inquietutudine, a quel dolore portatile che può accompagnare una vita, che non è incompatibile col riso, con la noia , con la morte”


Filippo Cusumano

Letture del giorno di Capodanno

Riemergo dal torpore del pranzo di Capodanno ( tortellini, bollito e tiramisù) e mi seggo in poltrona a leggere alcune brevi frasi di Emile Cioran.

Il libro è “Lacrime e santi

Ho ripreso in mano questo libro, dopo tanto tempo, in maniera assolutamente casuale.

Mia figlia Giulia mi aveva chiesto un consiglio su un romanzo da leggere in tre -quattro giorni.

Mi sono così messo a scorrere i titoli della mia biblioteca e alla fine, dopo averle letto molte trame e molti incipit, per invogliarla, sono riuscito a propinarle un romanzo di Mario Vargas Llosa, “Memorie della ragazza cattiva”. Credo le piacerà. Vargas Llosa è un autore fantasioso, tratteggia bene i personaggi, costruisce in maniera accattivante le storie.
Ogni tanto inciampa in qualche frase sciatta e convenzionale, di quelle che ai quali i critici falliti come scrittori- e quindi implacabili come critici- cercano ogni tanto di impiccarlo.

Ma in fondo è dagli anni 70 che Vargas Llosa sforna un libro ogni due o tre anni,alcuni dei quali notevoli, qualche scivolone ogni tanto gli va perdonato.

Comunque questo che Giulia ha iniziato a leggere è un romanzo d’amore bello e appassionante.
Credo che le piacerà. E forse piacerà anche a qualcuno di voi ( ma…non mi assumo responsabilità ; segnalo però che è uscito anche in… edizione economica).

Ma mi sono dilungato.

Dicevo che scorrevo i tioli dei miei libri per dare un consiglio a Giulia, ed ecco che mi ricapita in mano Cioran.

E mi affascina come sempre.

Anche- e soprattutto- quando mi stupisce e mi lascia perplesso.

Tre sono gli aggettivi che secondo me meglio definiscono questo pensatore singolarissimo e unico: provocatorio, ironico, acuminato.

Ma è inutile che vi racconti chi è Cioran. Alcuni lo sanno, altri possono trovare in breve tutte le informazioni che vogliono su di lui consultando i motori di ricerca.

Mi piace di più l’idea di trascrivervi qui alcune delle frasi di questo libro che mi hanno colpito una quindicina d’anni fa, quando l’ho letto la prima volta.

Le avevo sottolineate con la matita: essendo io un bibliomane, ma non un bibliofilo, qualche volta “sporco” i libri .

Ecco le frasi che mi hanno colpito. Le lascio alle vostre riflessioni di inizio anno:

– Si crede in Dio solo per evitare il monologo tormentoso della solitudine. A chi altri rivolgersi? Si direbbe che Egli accetti volentieri il dialogo e non ci serbi rancore per averlo scelto come pretesto teatrale dei nostri scoramenti.

Gli antichi sapevano morire. Innalzarsi al di sopra della morte è stato l’ideale costante della loro saggezza. Per noi la morte è una spaventosa sorpresa.

Dio ha creato il mondo per paura della solitudine: è questa l’unica spiegazione plausibile della Creazione.
La sola ragione d’essere di noi creature è di distrarre il Creatore. Poveri buffoni, dimentichiamo che stiamo vivendo i nostri drammi per divertire uno spettatore di cui finora nessuno al mondo ha sentito gli applausi. E se Dio ha inventato i Santi lo ha fatto solo per alleggerire un po’ di più il peso del suo isolamento.
Quanto a me, la mia dignità esige che io gli opponga altre solitudini, altrimenti non sarei che un giullare in più.

Dio si insedia nei vuoti dell’anima. Sbircia i deserti interiori, perchè a somiglianza della malattia, egli predilige occupare i punti di minor resitenza
Una creatura armoniosa non può credere in Lui. Sono stati i poveri e gli infermi a “lanciarlo”, ad uso e consumo di chi si tormente e dispera.


FILIPPO CUSUMANO

“NON portar giù i vasi da notte, ma vuotali fuori dalla finestra” – Istruzioni per la servitù

Quando il padrone o la padrona chiamano un servo per nome, se quel servo non è a portata di voce nessuno di voi risponda, altrimenti non ci saranno più limiti alla vostra oppressione

Non prestarti mai a muovere un dito fuorchè per lo specifico lavoro per cui sei stato assunto.
Per esempio, se lo stalliere fosse ubriaco o assente e al maggiordomo si ordinasse di chiudere
la porta della stalla, ecco la risposta: con il permesso di Sua Signoria, non mi intendo di cavalli”

“Non accorrere mai finchè non sei stato chiamato tre o quattro volte, perchè solo i cani corrono
al primo fischio. E quando il padrone grida “C’è qualcuno?” nessun servitore è tenuto a rispondere
perchè “C’è qualcuno” non è il nome di nessuno”


Queste alcuni delle frasi che appaiono nel primo capitolo di Istruzioni per la servitù, il capolavoro satirico scritto da Jonathan Swift negli ultimi anni della sua vita e pubblicato postumo, nel 1745.

Ma di cosa tratta questo libro?

Ci spiega, con grandissima dovizia di particolari, come e perchè i Servitori possano e debbano
disubbidire ai loro padroni, cercando di truffarli, ingannarli, metterli in ridicolo, umiliarli.

Mai forse in un’opera letteraria il disprezzo per il genere umano, diviso in due categorie di analoga e grottesca ripugnanza ( servi e padroni) è stato espresso con tale leggerezza.

Il libretto è stato definito in molti modi.

Qualcuno ne ha parlato come di un manuale di sabotaggio domestico, qualcun’altro lo ha definito una piccola Antropologia del Risentimento.

Sicuramente viaggiamo, con questo libretto, nell’Olimpo dei grandi autori satirici.

Così come in quello dei più grandi prosatori di tutti i tempi.

La dimensione metaforica, la possibilità cioè, in ogni passo del libro , di riferire ad altri ambienti e contesti le situazioni accuratamente descritte, non aggiungono pensosità, nè tolgono divertimento a questo piccolo delizioso irresistibile campionario di nefandezze domestiche.

Non crediate però che questa specie di manualetto delle mascalzonate si mantenga sulle generali.

Dopo un capitolo iniziale , i cui insegnamenti sono buoni per tutti i tipi di servitori, ci sono i capitoli dedicati ad ogni singola specie di servitore:si parte dal maggiordomo, si continua con la cuoca, il valletto, il cocchiere, lo stalliere, l’intendente, il fattore, il guardaportone, la donna del latte, la balia, la guardarobiera, la governante, la bambinaia.

In qualche caso il paradosso è portato fino alla ferocia, è quasi insopportabile.

Che dire di questo consiglio per la balia?

“Se ti succede di lasciar cadere il bambino, e di azzopparlo, bada di non confessarlo mai; e se muore è tutto a posto”

O di queste “istruzioni” per la bambinaia?

“Se un bambino è ammalato dàgli da mangiare e da bere tutto quello che vuole, anche se specificatamente proibito dal medico: perchè le cose di cui abbiamo voglia da malati, ci fanno bene; e getta via la purga fuori dalla finestra; il bambino ti vorrà più bene, ma proibiscigli di raccontarlo.

Se la tua padrona viene nella stanza dei bambini e minaccia di frustare un bambino, strappaglielo dalle mani infuriata e dille che non hai mai visto una madre così crudele: ti sgriderà, ma ti vorrà più bene.”

O di queste per la cameriera?

“Non portar giù i vasi da notte, che non son cose da far vedere, ma vuotali fuori dalla finestra, per
riguardo alla sua padrona. Non sta affatto bene che i servi maschi sappiano che le dolci signore hanno bisogno di simili utensili; e non pulire il pitale, perchè l’odore fa bene alla salute”

Il libretto è godibilissimo in sè e per sè, per i motivi cui ho accennato sopra cioè per il suo umorismo e per la sua qualità di scrittura.

Ma si farebbe un torto a Swift non sottolineando che alla base di questo gioco di altissimo livello letterario c’è un’alta tensione morale, il desiderio di operare “per il pubblico bene”.

L’espressione è dello stesso Swift che scrive ad un amico, poco tempo prima della morte, dicendogli di essersi ritiraro in campagna “per il pubblico bene, avendo tra le mani due importanti lavori,” e descrive uno di essi come lo statuto integrale della servitù in circa venti condizioni diverse, da quella dell’intendente o di cameriera personale fin giù fino allo sguattero di cucina o di dispensa”

Insomma, non possiamo fraintendere lo spirito di questo libretto.

Ci troviamo di fronte ad un autore che crede fermamente nel divertimento della lettura, senza mai pensare però che questo divertimento sia fine a se stesso.

Swift crede nell’efficacia didattica del paradosso, nella “pubblica utilità” dell’insegnamento che passa attraverso il gioco, nell’alta forza morale dello scandalo.

Ed è proprio il convincimento di battersi per una missione di pubblica utilità che autorizza Swift ad una libertà di espressione e ad una crudezza e ferocia di linguaggio che ancora oggi, a 270 anni di distanza, ci lasciano senza fiato.

FILIPPO CUSUMANO

Non vorrei morire…. per vedere come va a finire.

Alcune riflessioni scritte una quarantina di anni fa dal massimo cantore dell’età di mezzo, Marcello Marchesi.

Come sempre nelle sue poesie c’è il sorriso e c’è il pianto: una battuta, un gioco di parole, ma anche un rimpianto di quello che è stato, la consapevolezza del declino.

E’ stato un grande Marcello Marchesi.
Nel suo …piccolo.

Che poi non era tanto piccolo: pochi riescono a dire tante cose in maniera così semplice e diretta, senza annoiare, pochi riescono a farci riflettere senza importunarci con la loro prosopopea.

Ma, per evitare di importunarvi con la mia, passo subito la parola a lui.

 

 

 

 

 

 

 

BOLLETTINO
Ritirata
su tutta la fronte
dei pochi capelli
ribelli
alla dittatura
del generale Tempo.

LA VISITA
Porto mio nipote
dal medico
perchè controlli
se il suo sviluppo è regolare.
E dopo che ha visitato
il bambino
visita me
per vedere
se è regolare
il mio declino

 

 

 

 

 

 

 

BASTA, BASTISSIMO
A Fiuggi,
a Montecatini
ho sempre speso
un mucchio di quattrini
Basta!
Non ci vado a Chianciano!
Perchè devo morire
con il fegato sano?
Dove è scritto che
“il vuoto a rendere”
deve essere in buone condizioni?
Ho le mie brave ragioni
per credere
che, anche malandato,
sara accettato.
Ma certo!
Da oggi mi diverto
e non mi curo più!
“Cameriere,
ragù!”

GIOVANE A TUTTI I COSTI
Insultatemi!
Una pernacchia di bronzo
mi laceri l’orecchio.
Il rispetto
mi fa vecchio.

 

 

 

 

 

 

 

LA VA A POCHI…
Perchè questo suicidio
spicciolo e quotidiano?
Non voglio più dormire.
La vita è un sogno
che si tocca
ha labbra e bocca.
Vorrei essere Argo
con cento occhi
per vedere tutto
o la stessa cosa cento volte
e Kalì con tante braccia
e tante mani
per toccare tutto
entro domani.
E avere cento ginocchi
e su ognuno una donna
tutta per me.
Non vorrei morire
per vedere
come va a finire.
Non mi ammazzerei
altro che per rinascere.
La va a pochi…

FILIPPO CUSUMANO

( foto di riflessi sull’acqua di Marino Bastianello)

INDIGNAZIONE

Tempo fa è uscito un libro, che ha fatto molto discutere.

Fu presentato una sera ad OTTO e MEZZO, la trasmissione della 7 che va in onda dopo il tg delle 20.

Giuliano Ferrara, conduttore allora della trasmissione, ci presentò quel libro, romanzo di esordio di Alessandro Piperno , citando il giudizio entusiastico che ne aveva dato un critico.

Piperno, com’è ovvio, appariva in trasmissione e si raccontava come un ammiratore di due scrittori che a mia volta ammiro moltissimo : Proust e Philiph Roth.

Il giorno dopo leggevo su un giornale alcuni accostamenti tra il romanzo di cui tanto si parlava- “CON LE PEGGIORI INTENZIONI” – e i romanzi di Roth.

Inevitabile a quel punto, per un lettore curioso come me, cedere alla tentazione.
Nel raggio di 800 metri da casa mia ci sono una decina di librerie ( ecco uno dei vantaggi di vivere a trenta metri da una sede universitaria).Andai alla più vicina, comprai il libro e mi misi a leggerlo.

Il libro racconta l’irresistibile ascesa e l’inevitabile decadenza di una facoltosa famiglia di ebrei romani, e dei loro amici e nemici. La vicenda si svolge nell’arco di tempo che va dagli anni del boom economico agli anni Ottanta.

Esito a consigliarvelo, caso mai non lo aveste letto.

Non perchè non mi sia piaciuto… A me è piaciuto a tal punto da considerarlo, pur con i suoi evidenti difetti, il libro della letteratura italiana del dopoguerra che ho letto con maggiore godimento dopo :

– Il Gattopardo di G. Tomasi di lampedusa
– Il male oscuro di G. Berto
– Don Giovanni in Sicilia di V. Brancati

Debbo però avvertire i  lettori di questo blog che il libro a molti è apparso pretenzioso, barocco, noioso.
Nel ribadire che ne sono stato deliziato, debbo,quindi , per onestà, farvi presenti anche questi giudizi.

Per coloro che non lo avessero letto e volessero rischiare comunque c’è una buona notizia: quando l’ho comprato io il libro costava quanto una pizza servita al tavolo ( 17 euro) adesso essendo uscita l’edizione economica, come un paio di tranci presi al bancone…

Ma NON è del romanzo d’esordio di Piperno che voglio parlarvi, ma di quello che lo studioso di letteratura Piperno ha scritto pochi giorni fa , per commentare l’uscita in Italia dell’ultimo romanzo di Philiph Roth, “L’indignazione”.

Cosa ci dice Piperno?

Che, appena uscito il romanzo di Roth, lui era stato tentato di NON comprarlo.

Ci troverò le solite cose, pensava: sensi di colpa, donne, sesso, il solito armamentario di cultura ebraica, il rimpianto del tempo passato, la Newark degli anni 50 ecc.
Insomma tutte le cose che negli ultimi 50 anni hanno deliziato ( o annoiato,o scandalizzato, a seconda dei casi) i lettori di Roth.

Poi, però, Piperno, ha ceduto alla tentazione.
E’ uscito di casa, è andato in libreria, ha comprato il libro, è ha raggiunto un caffè tranquillo, ha ordinato qualcosa, ha liberato il romanzo dal cellophane e ha iniziato a leggere.

Comprendendo subito di avere speso bene i suoi soldi.

La stessa cosa è capitata a me, nello stesso giorno in cui ho letto l’articolo.

I temi, d’accordo, sono sempre gli stessi ( d’altronde di cosa dovrebbe parlare un autore se non delle cose che conosce meglio?)

Ma quale freschezza di racconto, che humor, che forza!

Piuttosto che raccontarvi il libro, però, preferisco cercare di farvene assaggiare un tassello.

Siete pronti?

Diciamo subito che il protagonista è Marcus Messner, un giovane di Newark ( è la città natale di Roth, impossibile per lui non “tornare” lì in quasi tutte le sue storie).

Marcus è figlio di un macellaio kosher. Finite le superiori, nel 1951, secondo anno della guerra di Corea, decide di iscriversi all’università.
In città ce ne è una che a lui sembra perfettamente idonea allo scopo.
Non ha la fissa per frequentare un college di prestigio:

Un college era un college:frequentarne uno e uscirne laureati era l’unica cosa che contava per una famiglia poco di mondo come la mia”.

Ma, passato il primo anno, Marcus decide di andare a studiare lontano da casa.

E perchè lo fa? Per sottrarsi all’apprensione del padre, che, pur essendo orgogliossimo di lui e della sua serietà negli studi, ha finito per mettersi in testa che il suo unico figlio corre il rischio di cadere vittima di cattive compagnie e cattive abitudini.

Ma ecco il “tassello” promesso:

“Una sera rientrai a casa con l’autobus intorno alle nove e mezza. Ero uscito di casa alle otto e mezzo del mattino e da allora ero stato a lezione o a studiare, e la prima cosa che disse mia madre fu:
– Tuo padre ti sta cercando.
– Perchè? Dove mi sta cercando?
– E’ andato al biliardo.
– Non ci so neanche giocare al biliardo. Cosa gli salta in mente? Stavo studiando, per l’amor di Dio. Stavo preparando un compito scritto. Stavo leggendo. Cos’altro crede che faccia notte e giorno?
– Ha parlato di Eddie con Mr. Pearlgreen , ed era in ansia per te.

Eddie Pearlgreen, il figlio del nostro idraulico, si era diplomato insieme a me e poi era andato al college di Panzer, a East Orange, per studiare.

-Io non sono Eddie- dissi,- io sono io.
– Ma lo sai com’è fatto ? Senza dirlo a nessuno, Eddie è andato fino in Pennsylvania, con l’auto del padre per giocare a biliardo
– Ma Eddie è un asso del biliardo e bara, non mi stupisce.Non mi stupirei se andasse fin sulla luna a giocare a biliardo.
– Finirà per rubare auto, ha detto Mr. Peargreen
– Oh, mamma, è ridicolo.Qualunque cosa faccia Eddie, non mi riguarda. Seconde te IO finirò per rubare auto?
– Cero che no, tesoro mio.

[…] A quel punto, come se seguisse le indicazioni di un regista, mio padre entrò in casa dalla porta di servizio, ancora carico di agitazione, puzzolente di fumo di sigaretta, e adesso arrabbiato non perchè mi aveva trovato in una sala da biliardo, ma perchè NON mi ci aveva trovato.

Non gli sarebbe venuto in mente di scendere in centro a cercarmi alla biblioteca pubblica, e questo perchè in biblioteca nessuno ti spappola la testa con una stecca da biliardo accusandoti di averlo truffato, nessuno ti accoltella mentre sei seduto a leggere il capitolo assegnato di “Storia della decadenza dell’impero romano” di Gibbon, come avevo fatto io quella sera.

– Dunque eccoti qui
– Già. Strano, no? A casa. Dormo qui. Vivo qui. Sono tuo figlio, ricordi?
– Davvero? Ti ho cercato dappertutto
– Papà, io non sono quel terribile scapestrato giocatore di biliardo che risponde al nome di Eddie Pearlgreen.
– Lo so che non sei come lui, per l’amor di Dio. lo so benissimo quanto sono fortunato con il mio ragazzo.
– Allora cos’è tutta questa storia, papà?
– E’ la vita, dove i minimi passi falsi possono avere conseguenze tragiche
– Oh, Cristo Santo, parli come un biscotto della fortuna
– Ah sì? Ah si? E’ questo l’effetto che faccio quando parlo a mio figllio del futuro che ha davanti, un futuro che una qualunque minima cosa potrebbe distruggere?
– Oh, al diavolo- gridai e corsi fuori casa, in cerca di un’auto da rubare per andare a giocare al biliardo e magari beccarmi anche lo scolo, già che c’ero.”

Piaciuto il “tassello”? Vi andrà poi di assaggiare il resto del cocomero? Fatemelo sapere, se vi va.

Aggiungo solo una piccola cosa.
Quando uno scrittore è universale, racconta le cose che conosce meglio, come tutti, ma quelli che lo leggono si rispecchiano in quello che lui racconta anche se provengono da esperienze diversissime dalle sue.
Mi spiego meglio: anch’io, come Marcus, ero uno studente modello.
Anch’io, spesso stavo fuori casa tutto il giorno: o ero a lezione o in biblioteca o studiavo con un amico.
E anch’io avevo un padre apprensivo .
Contento di me, ma apprensivo.
Perdonate, adesso, una piccola citazione finale.
Vitaliano Brancati diceva che se si fa una foto ad un gruppo di padri di diversa provenienza, quello siciliano si riconosce subito: è quello che guarda in macchina con espressione ansiosa.
Ecco, mio padre era così.
Non era un macellaio koscher di Newark, ma un medico nato nella provincia di Palermo.
Ma era così.

Filippo Cusumano.

Dove vanno le iguane quando piove.

iguane_small_01

Caleidoscopio.

Sapete cosa succede quando guardate dentro uno di quei cilindri di cartone o di metallo con dentro tanti pezzi di vetro colorati?

Agendo sul meccanismo di rotazione del cilindro, modificate la disposizione di quei pezzi di vetro e appare ai vostri occhi un’immagine di volta in volta diversa e scintillante.

E’ questa l’impressione che ho ricevuto leggendo il sorprendente primo romanzo di una giovane scrittrice esordiente “DOVE VANNO LE IGUANE QUANDO PIOVE” di Antiniska Pozzi (Cabila Edizioni)

Al centro del romanzo stanno due storie di donne, che vivono a Milano : Olivia e Dora.

antiniska

La prima tornando un giorno a casa trova nel suo appartamento il cadavere di uno sconosciuto. Non presenta segni di violenza . Sembra semplicemente un uomo addormentato. Olivia si fa delle domande e cerca di darsi delle risposte :

Uno che dorme: sul pavimento di casa mia? Ma come è entrato? Hai lasciato la porta
aperta, Olivia..Poteva almeno mettersi sul divano! Ma se è morto? Poteva almeno morire sul divano…

Non è un morto di mia “competenza”, pensa Olivia, forse “appartiene” a qualcuno dei vicini.
Invece di chiamare la polizia, si mette in testa di andare dai vicini a chiedere se il morto, per caso, è loro.
Come se, invece di un morto, avesse scoperto nel suo soggiorno un gatto intrufolatosi per caso nel suo appartamento.
Decide quindi di andare a bussare alla porta di ognuno dei suoi condomini, entrando in contatto con storie e persone inattese.

Dora, la seconda protagonista del romanzo, è una precaria di trent’anni, che vive con un fratello che consegna le pizze a domicilio e che odia il genere umano.
Dora ha fatto un errore.
Ha letto “Il deserto dei Tartari”.

[..] ormai non riesce a tenere il culo sulla stessa sedia per più di tre mesi senza sentirsi lì, su uno degli avamposti della Fortezza Bastiani. Si sente che la stanno fregando perchè non arriverà nessun Tartaro, nessuno, e allora lei non ci resta alle dipendenze di quell’idiota del signor Bellasi, che non sa neanche cos’è, lui, la Fortezza Bastiani.”

Fosse un verbo, Dora sarebbe un condizionale . Vorrebbe scrivere un libro “come la metà degli abitanti del pianeta terra”, ma in cuor suo spera “che gli arrivi a casa uno di questi giorni già pubblicato e anche impacchettato con i compliementi dell’editore”

Dora desidera continuamente fare qualcosa che non ha il coraggio di fare. Tipo non ripresentarsi in ufficio dopo la pausa pranzo, lasciando sulla sua scrivania, a mo’ di ultimo messaggio per il suo deprimente capo ufficio un bel disegno “con un gran bel dito medio alzato che svetta su una mano chiusa a pugno.”
Mentre si inebria in questa fantasticheria e si gasa nei confronti del suo capo, insultandolo mentalmente ( “stronzo incravattato”, “sottospecie di decerebrato”) riceve una telefonata proprio da lui e così gli risponde:

“Pronto ? Buon giorno, signor Bellasi, mi dica. Sì d’accordo, lo faccio subito. A dopo”.

E sì che tra i suoi sogni di donna un po’ Fantozzi, un po’ Malussene c’è anche questo, che confida al fratello :
“Quando squilla il telefono immagino di rispondergli “Stronzo?” con l’intonazione con cui direi “Pronto?”. Poi non lo faccio, per fortuna, ma fino all’istante prima in cui apro la bocca per emettere suono sono sicura che glielo dirò! Un incubo, non posso andare avanti così…”

Ma la stralunata Olivia e la velleitaria Dora non sono che le prime attrici del romanzo.

Perchè, come ho detto sopra, il libro è un caleidoscopio.

Non solo ci sono infinite variazioni di registro, ma appaiono sempre nuove figure, descritte in maniera incisiva e vivacissima.

Come l’antropologo Victor Luiz Pereira, vicino di casa di Olivia, che fuma cinquantanove sigarette al giorno, la cui casa sembra “un tempio in rovina” con le cataste di libri che oscillano dappertutto, pronte a sgretolarsi al primo tocco.

“Victor Luiz Pereira ha i capelli bianchi e gli occhi verdi. E’ l’uomo più vanitoso della città […]
Ogni mattina si alza alle sette, si schiarisce la voce, si accende la prima Belmont della giornata e pronuncia un nome di donna, dicendo: ‘è un buon nome per il mio romanzo’. Quasi sempre è il nome della donna che la sera prima lo ha accompagnato a casa”

Oppure come Arda Cavallini, la “grassa locandiera” del Caimano Triste, il caffè frequentato da Victor.

“…Una donna d’altri tempi, sebbene non sia chiaro quali. Ha polpacci che sembrano lì lì per esplodere, trattenuti dalle calze a rete grossa, rigorosamente bianche, come la camicetta con le maniche a sbuffo, che la fa sembrare una Biancaneve grassa, espansa, dalla consistenza della pasta del pane.[..] Cammina instancabile su e giù per la cucina, ancheggiando pericolosamente come solo certe femmine sanno fare[…] E’ una donna con molte attrattive: le mani corte sempre infarinate e imburrate, il grembiule strizzato sul seno sconfinato e quel nome quel nome …Arda. Una sirena erotica, un nome grasso, rotondo, da affondarci dentro la testa”.

Ma ci sono anche una centenaria dai poteri paranormali, tre fratelli malavitosi, un decoratore cileno che nasconde un segreto nella vasca da bagno…

anti2Non so se il libro si trovi in tutte le librerie, ma se non lo trovate, ordinatelo via internet.
Credo che ne rimarrete sorpresi, divertiti, deliziati.

“Dove vanno le iguane quando piove” è un romanzo, colorato, rumoroso, imprevedibile, molto “cinematografico”.

Una lettura diversa dalle solite, ma anche, grazie ai suoi continui cambi di registro e al linguaggio, una piccola lezione di stile.

FILIPPO CUSUMANO

L’UMORISTA E’ UNO CHE FA IL COMODO PROPRIO.

Achille_Campanile_1942Il vero umorismo, per me, è eversivo: si sostanzia nel rovesciamento dei luoghi comuni, è sorpesa continua, paradosso, sberleffo.

E vero, grande umorista, secondo me il più grande della nostra letteratura, è stato Achille Campanile.

Insisto sul grande e su letteratura, anche perchè dire che Campanile è stato solo un umorista è riduttivo.

Fu anche scrittore raffinato, con un’impronta particolare e riconoscibile, prosatore attento, preciso, impeccabile.

Ma lasciamo la parola a lui.

Ecco cosa ci dice dell’umorismo.

« L’umorista tra l’altro è uno che istintivamente sente il ridicolo dei luoghi comuni e perciò è tratto a fare l’opposto di quello che fanno gli altri.
Perciò può essere benissimo in hilaritate tristis e in tristitia hilaris, ma se uno si aspetta che lo sia, egli se è un umorista, può arrivare perfino all’assurdo di essere come tutti gli altri “In hilaritate hilaris e in tristitia tristis” perché, e questo è il punto,
l’UMORISTA E’ UNO CHE FA IL COMODO PROPRIO.
E’ triste o allegro quando gli va di esserlo e perciò financo triste nelle circostanze tristi e lieto nelle liete. »

Ed ecco un esempio della sua poetica del rovesciamento del luogo comune

E’ un passo sorprendente del suo primo romanzo “MA CHE COS’E’ QUESTO AMORE?”, scritto da Campanile nel 1927, quando aveva 28 anni.

Siamo nello scompartimento di un treno.
Carlo Alberto, il protagonista del romanzo cerca di interessare una bella sconosciuta raccontandole una storia.
E’ una specie di barzelletta, e riguarda un tale che scende in un albergo a Perugia e, in mancanza di camere libere, viene messo a dormire con un pellirossa.
La storia è un po’ complicata e Carlo Alberto, ad un certo punto si accorge di non ricordarne nemmeno il finale.
A questo un “signore biondo ossigenato” che sta seduto nello scompartimento dà segni di voler parlare e, fra l’impressione generale dice:

“- Signore quel tale ero io.
– Era lei?
– Ero io. Però- aggiunse subito- la cosa non andò precisamente come ella ha narrato. Anzitutto, il fatto non avvenne a Perugia, ma nelle vicinanze di Roma. Poi non si trattava di un albergo, ma di un bosco. In terzo luogo è completamente inventato il particolare del pellirossa.

Allora tutti dissero incuriositi:
– Ci racconti, ci racconti come veramente andò la cosa.

Il signore biondo non si fece pregare e cominciò subito a dire:
– Avevo vent’anni ed ero inesperto della vita. Una sera, tornando a casa dopo il lavoro, mi accorsi di essere seguito da una donna. Affrettai il passo. Per qualche sera si ripetè la stessa scena.
Non contenta di seguirmi, quella donna cominciò a farmi pervenire lettere ardenti, e, come dovetti accorgermi in seguito, menzognere, perchè sotto l’apparenza dell’innamorata, costei non era che una seduttrice.
Senza scoraggiarsi dei miei rifiuti, ella giunse persino a passeggiare ore e ore sotto le mie finestre e a cantarmi qualche serenata finchè io, giovane e senza difesa, finii per cedere alle lusinghe d’un amore che doveva essermi fatale. Ad un primo appuntamento, ne seguì un secondo, poi un terzo e alla fine ci vedemmo tutti i giorni. Io pregavo spesso la donna di presentarsi ai miei genitori per una regolare domanda.
Ma ella faceva orecchi da mercante rimandando la cosa da un giorno all’altro.
Una triste sera mi accorsi di essere prossimo ad diventare padre. Costei cominciò a mancare ai convegni e , il giorno in cui avrebbe dovuto regolare la nostra situazione, ella scomparve e mai più la rividi.
Confessai tutto piangendo, ma fui cacciato di casa.
Così mi trovai solo nel mondo, dopo essere stato sedotto, reso padre e abbandonato”.

achille2.1jpgCosa c’è di più convenzionale di questa storia? E cosa c’è di più convenzionale del linguaggio usato per raccontarla? Del riferimento a lettere ardenti, rifiuti, passeggiate sotto le finestre, serenate, orecchie di mercante, situazione da regolarizzare, abbandono dopo la seduzione?

E che cosa la rende sorprendente, surreale e, per questo esilarante?
Il fatto “eversivo” che il protagonista di questa storia non sia una donna, ma un uomo.

Questo è l’umorismo di Achille Campanile.

FILIPPO CUSUMANO