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TAREQ IMAM : Le mani dell’assassino

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In un Cairo spettrale, dall’atmosfera cupa e insolitamente piovosa, una metropoli sovrastata da grattacieli abbandonati e popolati da fantasmi, lungo strade affollate da storpi, prostitute e strani manichini animati, vive Salem, impiegato dell’Organismo Centrale per le Statistiche e la Mobilità Pubblica con il “sacro compito” di collaborare al censimento. Salem, “un vecchio di trent’anni”, uno dei discendenti dell’Eremita capostipite di una stirpe di assassini che popolano la città, vive e rivive i fatti di sangue narrati nell’antico manoscritto ereditato dal suo avo e ne mette in pratica gli insegnamenti perpetrando i propri delitti con la mano destra, “quella che lavora sodo”, affinché la sinistra, “liscia, superba e amante del lusso”, possa completare la stesura del suo diwan, la raccolta di poesie scritte con il sangue di ogni vittima.

Un affresco della capitale egiziana e dei suoi abitanti dalle inusuali e sorprendenti tinte gotiche.

«Un assassino sociopatico e schizofrenico, una creatura in via d’estinzione nella letteratura araba, ma soprattutto, Imam ha qualcosa da dire su come si viva nel Cairo moderno». Ahmed Khalifa, blogger.

Tareq Imam (nato in Egitto nel 1977) scrittore, critico e giornalista, è il capo redattore della prestigiosa rivista letteraria egiziana Al Ibda‘. Ha pubblicato cinque raccolte di racconti e altrettanti romanzi, ottenendo importanti riconoscimenti e premi quali il So’ad El Sabah (2004), il Sawiris (2009 e 2012) e nel 2013, con ‘Ayn (Un occhio), ha vinto la III Edizione dell’International Flash Fiction Competition Cesar Egido Serrano Foundation, Museum of Words nella categoria “racconti in lingua araba”. Le mani dell’assassino (Hudu’ al-qatala, il Cairo) è stato pubblicato in lingua araba nel 2008.

traduzione dall’arabo di Barbara Benini
DAL 14 GENNAIO

 

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Sottotraccia

GIBSON_luce0William Gibson, Luce Virtuale, Mondadori 2008

La letteratura cyberpunk, nella penna di taluno dei suoi fondatori, come William Gibson, ha saputo vedere lontano, intuendo con perspicacia visionaria, talvolta solo tra le righe, sottotraccia, il rovescio della medaglia di quella società ipertecnologica e spettacolare che si andava annunciando alla fine degli anni ’70, l’altro lato del cartone di sfondo della splendida Parvenza che cela una squallida Sostanza o la totale assenza di Sostanza.

Molti dettagli di Luce virtuale, il primo dei tre romanzi che costituiscono la Trilogia del Ponte, precisano infatti il paesaggio di una società fondata sull’immagine, sulla rappresentazione, un’Era della Parvenza talmente sofisticata da non accontentarsi più della riproduzione/adorazione dell’immagine-copia-di-realtà, ma che è già arrivata ad identificarsi nell’immagine virtuale slegata da ogni riferimento sostanziale, l’icona illusoria che i giapponesi chiamano Aidoru (titolo del secondo romanzo della Trilogia): dagli ologrammi decorativi sui cofani delle auto a quelli che riproducono nude geishe in notti di luna, dagli occhiali che procurano visioni consolatorie alle trasmissioni televisive a contenuto pseudoreligioso – i televangelisti – o con funzione assistenziale-legale (Poliziotti nei guai), dalla necessità per chiunque di avere un proprio agente, come ce l’hanno i cineasti, i cantanti e i calciatori, a falsi storici e ideologici quali il Gotico Sudista, invenzione commerciale di un occultismo dixie mai esistito, dalle corporation di polizia privata con sede a Singapore che trattano i cittadini come clienti (il cliente ha sempre ragione) e la legalità e il diritto come un business (“sono clienti, nessuno si è fatto male, per cui ti togli dalle palle, okay?“) al programma di identificazione investigativa che basa l’identikit sulla somiglianza con attori o gente dello spettacolo, sicchè uno dei protagonisti è Tommy Lee Jones, un altro è Rainer Fassbinder e così via. Un mondo di plastica, un incubo schizoide in cui “(…) le loro vite assomigliavano a quello che uno vedeva in TV, ma non lo erano“.

Nel romanzo, originale trasposizione in un futuro terremotato di un contesto epico medievale (gli occhiali dalla vista magica, il cavaliere che lotta per salvare la fanciulla dai malvagi, la disputa per il tesoro, il quartiere casbah abbarbicato ai piloni e ai viadotti del Bay Bridge di San Francisco come le costruzioni elevate sui ponti della Parigi di Villon: “E quel ponte, amico, è un posto brutto. Pieno di anarchici, anticristi, fottuti cannibali, amico (….) praticamente fuori dalla portata della legge“), un futuro in cui i vecchi Stati Uniti sono separati in casa, con una NOrth CALifornia e una SOuth CALifornia, Tokyo e San Francisco sono state devastate e azzerate dal Big One, ziggurat foderate di specchi si slanciano nel cielo sporco di Città del Messico mentre la misera periferia è bombardata da missili di una guerra appunto periferica e perciò eterea come un evento televisivo, nella penisola italiana è sorto uno Stato chiamato Padania, e i suoi abitanti padanesi (sic!), un’imprecisata guerriglia è condotta da un Fronte Separatista di Sonora, e un fronte di liberazione neozelandese, che trasmette in TV comunicati anarco-sciamanici, contrasta truppe giapponesi di pacificazione a bordo di carri armati, il molteplice, proteiforme e caotico manifestarsi del fenomeno postmoderno della Parvenza è sintetizzato da un ricercatore nipponico con la parola “Thomasson”:

Thomasson era un giocatore di baseball americano, molto bello, molto potente. Venne acquistato dai Yomiyuri Giants nel 1982 per una grossa somma di denaro. Poi si scoprì che non sapeva colpire la palla. Lo scrittore e artigiano Genpei Akasegawa si appropriò del suo nome per descrivere certi monumenti inutili e inesplicabili (…)“.

Alle origini della Storia, nell’Era della Renna, il tomahawk con potenza di sacra folgore del cacciatore-poeta paleolitico.

Alla fine della Storia, nell’Era della Parvenza, il thomasson, che della folgore ha solo l’abbagliante ed effimero barbaglio.

L’Era della Parvenza che genera il thomasson ha tra le sue prerogative fondamentali la friabilità della causa, da intendersi quest’ultima come ragione funzionale delle cose ideata in virtù della loro destinazione. Non vi è più certezza condivisa sulla ragionevolezza nell’uso delle cose, che impassibilmente si consolida in abuso: l’oggetto-fulcro del romanzo, un paio di occhiali a luce virtuale, era stato inventato per i ciechi, poiché agendo direttamente con impulsi elettronici sul nervo ottico, purchè sano, avrebbe consentito anche ad un cieco di vedere. Causa meritevole e umanitaria. In apparenza, appunto. Infatti nel romanzo tale causa è citata distrattamente quasi come un residuo primitivo, essendo la causa attuale e più gettonata dalla massa – la folla solitaria – lo spettacolare e onanistico sesso virtuale.

Il concetto di relatività o friabilità della causa (da preferirsi friabilità in quanto evoca l’idea di un qualcosa che si atomizza in innumerevoli, caotici e mutanti frattali) favorisce lo sviluppo di grandi affari, perché l’Era della Parvenza è soprattutto l’epoca del Mercato. E talvolta si presta al liberticidio autorizzato e passivamente accettato. Quanta indipendenza abbiamo già sacrificato sull’altare della comodità tecnologica disseminando lo spazio virtuale di tracce informatiche alla mercè della merce? Quanto ancora per incessanti miraggi di falso benessere?

(…) gli era sembrata la cosa migliore di una lunga serie a cui pensava di potersi abituare senza difficoltà. Come volare in business-class o avere una carta di credito della SoCal MexAmeriBank (…)

In un ipotetico mondo di ipermercati come il Container City, dove ci si indebita prima di entrare garantendo così l’acquisto della merce e privando la persona della libertà di non comprare, il contante – che ha il grande pregio dell’anonimato – sparisce per sempre dalle transazioni commerciali, sostituito dalla più comoda, veloce, universale e inesauribile (si fa per dire) carta di credito. Chi ha il controllo dei codici allora ha un potere enorme, il Potere: non sei conforme alle logiche sociali vigenti? ti disabilito la carta.

Il giorno dopo, la rete staccò la spina della sua carta MexAmeriBank“.

È uno dei tanti inganni della Parvenza: tutto ciò che è virtuale non ha sostanza, ma avendo usurpato il ruolo della sostanza ne determina paradossalmente il destino se si sconfina oltre il circuito della simulazione. E così le Borse crollano o svettano per mera virtualità, intere fortune sono fondate sulle sabbie mobili dell’apparente, sancito in carta bollata ma non rinvenibile materialmente in alcun luogo, la competenza è un sentito dire, la qualità un’immagine certificata dai guitti del reality o del talk show, la storia una chiacchiera, l’indegnità una calunnia, quattro opinioni fanno un vangelo, il dato più cliccato è quello accettato indiscutibilmente come vero.

Uomo di Cro-magnon, dove sei?

Il romanzo di Gibson si snoda come un giallo, un noir con un bel plot, un avvincente incalzare di azioni, eventi, sorprese, con l’immancabile, ottimistico, americano, happy end… ? Sì, alla fine tutto finisce bene, i colpevoli sono assicurati alla giustizia, i cattivi che muovono i fili della cospirazione smascherati, carriere ripristinate e libertà riacquistate, nonché reputazioni ristabilite, ma… ma la produzione del reality si getta come un avvoltoio sulla vicenda e ne fa un format televisivo, quel briciolo di realtà vissuta all’ombra della rappresentazione virtuale, con le sue ansie, la paura, la gioia, i lutti, l’amicizia, l’amore, la sofferenza, le sciocchezze, le miserie e i grandi gesti, ciò che è vita vera, tutto viene riassorbito, commutato e distorto in immagine, inesorabilmente.

C’è ancora un vecchio tuttavia, un vecchio e la sua memoria e la sua consapevolezza di essere che sopravvivono lassù, che resistono in cima al pilone centrale del ponte. C’è ancora un domani:

Volevano trasportarla in fondo al ponte, lasciarla alla città. Dicevano che sarebbe morta prima di arrivare, comunque. Gli ho detto che potevano andare a farsi fottere tutti quanti. L’ho portata quassù. Potevo ancora farlo. Perché? Perché. Vedi qualcuno che sta morendo, gli passi vicino come se fosse alla televisione?“.

Mauro Del Bianco

Bukowski, una vita maleducata

BukowskiVoglio una vita maleducata, di quelle vite fatte così. Voglio una vita che se ne frega, che se ne frega di tutto sì. Voglio una vita spericolata, di quelle che non dormi mai”.

Henry Charles Bukowski, detto Hank, avrebbe apprezzato molto, se l’avesse conosciuta, questa canzone di Vasco Rossi.

Nato il 16 agosto 1920 ad Andernach in Germania, Bukowski  è stato sicuramente il più “spericolato” e “maleducato” scrittore del Novecento.

Figlio di un ex artigliere delle truppe americane, Charles non saprà mai parlare una parola di tedesco, perchè lascia la Germania a tre anni, quando la sua famiglia si trasferisce a Los Angeles (visiterà la sua città natale a pochi anni dalla morte, stupendosi costantemente del fatto di essere diventato una star nel suo paese natale).

Ha solo 3 anni quando la famiglia si trasferisce a Los Angeles, negli Stati Uniti.

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E’ un ragazzo chiuso e confuso, in continuo conflitto con il padre.

E’ complessato ed infelice per il suo aspetto.

Da piccolo lo deridono per il suo accento vagamente teutonico, da adolescente per il corpaccione sgraziato e la faccia butterata.

Passa i primi anni di  vita sulla difensiva.

E sulla difensiva resterà fin quasi alla fine.

A tredici anni inizia a bere e a frequentare teppisti.

Nel 1938,  preso il diploma, lascia la famiglia e inizia  un lunghissimo periodo di vagabondaggi, lavori saltuari, alcolismo.

Lavapiatti, posteggiatore,  facchino.

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Dorme quando può e dove può, fa a botte ad ogni occasione ( prendendole spesso: “Ero un buon pugile, ma con mani troppo piccole”dirà poi),  finisce spesso in gattabuia per rissa o schiamazzi notturni.

Insomma una vita che più maleducata non si può.

Ma scrive. In ogni occasione, in ogni posto, a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma soprattutto la notte, continua a scrivere.

I suoi racconti e le sue poesie cominciano ad apparire sempre più spesso nelle riviste underground.

Scrive sempre, ed ossessivamente, della cosa che conosce di più: se stesso ( ” Agli scrittori piace solo la puzza dei propri stronzi”).

La sua condizione di emarginato lo ispira: «Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare a indovinare.»

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Gli scontri con gli uomini, gli incontri con le donne, il vino, la birra,  le corse dei cavalli, la sua scassata Wolkswagen(«Prendete pure la mia donna, ma non toccatemi l’auto»), i vicini di casa, i risvegli con la testa che scoppia e lo stomaco in subbuglio, le scenate, i rari momenti di languore romantico, la irresistibile voglia di provocare ed offendere, che poi imprevedibilmente lascia il posto a gentilezza e sensibilità ( come se in lui abitassero, a seconda della quantita- e qualità- dell’alcol ingurgitato, diverse personalità).

Tutto questo entra di forza nelle pagine di Bukowski e lo rende uno scrittore inimitabile.

Il sesso è raccontato in maniera cruda, meccanica, a volte comica:” Il sesso è tragicomico. Ne scrivo come di una risata sul palcoscenico, come di un intermezzo tra un atto e l’altro”

Nessuno ha la sua totale e sgradevole sincerità, nessuno  si spoglia, si denigra, si commisera e si irride come lui.

Nessuno come lui odia la retorica: “ Se mai dovessi parlare d’amore o di stelle, uccidetemi

Nessuno più di lui disprezza i suoi simili: “Gli uomini per me sono come sassolini bianchi; anzi no, ripensandoci, i sassolini bianchi non sono poi così male”

Insomma un grande scrittore che è anche un grandissimo personaggio

La  scrittura è veloce, quasi sincopata,  semplice, ma, pur nella semplicità, sempre  feroce e corrosiva.

Più le sue condizioni di vita sono squallide eprecarie, più si sente ispirato : “Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare ad indovinare”

Assunto dal Postal Office di Los Angeles, Bukowski attraversa gli anni ’50 e ’60 continuando ad essere uno scrittore semiclandestino.

E’ un autore di culto, come diremmo oggi, ma per pochissimi.

Poi, un giorno,  quando è già un uomo maturo, una collezione dei suoi pezzi più trasgressivi e velenosi esce in volume.

Il libro si intitola “Taccuino di un vecchio sporcaccione” ed ha un discreto successo.

Prende coraggio e lascia l’ufficio postale.

Ha quarantanove anni ( anche se ne dimostra molti di più) , ma, anche se il suo corpo è devastato da una vita disordinata e dispendiosa come poche, ha sempre più voglia di scrivere e di raccontarsi.

E più l’uomo Bukowski è distrutto e rovinato, più i suoi racconti acquistano forza e freschezza.

Ha la fortuna di incontrare a quel punto un uomo che crede moltissimo in lui e nella sua possibilità di diventare uno scrittore di successo.

L’uomo è John Martin.

Manager di professione e appassionato di letteratura per vocazione, Martin gli offre un assegno periodico quale anticipo sui diritti d’autore e si impegna  a promuovere e a commercializzare le sue opere.

Il sodalizio ha un enorme successo.

All’inizio soprattutto in Europa, successivamente anche in America.

Inizia il periodo dei reading poetici, vissuti da Bukowski come un incubo  e raccontati magnificamente in molti  racconti : “Viaggiare è una seccatura: di problemi ce nono sempre a sufficienza già dove sei”

Proprio durante una di queste letture, nel 1976, Bukowski conosce Linda Lee, che riesce nell’impresa di cambiargli regime alimentare e ridurgli l’alcol.

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Ormai Bukowski può permettersi una villa con piscina, una Bmw al posto della Wolkswagen, vino bianco di prima qualità e ristoranti di lusso.

Gli ultimi anni sono vissuti in grande serenità e agiatezza.

Ma la vena creativa non viene meno.  Continua a scrivere e a pubblicare fino alla fine.

bukowski_matitaMuore nel 1994.

Alla morte è dedicato uno dei suoi scritti:

“Ti ho dato tante di quelle occasioni

che avresti dovuto portarmi via

parecchio tempo fa.

Vorrei essere sepolto

vicino all’ippodromo…

per sentire la volata

sulla dirittura d’arrivo”.


Filippo Cusumano

Dopo la notte

Dopo la notte edito da Il filo (VT), è il primo, breve romanzo di Alessandra Boga.

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Alessandra, 28 anni, vive a Meda (MI) e conseguito il diploma al liceo classico, si è laureata in Scienze dell’Educazione all’Università Cattolica di Milano. Ma in fondo, il sogno che aveva fin da bambina e la passione di scrivere erano ancora lì e hanno prodotto quest’opera.

Alessandra, bel titolo quello che hai scelto per il tuo primo libro – ovviamente si spera primo di una lunga serie – .

– Grazie. L’ho intitolato Dopo la notte perché “notte” è il nome di una delle protagoniste. O meglio, è il nome con cui la chiamano gli amici e quasi tutti i suoi parenti: quello vero è Leila, che in arabo significa appunto “notte”.

Leila è araba?

– È un’adolescente di origine egiziana nata in Italia e che vive a Milano con la sua famiglia, rigidamente musulmana e che, come si sente a volte nella cronaca, le vuole imporre un matrimonio con un cugino che non conosce e che vive in Egitto.

Il tuo è un romanzo sulla condizione delle donne arabe e musulmane nel nostro Paese?

– Sì, condizione che paradossalmente può essere peggiore qui che nella terra d’origine, com’è illustrato nelle pagine che ho scritto. Ma la storia è ispirata a fatti realmente accaduti qualche anno fa in Israele: 8 donne arabo-israeliane sono vittime di delitto d’onore nella stessa famiglia. Piano, piano le altre prendono il coraggio a due mani e, sfidando i divieti dei loro uomini e denunciano tutto. Il filo conduttore è il diario di Leila, come nella vicenda “originale” una delle ragazze teneva un diario segreto. Ho ambientato la mia a Milano perché è una realtà che tutto sommato conosco meglio.

Hai anticipato che Leila – Notte non è l’unica protagonista.

– Esattamente. Ce ne sono altre 3: la cugina Reem, la sorella maggiore Rajàa e la tunisina Siham, che con Rajàa condivide il marito.

Hai detto “condivide il marito”?

– Proprio così. Purtroppo sono numerosi i casi di islamici poligami in Italia e molti di più quelli che sfuggono alle statistiche. Non solo tra gli immigrati.

Allarmante … . C’è qualcosa che accomuna la storia di queste 4 ragazze?

Sì ed è la disperazione, l’incomprensione che trovano da un parte nella loro famiglia troppo rigida – in particolare parlo di quella di Leila, Rajàa e Reem – e dall’altra di alcune amiche, che per buonismo, relativismo, cercano di convincerle ad accettare quella che è la “loro cultura”. Il che vorrebbe dire per esempio che Reem deve lasciare il suo ragazzo italiano e cattolico e Rajàa e Siham accettare di vivere con lo stesso marito sotto lo stesso tetto.

Ti sei ispirata anche a vicende di cronaca a noi vicine?

Beh, le storie di Leila e Reem messe assieme sono molto simili a quella di Hina, la ragazza pachistana della provincia di Brescia che due anni fa è stata sgozzata dal padre con la complicità dei cognati e dello zio di lei, perché voleva vivere libera dalle tradizioni familiari e amava un ragazzo italiano.

Alessandra, non ti pare che si parli già abbastanza di donne arabe e musulmane?

No, anche perché ho l’impressione che non se ne parli modo corretto. È una realtà che non conosciamo a sufficienza. Alcuni si limitano a sottolineare quanto queste siano sottomesse, non sapendo che alcune, come ho già detto, erano meno controllate dagli uomini nel paese d’origine, soprattutto in passato. Che in Stati islamici come Tunisia e Turchia la poligamia è vietata e sanzionata, mentre qui in Italia resta impunita anche se è chiaramente contro la legge. Altri sostengono, spesso per paura, ignoranza e odio nei confronti dell’Occidente, che le donne arabe e musulmane sono “contente così”, nella loro condizione di discriminazione e violenza subita perchè “quella è la loro cultura”, “quella è la loro religione”, come le amiche delle protagoniste di Dopo la notte. Come se fosse meglio un velo in genere imposto, piuttosto che una ragazza che può decidere di sgambettare in Tv o meno! Perché chi afferma il contrario è politicamente scorretto e può essere tacciato di razzismo.

Andrea B. Nardi

FUTURISMO, MITOLOGIA E AVANGUARDIA LETTERARIA RUSSA

Nel futurismo letterario russo convivono l’estremismo sperimentale delle forme e delle sintassi, con esiti analoghi a quelli teorizzati dai capisaldi rivoluzionari marinettiani Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912), Supplemento al Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 agosto 1912), Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà (11 maggio 1913) e, paradossalmente, un’utopia che vagheggia un’Età dell’Oro collocata in un indefinito passato.

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I futuristi russi, affamati di nuovi linguaggi al punto di apprezzare perfino l’errore di stampa quale inconsapevole innovazione stilistica, e i loro epigoni delle avanguardie sovietiche degli Anni ’20, hanno tentato in letteratura percorsi di costruzione e decostruzione che i futuristi italiani si sono limitati a sperimentare prevalentemente nella poesia e nel teatro.

L’ansia logopoietica che caratterizza i russi rispetto agli italiani non è tanto l’espressione di talenti diversamente e prevalentemente orientati, quanto il derivato di una differenza sostanziale nell’impostazione ideologica: l’esaltazione del primordiale, motore del Futurismo, è intesa dagli italiani come espressione vitale (l’istinto, la forza, la brutalità, il disumano = il sovrumano) del superamento permanente, dello stile di velocità animale-sentimentale-intellettuale dell’uomo-macchina, mentre per i russi il primordiale assume il valore di un ritorno alla comunità e alla vita preistoriche, il futuro come superamento dello spazio e del tempo non in un infinito dinamismo, ma nella ricostituzione di un mondo leggendario e mitico che ha lasciato traccia di sé nella pietra delle steppe e nel patrimonio epico delle genti d’Asia.

In parole povere i futuristi italiani corrono per correre, perché il paradiso è correre (la velocità come annullamento dello spazio e del tempo), i futuristi russi corrono per raggiungere l’Arcadia slava o turanica, perché stare in quell’Arcadia è il paradiso (superando il divenire in uno spazio oltre la terza dimensione che racchiude, facendoli coincidere, il passato, il presente e il futuro). Di conseguenza il problema di un ordinamento futurista è più urgente per i russi che per gli italiani, questi ultimi in fondo esaltanti non tanto un futuro fantascientifico quanto le novità tecnologiche del presente, dato che per i futuristi italiani non esistono propriamente un passato e un futuro se non come termini di opposizione, esiste invece un eterno presente continuamente modificantesi, magmatico e proteiforme con il quale dover stare al passo, protesi nel suo superamento, come azzurre locomotive lanciate sull’orizzonte infinito. Il futurista italiano brucia nella sua corsa le sue creazioni, il futurista russo elabora l’utopia del mondo di domani e quindi anche un nuovo linguaggio e una nuova letteratura.

In apparenza primitivismo e utopia sono opzioni contrarie. Ma negli scritti di Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono. Ecco perché quasi sempre egli esprime all’imperfetto le diavolerie del futuro, come realtà di un periodo preterito, ormai dietro le spalle. Assumendo una dimensione aoristica, il futuro diventa esperienza anteriore. Quel che sarà è già stato (…)” dice Angelo Maria Ripellino nel ricco saggio introduttivo a Velimir Chlébnikov, Poesie, Einaudi 1989, libro preziosissimo che oggi è introvabile o quasi (buona fortuna…).poesie

Non è infatti un caso che i futuristi russi raccolti intorno ai fratelli Burljuk abbiano denominato il gruppo Gilèja, l’antica Ylaiē, la “contrada selvaggia” a oriente del Boristene (Dnepr) citata da Erodoto, la regione ucraina identificata con la leggendaria terra degli Sciti, che abbonda di reperti archeologici quali kurgàny (tumuli preistorici di popolazioni indoeuropee o scitiche) e kàmennye baby (le befane di pietra, statue peceneghe e cumane poste a guardia delle tombe lasciate nella steppa da queste popolazioni turaniche). E i Gilejani adotteranno poi, senza sofferta contraddizione e su ispirazione di Chlébnikov, anche l’appellativo di budetljane, “coloro che saranno”, i “saristi” (storicamente costoro vengono identificati come cubo-futuristi per distinguerli dagli ego-futuristi, altro gruppo dal segno meno incisivo e più vicino al simbolismo decadente e ad uno stile ricalcato sull’esteriorità chiassosa del futurismo italiano).

Ecco dunque che nella letteratura di Velimir Chlébnikov (l’archimandrita, come lo definisce Ripellino, dei futuristi russi, il costante punto di riferimento di tutte le avanguardie letterarie russe dei primi trent’anni del ‘900, il maestro di Majakovskij e degli Oberiuti) convivono senza conflitto tre aspetti tematici che rimandano ad altrettante cifre stilistiche:

– l’Asia turanica / il linguaggio primordiale e lo zaúm / la poesia stellare

– la Russia pagana e paleoslava / mitologia, incantesimi, esorcismi / la poesia zagovorica

– la visione profetica / pronostici, neologismi, invenzioni / la poesia algebrica.

Il linguaggio zaúm o transmentale è costituito da una serie di fonemi e di sillabe non riconducibili a significati convenzionali, un linguaggio arbitrario di sonorità ritenute evocatrici di oggetti, colori, sentimenti, idee, la cui più famosa e citata serie è quella realizzata da Aleksèj Kručënych, il quale come Adamo voleva rinominare tutte le cose, ristabilendo la primordiale purezza del linguaggio:

dyr bul ščyl

ubeščur

skum

vy so bu

r l ez

Esempio di zaúm (benché parziale) chlébnikoviano:

Bobeòbi si cantavano le labbra

veeòmi si cantavano gli sguardi

pieeo si cantavano le ciglia

lieeej si cantava il sembiante

gzi-gzi-gzeo si cantava la catena:

così sulla tela di alcune corrispondenze

fuori della dimensione viveva il Volto.

(trad. di A. M. Ripellino)

dove le serie alfabetiche, stando ai taccuini del poeta, dovrebbero avere queste corrispondenze evocative (cfr. Ripellino op. cit. p. 180):

b = rosso = labbra

m = turchino = sguardi

p = nero = ciglia

l = bianco = il sembiante

g = giallo

z = oro.

Lo zaúm fece scuola nei primi vent’anni del ‘900 russo, anche Boris Pil’njak lo utilizza nel suo romanzo sperimentale L’anno nudo del 1920 (pubblicato nel 1922 e riedito in italiano da UTET nel 2008, con prefazione di Cesare G. De Michelis e postfazione di Aleksandr Solženicyn), servendosi abilmente di sigle sovietiche per comporre la canzone nella tormenta, la tormenta uralica che diventa tormenta rivoluzionaria:

Gviiuu, gaauu, gviiiuuu,

gviiiiuuuu, gaaauu!

Gla-vbumm!

Gla-vbumm!!

Gu-vus! Guu-vuuzl…

evocando così anch’egli le orde asiatiche, le scorrerie, il ritorno del primordiale, la disumanità della steppa, l’incantesimo slavo di rusalche, silfidi e principi vareghi, le stregonerie finniche e turaniche, in un romanzo che sperimenta un intreccio asintattico di sequenze autononome, gratuite, non teleologiche, di polifonica anarchia letteraria orchestrata da stilemi fiabeschi, una sorta di vertoviano uomo con la macchina da presa realizzato su carta, e ben prima di Dziga Vertov (sicchè si potrebbe dire che L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, 1929, è un pil’njakiano anno nudo applicato alla celluloide).

chlebnikov1Tornando a Chlébnikov, appare ben più interessante e significativo il linguaggio stellare ideato da questo poeta randagio e indigente, profeta algebricamente ispirato che i persiani chiamarono Gul mullā, il Sacerdote dei fiori, un linguaggio basato su un lettrismo che attribuisce alle consonanti un valore semantico e alla prima consonante della parola un valore dominante delle lettere successive e del significato complessivo della parola stessa. Da Uno sgraffio sul cielo:

Dov’è di verdi CHA per due uno sciame,

e nella corsa un’ELLE di vestiti,

un GO di nubi sopra i giuochi umani,

un VE di folle attorno a fuochi aviti,

ČA di ragazzo, DO di vesti lievi,

ZO dell’azzurra camicia d’un giovane,

PE blusa porporina d’una vergine,

KA di sangue e di cieli (…)

(trad. di A. M. Ripellino)

A proposito di lettrismo stellare la lezione chlébnikoviana è ripresa da Majakovskij in Ordinanza all’armata delle arti in cui dice “Vi sono ancora delle buone lettere: Er, Ša, Šča” (R, Š, ŠČ), contenuta nel libro raro (1.000 esemplari numerati): Vladimir Majakovskij, El Lisitskij, Per la voce, Ignazio Maria Gallino Editore, 2002 Milano, 13 poesie di Vladimir Majakovskij in un libro costruito da El Lisitskij, costruito nel vero senso della parola, utilizzando per la forma un’agenda telefonica a pagine scalari e per la grafica soltanto i caratteri tipografici: un capolavoro dell’estetica futurista/costruttivista, storicamente emblematico come il libromacchina bullonato Depero futurista (1927) e le successive litolatte di Marinetti e D’Albisola.poster-lengiz-1924

Anche Andrej Belyi, altro grande sperimentatore della narrativa russa, tra i primi in Europa a disintegrare il linguaggio e la struttura del romanzo, ricorrendo ad uno stile ritmico e musicale fatto di neologismi con nuove accezioni, nella sua opera Glossalolija (1917) indaga il significato nascosto delle lettere dell’alfabeto, attribuendo a ciascuna lettera il valore simbolo di un concetto.

Inoltre Chlébnikov inventa un intero poema fatto di palindromi (Razin, 1920), ricorre alla poesia zagovorica (da zàgovor: sortilegio, esorcismo) nel famoso Esorcismo col riso:

Oh, mettetevi a ridere, ridoni!

Oh, sorridete, ridoni!

Che ridono di risa, che ridacchiano ridevoli,

oh, sorridete ridellescamente! (….)

(trad. A. M. Ripellino)

Spesso sulla base di radici esistenti inventa nuove parole che non hanno un significato preciso, transmentali, come smechač, ridone, che sarebbe poi diventata di uso comune e sarebbe anche stato il titolo di una rivista umoristica” (Paolo Nori, Pancetta, Feltrinelli 2004, p. 29).

concepisce nuove parole, come:

nebo (cielo) + lèbed’ (cigno) = nèbed’ (celigno, uccello celeste)

dvorjàne (aristocrati) + tvorít’ (creare, inventare) = tvorjàne (inventocrati, creatori di vita)

son (sogno) + čertòg (palazzo) = sonòg (palazzo dei sogni)

predice il futuro attraverso calcoli matematici applicati al tempo, e indovina, incredibilmente indovina (nel suo Saggio sul significato delle cifre e sui modi di prevedere il futuro del 1911, prevede la caduta dello Zar nel 1917; nel 1919 calcola che qualcosa accadrà a Char’kov, va a verificare e la città viene conquistata dai Bianchi):

BATYJ E PI

Monumento a un perpetrato errore (317π = 995,8872)

Primo bottino

E – ruscello di numeri, due e fumo di numeri

E = 2,718

π = rapporto fra il circolo e il grande asse

317 anni = un’onda della corda dell’umanità, vibrazioni di scorrerie.

(….) 317 x e anni più tardi, ossia nell’861,

dopo l’uragano di quei popoli

diluviarono di nuovo i Tartari,

pestando la Russia con travi di guerre,

arsero Kiev, banchettarono sui vinti (….)

(trad. di A. M. Ripellino)

profeta metropoli di vetro e ferrovie circumhimalayane.

Le scienze matematiche applicate alla letteratura trovano un originalissimo esito in un’opera inedita, ma scritta per un concorso, del giovane Venjamin Kaverin, appartenente al gruppo formalista dei “Fratelli di Serapione” e geniale ideatore di trama letteraria ed estetica libraria: L’undicesimo assioma (vale a dire: due rette parallele s’incontrano all’infinito) dove Kaverin scrive sulle due metà della stessa pagina due storie diverse che si svolgono in tempi diversi, e che ad un certo punto s’intersecano violando l’unità logica e cronologica dei rispettivi racconti con un salto nel passato (cfr. Venjamin Kaverin ovvero il gioco della scrittura in eSamizdat).

Poiché anche in questo caso di sperimentalismo geometrico il passato agisce da calamita, attraendo ed assorbendo nella sua dimensione il presente, una certa frase di Evgenij Zamjatin, che letta così sembrava una frase ad effetto e un po’ retorica, acquista invece una dimensione emblematica di un’intera epoca letteraria: “Il futuro della letteratura russa è nel suo passato“.

Mauro Del Bianco

Tentativo a manovella

canzoni-a-manovellaTENTATIVO A MANOVELLA

Matteo Codignola, Un tentativo di balena, Disegni di Roberto Abbiati, Adelphi 2008

Per chi sa ancora incantarsi al luna park delle meraviglie ingenue del passato (tipo: organetti, giochi di latta, caleidoscopi, grammofoni, marionette, lanterne magiche, cinema muto, grafica liberty) e tuttavia cerca nella letteratura o sul proscenio l’inedito che sappia essere anche poesia, se ama le Canzoni a manovella di Vinicio Capossela e il Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti, Un tentativo di balena è il libro che fa per lui.

È un libro insolito, per cui si fa presto a dire cosa non è, non è semplice invece stabilire a quale genere letterario appartiene. Non possiede infatti la razionalità geometrica del saggio, né la vaga irrealtà del romanzo, nemmeno la linearità descrittiva della cronaca, eppure contiene saggistica, narrativa e cronaca. E non solo. Ci sono anche disegni. E non solo. C’è anche la musica (per quanto occorra immaginarsela nel suo sviluppo melodico).

È un tentativo di libro, inteso come esperimento letterario che riproduce su carta una Wunderkammer, una stanza/scatola delle meraviglie, con un itinerario che, pur avendo quale stella di orientamento un classico della letteratura come Moby Dick e quale tema di fondo la possibilità/tentazione di ridurre all’indispensabile un qualunque testo, si snoda lungo tappe e percorsi insoliti o poco frequentati. Si parte infatti con i romanzi da tre righe di Félix Fénéon per arrivare al racconto di una rappresentazione teatrale che dura un quarto d’ora (quattordici minuti e quarantadue secondi, per essere precisi), ideata, diretta ed interpretata da un artista originalissimo che si chiama Roberto Abbiati. Tra la partenza e l’arrivo c’è posto per il citato Fénéon, per i Minimal Poems di Aram Saroyan, per un romanzo da una riga di Stephen King (“L’ultimo uomo rimasto sulla Terra è chiuso nella sua stanza. Bussano.”), per le vicissitudini polari di Rockwell Kent, illustratore del Moby Dick in bianco e nero, per le fisime di John Huston mentre girava il film tratto dal romanzo di Melville, per un filmato di Orson Welles che recita Moby Dick in chiave minimalista (22 minuti, monologo, fondale vuoto con riflessi d’acqua provocati da specchi), per Il cacciatore di immagini di Charles Simic, per la casa dell’astronauta, un’installazione di Ilya Kabakov nota come L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento, per un cortometraggio del muto tratto da un romanzo fantascientifico di Wells, per ricucire una biografia di Roberto Abbiati rappezzata di aneddoti delle sue esperienze artistiche, biografia puntinista che profila un personaggio da genere narrativo: se Roberto Abbiati non esistesse veramente (per il lettore ignaro la prima prova della sua esistenza sono le sue opere teatrali citate in copertina, oltre ai disegni presenti nel libro) lo crederesti un’invenzione dell’autore, una figura letteraria.

La struttura del libro fa pensare ad un meccanismo di scatole cinesi. La scatola principale (il libro in sé) ne contiene altre due: un’introduzione divagante e ricca di citazioni, e lo spettacolo Una tazza di mare in tempesta, composto da ventuno quadri della durata minima di ventiquattro secondi e massima di un minuto e quaranta secondi, ciascun quadro commentato da Matteo Codignola con riferimenti all’originale di Melville, quindi con intertesto (altra scatola), e che si svolge all’interno di una stanza/scatola di quattro metri per due metri e sessanta, alta due metri e dieci centimetri, e dentro la stanza c’è una credenza/scatola che contiene: foto di bastimenti, conserve di mare (barattoli di vetro colmi di conchiglie), scure e pialla in posa da profilo di balena, pipa/trealberi, appendi-abiti/pennone-parocchetto-gabbia-belvedere, schiumarola d’oro, violino con lampadine e morna incorporata, concertina a tre mani, molletta-da-bucato/trealberi, scolapasta/scialuppa-di-baleniera, balene di rame e in filo di ferro, statuine di terracotta, scatola di caramelle di latta gialla e rossa.

Questi infatti sono gli oggetti, in prevalenza di origine domestica, riconvertiti all’immaginario che Abbiati adopera, opportunamente modificati/integrati/installati/illuminati, per evocare atmosfere da romanzo marino, da fantastico viaggio a balene che concentra le ottocento e passa pagine di Melville in una rappresentazione di un quarto d’ora scarso.

Nella stanza/scatola che è tutto il teatro disponibile, sulle assi del pavimento volutamente flettenti e cigolanti come quelle del ponte di una nave, ci sono quindici sgabelli per altrettanti spettatori

Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto (R.L. Stevenson, L’isola del tesoro)

Quindici uomini sono andati, se li è presi la morte secca (Vinicio Capossela, Canzone a manovella)

Quindici uomini, quindici uomini e quaranta teste di porco (Vinicio Capossela, Brucia Troia)capossela

che vedono spalancarsi le finte finestre alle pareti come ribalte dove si svolgono i quadri della rappresentazione, quindici spettatori ammutoliti che piombano nel buio tagliato da lame di luce azzurra conficcate tra le assi del ponte della nave, o che alzando lo sguardo vedono sopra le loro teste un cielo blu costellato da una marea di lumini, mentre una cima che pesca in un secchio di ferro scorre rumorosamente simulando le funi degli arpioni tese da un’immaginaria Moby Dick che si tuffa e riemerge e sprofonda trascinando l’equipaggio nell’abisso.

E il comandante avanza

e niente si può fare

vuole una morte

la vuole affrontare.

(…) Il comandante è pazzo

e avanza nel peccato

e il demone che è suo

adesso vuole mio.

(Vinicio Capossela, Santissima dei Naufragati)

C’è anche la musica? Sì, in questo dramma oceanico c’è anche la musica

(…) i libri, le scialuppe

i manoscritti, le caldaie

l’orchestra ci ha suonato Charles Trenet

e sulle note di La Mer

nell’acqua scura si affondò

(Vinicio Capossela, L’affondamento del Cinastic)moby

un concertino di concertina a tre mani (due sono sicuramente di Abbiati, poi Codignola fa notare che ce n’è una terza che gli regge il mento in una posa di pensosa malinconia) e una morna di Capo Verde esalata da un violino illuminato.

Nel cielo di cenere affonda il giorno dentro l’onda (Vinicio Capossela, Morna)

Roberto Abbiati è l’unico interprete dei diversi ruoli del dramma, una tela cerata o un berretto da marinaio, un certo tono di voce, uno sguardo, una luce sparata dal basso o di profilo bastano a caratterizzare il personaggio rappresentato. Sparizioni e apparizioni, invenzioni e sorprese: se si considera il materiale utilizzato, imprevedibile rispetto alla sua originaria destinazione d’uso e di fattura semplice, ci troviamo di fronte, come scrive Codignola, ad una sorta di illusionismo cinematografico che ricorda le pellicole preistoriche degli anni eroici della macchina da presa, le quali vanno apprezzate per l’ingenua meraviglia che sanno ancora destare, non diversamente da una fiera di circensi da strada o dallo spettacolo dei fuochi d’artificio.

L’emozione è tutto nella vita (L.F. Céline, Guignol’s Band)

L’illusione è tutto nella vita (Vinicio Capossela, Nel blu)

Ah, dimenticavo: l’interpolazione dei testi di Stevenson, Céline e soprattutto di Vinicio Capossela nel libro di Matteo Codignola non c’è, ma potrebbe essere un’idea. Narrano infatti di aver visto Vinicio aggirarsi dietro le quinte dei suoi concerti con un libro in mano, e sulla copertina del libro c’era scritto:

Moby Dick.balen

serenata di capodoglio

per il mio cuore chiuso sott’olio

a spasso in mezzo al mare

senza un messaggio da riportare

solo per gli occhi di una sirena

con la coda di una balena.

(Vinicio Capossela, Canzone a manovella)

Mauro Del Bianco

TIBET – Mito e Storia

tibet

TIBET – Mito e Storia

di Pietro Angelini

Edizioni: Stampa Alternativa

Formidabile questo nuovissimo lavoro della coraggiosa e infaticabile casa editrice Stampa Alternativa, sempre attenta a tematiche stimolanti. Tibet – Mito e Storia è un racconto d’avventura sotto la veste di saggio magico, un modo nuovissimo d’analizzare momenti di storia e di socialità attraverso una narrazione personalissima, fascinosa, incantata, ma al contempo strettamente scientifica nelle sue conclusioni. Un approccio originale ed efficacissimo per parlare seriamente del Tibet al di là delle farneticazioni new age da bolsi attori hollywoodiani. Pietro Angelini è un orientalista e documentarista, autore di altri quattro titoli, tra cui un romanzo, sempre sullo sfondo dell’Oriente.

Troppo spesso ostaggio dei miti che l’Occidente ha messo in vendita nei supermercati del nuovo materialismo spirituale, il Tibet viene descritto come un paradiso perduto. Un luogo popolato da saggi monaci non-violenti, vittime inermi di un “genocidio” da parte dei cinesi, che sembrano incarnare tutto il male possibile.

Secondo una visione opposta, fino agli anni ’50 era invece una specie di Stato canaglia, una teocrazia fanatica e integralista governata da leggi barbare e sorretta da un rigido sistema feudale di servitù della gleba. Ma i due punti di vista sono ugualmente fuorvianti, perché eludono la complessità delle vicende storiche che cinquant’anni fa hanno determinato l’esilio del Dalai Lama e la nascita della questione tibetana.
Questo libro racconta il Paese delle Nevi dai primi miti agli ultimi tragici avvenimenti, le radici del conflitto coi cinesi, così come la vera storia del Tibet.

Un resoconto fuori dal coro – sorretto da un’impressionante documentazione – sulle vicende passate e le prospettive future di una cultura unica al mondo e di un popolo sull’orlo dell’estinzione.

Immaginate un diamante, cavato da deserto di sassi e precipitato in un crogiuolo a bollire con il ferro di una meteorite, insieme al burro di un bovino nipote di mammuth e al corallo che un pastore ha raccolto dove c’era un oceano tanto tempo fa, all’epoca dei dinosauri. E che intorno a questa molecola di carbonio vi sia dell’acqua, nella forma di un lago blu che rifletta il cielo, circondato da una terra color ruggine come una montatura d’oro trattiene uno sputo di cobalto nell’anello di un mago errante nell’Asia.

C’era una volta, al di là delle montagne più alte della terra, un regno chiamato Shangri-la. Il popolo che abitava questo regno incantato era fiero e compassionevole, munito di una saggezza fuori dal tempo che sembrava provenire da quelle stelle che certe notti pare di poter toccare con la mano… La storia del Tibet è, in realtà, ben più noiosa di una favola che potrebbe cominciare in questo modo. E fino a qualche tempo fa il Tibet non era che un suono di quelli che precedono gli sbadigli, un vuoto sulla carta geografica dell’Asia o al massimo una di quelle cose che si leggono in un almanacco illustrato o in un sussidiario scolastico. Troppo singolare per apparirvi con qualche scopo, freddo e solitario, rozzo e sottile a un tempo, feroce e dolcissimo, materico e rarefatto, spesso incomprensibile, il Tibet era fuori dai nostri pensieri, in uno spazio-tempo di antico conio, incastonato nel resto del mondo come per caso e sorvegliato dai suoi imgombranti vicini: la Cina che l’ha divorato nel 1950 e che ora lo chiama Regione Autonoma del Tibet e dell’India, che lo ammira per aver accolto tanto tempo fa la dottrina del Buddha, quando gli sciabolanti guerrieri islamici imperversavano nelle polverose piane del Bihar.

Il Tibet era un regno nascosto e scontroso, confinato da ghiacci e deserti. Un altipiano di vertiginose altezze che ha custodito per secoli una civiltà fossile, frequentata dai venti e popolata da demoni e yak, attraversata da nomadi, governata da re-bambini che cavalcavano e tiravano con l’arco e poi oberata da monaci buddhisti e infestata da maghi neri capaci di violare le leggi della natura e di comminare sortilegi mai visti: non solo volare, leggere nel pensiero, sdoppiarsi nel corpo e provocare tempeste o valanghe, ma anche attraversare i mondi adiacenti. E morire e rinascere a piacimento. Nel turbinio dei venti, fra cruente fatalità ed elevate realizzazioni, questo regno conobbe i giorni e le notti: lui che sapeva come porre fine alla brama, cadde spesso vittima della brama, chi conosceva il segreto della compassione spesso compassione di sé non ebbe. E volle perdersi, dopo la gloria, per infinite volte, nel vortice del samsara, e rivivere ancora, e ancora, i frutti del suo antico agire.

Tibet – Storia e mito di Pietro Angelini

Edizioni Stampa Alternativa – Collana Eretica Speciale

376 pagine

ISBN: 978-88-6222-055-2

Andrea B. Nardi

Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlečin

riceviamo e pubblichiamo dalla Casa Editrice Sandro Teti

stalin

Dalla prefazione di Leonid Mlečin

“Tutti coloro a cui ho sottoposto il manoscritto di questo libro, che ringrazio per le loro preziose osservazioni, mi hanno consigliato di pensare a un titolo diverso, obiettando che furono le Nazioni Unite e non Stalin a creare Israele. Sono tuttavia convinto che se non fosse stato per Stalin, probabilmente uno stato ebraico in Palestina non sarebbe mai sorto. La decisione del dittatore sovietico, oltre a determinare il destino dell’attuale Medio Oriente, ha influenzato la storia politica dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti.

Questo punto di vista è sostenuto da centinaia di documenti segreti provenienti dagli archivi sovietici e ora raccolti in due importanti pubblicazioni: Le relazioni sovietico-israeliane. 1941-1953, a cura del Ministero degli affari esteri della federazione Russa, e Il conflitto mediorientale. 1947-1956 pubblicato dalla Fondazione internazionale “Democratija”.

Ora siamo finalmente in grado di mettere a confronto le note del Ministero degli esteri dell’URSS, i telegrammi cifrati degli ambasciatori, i verbali dei colloqui dei Ministri degli esteri e le registrazioni del Comitato Centrale del PCUS con le memorie di politici e diplomatici, protagonisti di quei drammatici avvenimenti.

Possiamo così finalmente rispondere al quesito più importante: “Perché a Stalin serviva Israele?”, “quali piani aveva in serbo per il Medio Oriente? Perché, in seguito, la politica sovietica in Medio Oriente mutò in modo così radicale e repentino? Quali conseguenze ebbe questo cambio di rotta per l’URSS?
Questo libro non è dedicato a Israele ma alla politica sovietica in Medio Oriente
“.

Leonid Mlečin

Perché Stalin creò Israele

Leonid Mlečin

traduzione di Svetlana Solomonova

prefazione di Luciano Canfora
introduzione di Enrico Mentana

Collana: Historos

pag. 216 €17,00

ISBN: 978-88-88-249-20 9

Perché Stalin creò Israele è il nuovo titolo scelto dall’editore Sandro Teti per Historos, collana ideata per la conoscenza e la comprensione della Storia senza limiti cronologici e geografici. L’uscita dell’opera coincide con il sessantesimo anniversario della nascita dello stato di Israele. Il libro verrà presentato in occasione di “Più Libri Più Liberi”, la Fiera della piccola e media editoria in programma a Roma dal 5 all’8 dicembre. La traduzione è di Chiara Spano, la prefazione di Luciano Canfora, mentre l’introduzione è curata da Enrico Mentana.

Il libro

“Perché a Stalin serviva Israele? Quali piani aveva in serbo per il Medio Oriente? Perché, in seguito, la politica sovietica in Medio Oriente mutò in modo così radicale e repentino? Quali conseguenze ebbe questo cambio di rotta per l’Urss?”.

Leonid Mlečin

29 novembre 1947. L’Assemblea delle Nazioni Unite si riunisce per approvare la Risoluzione 181, il piano di spartizione della Palestina. Al voto contrario del Regno Unito si oppone il consenso degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Perché quel giorno venne presa quella decisione? Perché Stalin creò Israele? Attraverso un imponente lavoro di documentazione, il giornalista russo Leonid Mlečin indaga uno dei momenti più importanti della storia del Novecento. Con piglio avvincente l’autore ripercorre i passaggi salienti della politica estera sovietica nella gestione dei rapporti in Medio Oriente a partire dal 1917. Reperti originali e in parte inediti, materiale d’archivio del Politbjuro, del Comitato centrale del Partito comunista, dei servizi segreti e del Ministero degli Esteri dell’Unione Sovietica, telegrammi cifrati degli ambasciatori, memorie di politici e diplomatici che hanno vissuto da protagonisti quei cruciali avvenimenti. A riemergere è il progetto strategico di Stalin, finalizzato alla costituzione di un presidio sovietico nelle zone calde del Medio Oriente. Questo testo, scorrevole nella lettura, si presenta come un importante strumento di approfondimento conoscitivo tanto per gli studiosi specialisti, quanto per chi è interessato alla questione mediorientale e intende guardare oltre i recenti sviluppi.

Leonid Mlečin

Nato nel 1957, è giornalista, scrittore, storico e corrispondente della rivista “Novoe Vremja”. È Autore e conduttore di trasmissioni televisive di informazione, attualità e analisi politiche sui temi più importanti della storia del Novecento. Ha scritto diversi libri – E. Primakov, L. Brežnrv, I presidenti del KGB, I ministri degli Esteri, Morte di Stalin e romanzi gialli tradotti in inglese, giapponese, spagnolo, polacco e altre lingue dell’ex Unione Sovietica.

ROSCOE THE FIRST

cover

Vita, commedia e tragedia di un re della comicità
Jerry Stahl, Io, Ciccione, Mondadori, Strade Blu, 2008

Lui fu il primo. Vi siete mai posti la domanda: ma tutto questo pettegolezzo, questo non farsi gli affari propri, questo mettere il naso nelle fogne altrui ed esibire le proprie senza pudore, questa civiltà globale dell’esibizione moltiplicata e tracimata oltre ogni limite di buon senso e di buon gusto grazie ai media, insomma tutto questo cesso quando è cominciato? Chi sarà stata la prima vittima della storia a dare il via alla gran babilonia? Ecco la risposta: Roscoe Arbuckle detto Fatty, cioè Grassone.
Lui, nel suo campo, fu il primo in tutto: il primo attore comico che divenne una celebrità, che ottenne la regia dei propri film, che guadagnò milioni di dollari, il primo ad intuire il talento di Charlie Chaplin e di Buster Keaton, il primo uomo di spettacolo della storia del cinema a finire stritolato nelle maglie di uno scandalo sessuale, aizzato dai tabloid e dai cronisti giudiziari, che fece inorridire e indignare tutta l’America e che lo distrusse, moralmente ed economicamente, benché incolpevole.
Di lui ho due ricordi: il primo risale all’infanzia, quando il sabato trasmettevano in tv, all’ora di pranzo, “Oggi le comiche”, e accanto a Buster Keaton, Harold Lloyd, Laurel & Hardy, Charlie Chaplin e Harry Langdon, qualche volta c’era anche lui, Fatty. Sono pellicole molto vecchie, degli anni Dieci del Novecento, la prima comicità slapstick delle torte in faccia e degli inseguimenti rocamboleschi dei Keystone Studios.
L’altro ricordo è un po’ più recente e riguarda un fumetto strepitoso in bianco e nero, ma così curato e così originale per gli effetti di luce e ombra e per le tonalità dei grigi, che evocano atmosfere noir delle pellicole hard-boiled anni Quaranta e Cinquanta, da sembrare un film su carta: un’avventura dell’investigatore Joe Sumatra, disegnata da Francesco e Ildebrando Tosi e intitolata Arcobaleno notturno, apparsa sulla rivista Corto Maltese del dicembre 1990. In questo racconto ci sono Fatty, chiamato Arbugle, e il suo scandalo, benché trasferiti dagli anni Venti agli anni Quaranta e benché pretesto per narrare un’altra vicenda.
La storia narrata da Jerry Stahl in Io, Ciccione invece è un’affascinante e straziante ricostruzione in prima persona della vita di Roscoe, dalla nascita in una stamberga sperduta nel Kansas alla morte per overdose a quarantasei anni nell’anonima indifferenza di un appartamento smarrito nella metropoli newyorkese. È una cavalcata attraverso l’America ragtime, dalla tranquilla quotidianità di paura nella campagna middle-west e moonshiner, passando attraverso le glorie del vaudeville e del cinema preistorico, fino ai lussi e alle lussurie dei divi hollywoodiani e allo squallore del retroAmerica: come in una scenografia cinematografica, davanti marmi e cristalli, dietro spazzatura e desolazione.
Il problema di fondo di tutti i romanzi biografici (vedi Villon) è: ma è tutto vero? è andata proprio così? Sembra di sì, a leggerlo, il romanzo, nel senso che ha un tale impatto emotivo che ci credi ad occhi chiusi (bravo anche il traduttore: in questi casi non sai mai quanto il valore della scrittura stia nell’originale e quanto nella traduzione, o in tutti e due come dovrebbe essere, ma non sempre è). Bisognerebbe verificare, leggersi le cronache dell’epoca, indagare, sentire testimoni, se ce ne sono ancora vivi, per avere un minimo di orientamento sulla verità della vita di Roscoe Arbuckle, cose che, dalla bibliografia riportata a fine romanzo, Jerry Stahl sembra aver fatto, per cui: fidiamoci, benché lo stesso autore nell’Introduzione affermi: “Era una persona enormemente candida, considerate le circostanze. Che erano davvero estreme. Ma chi può saperlo? Come il corpulento Dr. Johnson amava ricordare ai suoi ammiratori: “Raramente una splendida storia è del tutto vera”.
Verità storica a parte, è la storia narrata ad essere, pur nella sua drammaticità, bellissima, con tratti di tragica ironia (esempio: “La morale, pulzelle e omarini cari, è che quando si chiude una porta poi se ne spalanca un’altra… e ti spacca il naso”) e di commovente poesia (esempio: l’episodio dell’infanzia di Roscoe, che si ritrova solo in una stazione, paralizzato dalla paura: “Per riuscire a camminare cominciai a fingere con me stesso (…) In questa versione dello Spettacolo di Roscoe (…) l’uomo che impersonificava papà sarebbe stato contento di vedermi (…) Mi avrebbe accarezzato la testa, e mi avrebbe chiamato con il mio vero nome, Roscoe, invece di quell’altro. Invece di Ciccione. Il papà, in questa commedia, mi avrebbe scompigliato i capelli, mi avrebbe preso la valigia dalla mano, e l’avrebbe gettata ad Arthur, il mio fratello maggiore (…) Ci incamminavamo tutti e tre impettiti – i gloriosi Arbuckle – quasi come una famiglia”).
È costante infatti lungo le pagine del romanzo la commovente ingenuità di Roscoe, un bambino costretto dalle circostanze a diventare presto uomo, e poi uomo rimasto per sempre bambino, che si guarda intorno disperato alla ricerca di una qualche ragione per un inspiegabile accanimento che lo perseguita da sempre e che nel gran finale allestisce una messa in scena grottesca e crudele che non risparmia nulla. L’infanzia di un bambino sovrappeso non dev’essere facile, se già in casa il padre lo disprezza e non perde occasione per denigrarlo e picchiarlo. Il senso di colpa nasce lì, nella stamberga di assi del Kansas, e non lo molla più fino al processo e alla condanna, e poi al processo e all’assoluzione, e anche dopo, perché nel frattempo Roscoe è indotto a credere di essere colpevole per il semplice fatto di esistere: per quanto ci rida sopra, per quanto sappia costruirci gags da avanspettacolo, nel fondo del suo cuore c’è la disperata convinzione che nulla ormai lo potrà più salvare, forse soltanto una fialetta di eroina.
“Mi odiò fin dal primo momento che mi vide. Il che significa molto, per un bambino (…) Quando mia madre morì, papà mi disse che ero stato io a ucciderla (…) Seguitava a urlare che dopo la mia nascita mia madre aveva smesso di essere una moglie. Che avevo rovinato la sua femminilità. Da quel momento in avanti le donne e il loro fiorellino mi misero paura. Perché senza saperlo glielo potevi spezzare. O qualcuno poteva dire che eri stato tu.”
Nel disegno del destino crudele di Roscoe Arbuckle il tarlo del sospetto che lui possa far del male ad una donna (prima per il solo fatto di nascere con otto chili già piazzati, e poi per il solo fatto di essere grasso, quindi mostruoso, “Che cosa fai quando il mondo intero pensa che sei un mostro, mentre invece tu sai che è il mondo a essere mostruoso?”) divora la pubblica e amata immagine di bonaccione allegro veicolata dalle pellicole, per fare posto ad un odio e ad una cattiveria che trasformano il beniamino delle famiglie e dei bambini in un repellente depravato.
“Davanti a casa mia, in Adams Boulevard, erano convenute parecchie altre persone a dimostrarmi tutto il loro odio. Curioso: a prima vista non parevano tanto differenti dai miei fan che un tempo venivano lì perché mi amavano. Alla fine capii che mi sembravano uguali perché erano gli stessi.”
Poche righe, ma più efficaci di tanti trattati sulla psicologia delle masse e sui metodi di persuasione delle masse. Cosa diavolo era successo? Nel corso di un party in un hotel di San Francisco, liquori a fiumi e persone sbagliate, una stellina del cinema si sente male (per cause precedenti il party) e Roscoe tenta maldestramente di rianimarla con una bottiglia ghiacciata. Da qui l’idea, che si impadronisce subito dei cervelli annebbiati dall’alcol, che lui l’abbia stuprata. Poi la ragazza muore. E Roscoe si trova incriminato per stupro e omicidio. La stampa monta il caso e suscita un’ondata di indignazione popolare contro i depravati di Hollywood. Roscoe diventa perciò il capro espiatorio dello star-system, trovandosi al centro di una ragnatela dove s’intrecciano trame tessute da molteplici centri di interesse: le case di produzione cinematografiche, che vogliono rifarsi una pubblica verginità, contribuire ipocritamente alla moralizzazione e allontanare da sé il pericolo di chiusura degli stabilimenti; l’ambizione di procuratori distrettuali e di politici in carriera; il tornaconto economico dei magnati della stampa; la vendetta di un regista che odiava Roscoe dai tempi dei Keystone Studios; gli intrighi squallidi di un falso amico oberato dai debiti; la calunnia di una falsa testimone di professione; la rappresaglia dei boss dell’industria cinematografica, il cui subdolo metodo punitivo degli attori recalcitranti alla loro tirannia si ripeterà anche in seguito (il caso di Frances Farmer, attrice ribelle che finì nell’inferno di un ospedale psichiatrico, vicenda portata sugli schermi negli anni ’80 dal film Frances con una splendida Jessica Lange). Così incredibile da essere vero.
Da questo incubo Roscoe Arbuckle non uscirà mai più, nemmeno dopo aver ottenuto l’assoluzione, nemmeno quando, dieci anni più tardi, il cinema lo richiamerà per affidargli ruoli da protagonista (nel frattempo sopravviveva facendo il regista sotto falso nome e girovagando con tournée cabarettistiche tra bar e locali notturni), nemmeno quando il mondo sembrava aver dimenticato e tornava a sorridergli. Ma lui non era più capace di sorridere, gli avevano tolto per sempre la gioia di vivere.
C’è un’epigrafe all’inizio del romanzo, un pensiero di Samuel Beckett:
Non c’è niente di più comico dell’infelicità.
Cambiando l’ordine dei fattori la tragedia di esistere e di chiamarsi Roscoe Arbuckle non cambia:
Non c’è niente di più infelice di un comico.

Mauro Del Bianco

Cenere ( Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco)

CENERE

Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco, SE srl Milano 2000

Il y a là cendre: vi è là cenere, oppure: vi è la cenere, o ancora: vi è là Cenere (nome di donna)? Quante interpretazioni e deformazioni di senso può subire, fino ad esaurirla, paradossalmente fino a farne cenere, una frase all’apparenza semplice come questa?

Raymond Queneau nei suoi Esercizi di stile aveva dimostrato come una frase può essere resa in cento modi diversi, ma là era appunto questione di stile, interpretazione (nel senso di rappresentazione) variabile al variare del registro linguistico adottato (burocratico, geometrico, telegrafico, ampolloso, insiemista, ecc.) senza modificare troppo il significato, il concetto trasmesso dalla frase. Là vi era fiducia e speranza nella presenza di un nucleo di significato invariabile al variare dell’apparenza del significante. Per Jacques Derrida la presenza del significato semplicemente non c’è, c’è invece disseminazione, dispersione di significato, deriva di significati, c’è différance invece, neologismo coniato da Derrida per valorizzare, al posto del canonico différence, la differenza + distanza incolmabile tra il testo e la verità del testo stesso.

Feu la cendre (1999, tradotto come Ciò che resta del fuoco nell’indecidibilità tutta derridiana di rendere l’omonimia di feu come “fu” – nel senso di defunto – e come “fuoco”) prende le mosse da una frase (il y a là cendre) contenuta in una precedente opera filosofica di Derrida, La dissémination (1972), per sviluppare un polylogue di voci che indagano il vero significato di quella frase senza peraltro approdare a nulla di deciso e definitivo: vera e propria autodecostruzione per rivelare l’indecidibile perfino nella propria scrittura, ironicamente e coerentemente come dev’essere una vera prassi decostruzionista.

Tramite il ritorno paziente, ostinato, ironico dell’esegesi che non porta a nulla e che gli ingenui troverebbero indecente, staremmo forse modellando l’urna di un linguaggio per questa frase di cenere, che lui, per quanto lo riguarda, ha abbandonato al suo destino e alle sue probabilità, virtù di autodistruzione che fa fuoco da sola dritto al cuore?

Il testo, come tutti i testi di Derrida, è ostico e disorientante: non è un romanzo, non è un racconto, non è un saggio filosofico, è un po’ tutte queste forme di scrittura insieme, è un testo disseminato, differante, contiene tutto quello che potrebbe essere senza essere niente, è traccia di ciò che è e non è, quindi traccia non come segno, pista, orma (vale a dire presenza), ma come spazio vuoto, interlinea del testo, il non detto della sua verità.

Così il libro non ha un inizio accettabile secondo i canoni letterari (parte con un’osservazione slegata da qualunque contesto, come la pellicola tagliata di un film, frammento, istante, fotogramma gratuito) e non ha nemmeno una fine, poiché colui che chiude/non chiude il polylogue con le parole “e che adesso vi dirò”, non dice nulla lasciando dissiparsi il racconto nel silenzio del foglio bianco.

In effetti può apparire indecente tutto ciò. Più che altro ha un carattere straniante come un’opera dadaista, e qui sta il suo fascino letterario: una letteratura nuova, diversa, si può fare anche così, tagliando un foglio a metà, sopra un intrecciarsi polifonico di voci, sotto le animadversiones tratte dai testi filosofici, e giocare con questi due livelli di scrittura, giocare con le parole, farne fuochi d’artificio, consumarle fino alla cenere, incrinare la loro superficie, la loro integrità verbale, rendendo evidente il loro sottrarsi alla linearità del significante, leggerle come enigma che contiene una molteplicità di direzioni.

Magnifico suggerimento per esperimenti letterari, per limitarci al piano estetico.

Sul piano filosofico, invece, sul piano cioè della ricerca di un sapere non meramente contingente, è un altro discorso. La visione derridiana è un sofisticato scetticismo che si risolve nel nichilismo. Semplificando: partendo dall’osservazione che un testo scritto vive di vita propria (non c’è la presenza di chi l’ha scritto) e in quanto tale è composto da connessioni verbali indecidibili, che sottoposte a interpretazione non rivelano quella autentica, si giunge alla conclusione che in un testo non c’è mai la verità, bensì il non-essere della verità, la sua traccia, che come abbiamo visto ha un carattere negativo: di essa posso dire solo che non c’è, il suo essere si rivela tramite il suo non-essere. Il che equivale a dire che non è.

Come spesso è accaduto nella storia della filosofia, l’osservazione iniziale è interessante, ma se ne traggono conclusioni problematiche. La critica di Derrida è notevole per combattere la tendenza dogmatica ad oggettivare la Verità, ma bastava ricordarsi di una perla della meditazione orientale: appena ti sei costruito un pensiero, ridici sopra. Questo è l’atteggiamento del saggio, del sapiente che riconosce la privazione, il darsi incompleto della Verità, il suo porsi e il suo contemporaneo sottrarsi a qualsiasi tentativo di possesso, di oggettivazione. Il che non significa che non esista, anzi: proprio perché ne riscontro la differanza, ne postulo necessariamente l’esistenza, che, vista da un’altra angolatura, è la classica critica allo scetticismo: affermare che non esiste alcuna Verità, vuol dire che questa è la Verità.

Analogamente la negazione di una legittimazione metafisica dell’esistente, ne reintroduce il simulacro proprio nella scrittura, che diventa un luogo metafisico, in quanto ad essa si applicano per trasposizione gli indecidibili tipici di una dimensione metafisica: la famosa barra / intesa come luogo della Verità, il non-spazio dove si risolvono gli opposti (vero/falso, buono/cattivo, essere/non essere, ecc.) ha un valore di trascendenza/immanenza riferibile ad un contesto metafisico, ad un contesto cioè che si situa al di là del nostro spazio e del nostro tempo, quindi al di là del principio di non contraddizione, nell’infinitamente piccolo o nell’InfinitamenteGrande.

Discutibile anche che tutto l’impianto si regga su un dato parziale dell’esperienza, la scrittura, fino a dedurne la precedenza del Divenire sull’Essere: come può divenire ciò che non è? come può un meno dar luogo ad un più?

Ora, tutto ciò non significa liquidare Derrida in cinque minuti, ma indicare ipotesi di decostruzione della sua teoria per evidenziarne, sul piano filosofico, la problematicità. È proprio questa, dirà qualcuno, la dimostrazione della coerenza e della tenuta del pensiero derridiano: sì, può darsi, ma, a parte il fatto che la coerenza non è necessariamente un criterio di verità, non lo è sicuramente nel senso di un girotondo di chiacchiere, non nel senso del derridiano colpo di dadi (prendo un’opinione qualsiasi e mi ci affeziono, tanto sono tutte uguali, cioè non vere). C’è infatti una profonda differenza tra il riconoscere la relatività dell’esistente e tuttavia cercare ciò che legittima tale relatività (e che non può essere relativo), e l’identificare sbrigativamente la relatività dell’esistente con il nulla e il non-senso, o con un rinvio infinito ad altro, destinato a scomparire parimenti nel nulla.

La differenza è data da un approccio metafisico alle domande sul più-che-vita. Perfino parlando di truco (che è un gioco di carte argentino) Jorge Luis Borges diceva: “Così (…) ci siamo avvicinati alla metafisica: unica giustificazione e fine di ogni tema” (da Evaristo Carriego).

Ciò nonostante Derrida ci fa riflettere sul trascendente nella letteratura, e nell’arte in genere, sul fatto che un testo è comunque un contenuto al di là dei suoi contenuti particolari, che rinvia ad altro per il solo fatto di esserci: anche la letteratura volutamente insignificante ha un suo significato, che può essere, al limite, proprio l’esserne carente. Da una parte infatti abbiamo scoperto nuove strade e nuove possibilità formali: differanza, disseminazione, traccia, barra, decostruzione, sono tutti elementi che applicati alla letteratura rivoluzionano il modo di fare letteratura, con il pregio di svelare la non solennità della letteratura stessa, cioè l’indipendenza del gioco letterario dai contenuti, la non necessarietà del contenuto cosiddetto impegnato: una vera e propria ventata di aria fresca nello sgabuzzino stantio di una burocrazia letteraria assillata dai motivi dell’Opera (la letteratura, come tutte le arti, è anche gioco e può essere addirittura soltanto gioco, un gioco difficile da costruire e mantenere vivo, ma bellissimo, se ti riesce). Ma d’altra parte, benché senza contenuti dichiarati o apparenti, un testo conserva un suo significato per il solo fatto di essere, anche quando è gioco, anche quando è indecidibile, anche quando è un esercizio di stile. È comunque una determinazione di pensiero (non importa se consapevole o no), un atto, un porre, il cui significato complessivo trascende il suo apparire contingente fatto di frasi e di parole, per quanto insignificanti e ludiche possano essere.

La pittura ci può aiutare a capire. Pensate al famoso Quadrato nero, l’opera suprematista di Malevič. Anche se non l’avete mai visto, non è difficile da immaginare: su fondo bianco c’è un quadrato nero. Tutto qui. Ma oltre la sua tautologica autoreferenzialità, quest’opera ha comunque un significato (tentativo di esplorare una quarta dimensione dello spazio? il bianco come infinito spazio pieno? uno spazio bianco dove “la vista non incontra limite”?), fosse anche quello ultimo dell’alterità rispetto a tutto il resto della pittura. Motivo per cui, si narra (inedito di Max Frisch tradotto da Alessandro Melazzini per l’inserto culturale del Sole 24ore del 19 ottobre 2008), i burocrati del Partito lo volevano in cantina, insieme a tutte le altre opere dell’avanguardia russa, perché il popolo, nel confronto con le celebrazioni collettivistiche e materialistiche del realismo sovietico (i cosiddetti contenuti impegnati), vi avrebbe visto un’alterità, e ciò che è altro fa pensare, fa dubitare: prassi assolutamente non igienica per un regime, perché a volte fa anche capire.

Talora infatti le esagerazioni servono a ripristinare il senso e il valore della realtà, soprattutto quando la si è persa di vista E questo può essere considerato il merito principale della teoria di Derrida: la sua decostruzione è un’esagerazione, ma serve a ripensare la pacifica evidenza e a dubitare della certezza che erroneamente attribuiamo ai sistemi ideologici, per cercare la traccia (in senso proprio) della Verità.

Perché un’estetica non deve fondare per forza un’ontologia e occorre guardarsi bene dalle ontologie che pretendono di pianificare un’estetica.

Mauro Del Bianco