ALL’ULTIMO MINUTO
Osvaldo Soriano, Fútbol – Storie di calcio, Einaudi 1998
Alcuni autori, come l’argentino Osvaldo Soriano, hanno rivelato del football un aspetto mitografico che si ispira a vicende vissute, da giocatore o da spettatore, oppure a sensazioni catturate nel flusso della memoria, fiutate nella poesia di un gesto atletico, evocate dall’odore dell’erba di un campo sportivo. Nelle loro storie il calcio, gioco pedestre in senso stretto e pure ampio, si svincola dai lacci dell’esegesi tecnicistica, della scalmana delle curve e delle chiacchiere dei processi televisivi, per fluttuare liberamente nell’immaginario mitopoietico fino a diventare metafora della vita.
In questo libro sono stati raccolti diciannove racconti di Osvaldo Soriano ambientati nel mondo del calcio sudamericano, che parlano poco dei campioni e delle stelle, e molto invece di anonimi e più o meno onesti calciatori che inseguono un pallone nei villaggi della Patagonia, di improbabili allenatori giramondo, di storie d’amore, di leggende e scenari fantastici, di gioie e disperazioni calcistiche, e anche della malinconia degli sconfitti, degli esclusi, degli sfortunati, “dei goal che uno si perde nella vita”.
Tra le vicissitudini del giovane centravanti Osvaldo Soriano si inseriscono i ricordi di Obdulio Varela, centromediano uruguayano che disputò la finale del Mondiale 1950 al Maracaná, quello che fece piangere milioni di brasiliani, uomo di un’eleganza d’altri tempi, il quale, la sera subito dopo la partita, se ne andò nei bar a consolare i carioca davanti ad una birra; il rigore più lungo del mondo, che doveva essere calciato nel 1958 “in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto”, in una contrada di indios araucani che militano in squadre dai nomi pretenziosi come Estrella Polar, Escudo Chileno, Deportivo Belgrano, e che giocano a calcio “perché di domenica non c’era altro da fare e il vento portava con sé la sabbia dalle dune e il polline dalle fattorie”; il fantastico Mondiale del 1942 (in realtà mai disputato) nella Patagonia argentina, arbitrato niente di meno che dal figlio del pistolero Butch Cassidy; le fanfaronate del mister Peregrino Fernández, che ha girato tutto il mondo giocando nella Francia della Terza Repubblica, nell’Italia di Mussolini e nella Russia di Stalin, transitando per la Casablanca di Rick/Humphrey Bogart, per finire in una squadra di Tangeri e poi nel Congo insieme al generale Perón, quindi allenatore dei Coyotes del Texas, e la cui nostalgica filosofia di vita è riassunta nell’aforisma: “Si moriva meno per incidenti d’auto e più per un futuro imperfetto”.
Se c’è un senso tragico nel football è quello che lascia nel cuore la nostalgia e la commozione per i vinti, per quelli belli, bravi e tuttavia vinti: la stupefacente Olanda ’74, il meraviglioso Brasile ’82, l’Ungheria di Puskas del ’54, squadre che, sul piano del risultato concreto, non hanno vinto nulla, ma che restano negli annali calcistici per una qualche meraviglia: il tocco felpato, la valanga di gol, lo spettacolo di una danza, la spregiudicatezza dello schema, la somma dei talenti, qualunque sia il fattore che le ha rese un unico irripetibile, stanno nell’Olimpo degli Immortali.
Quest’anno è toccato alla Turchia, la squadra che ha disputato gli Europei 2008. Elemento distintivo dei lottatori turchi: “all’ultimo minuto”. Sembrano usciti da un racconto di Osvaldo Soriano, pronti per entrare nel libro di Darwin Pastorin Le partite non finiscono mai.
Tanto per cominciare, uno pensa che siano 23, come tutti i convocati di tutte le nazionali che partecipano al torneo. E invece danno l’impressione di essere 46. Hanno nomi da cavalieri delle steppe turaniche lanciati alla conquista delle praterie, millenari galoppi di scorrerie selvagge, tonfi di purosangue, zoccoli nitriti manti lucidi di luce asiatica, fragore dell’orda nell’ululato del vento: Turan, Volkan, Uğur, Hakan, Tuncay Şanlı detto Cesur Yurek, “cuore impavido”, per non parlare di uno con un nome da antico romano, nato in Brasile e naturalizzato turco come Mehmet Aurelio, e di un altro che è un inglese (Colin Richards) diventato Kâzım Kâzım, nomi esotici ed altaici che i giornalisti deputati alla cronaca dell’Europeo scambiano ora per il nome ora per il cognome, sicché una volta trovi scritto Turan, un’altra trovi Arda, e invece è sempre lo stesso: Arda Turan. La serie di combinazioni nominative dei 23 giocatori è talmente variabile e illogica (non sappiamo proprio come si chiamano) che alla fine i 23 potrebbero essere effettivamente 46. Sembra una fiaba, Ali Babà e i 46 corsari, dove l’Ali Babà che possiede la parola magica capace di aprire il Sesamo del tesoro europeo è Fatih Terim, detto l’Imperatore, pirotecnico mago del football in grado di imprimere alla squadra un’energia e un’ostinazione mai viste: “abbiamo vinto perché non abbiamo accettato la sconfitta” dice l’Imperatore, e non la sta sparando grossa.
La Turchia, strapazzata nella prima partita del torneo dal Portogallo, fa conoscere agli Svizzeri, affogati in un campo che sembra una piscina, la riedizione di un’opera del teatro moderno turco, un dramma di Reşat Nuri Güntekin: Bir yağmur gecesi (Una notte di pioggia, 1940), che prevede il colpo di scena al 48′ del secondo tempo con il gol della vittoria di Arda Turan, vale a dire quando il tempo regolamentare è già scaduto e si è nei minuti di recupero, prima, soltanto un soffio prima, dell’ultimo soffio dell’arbitro nel fischietto. D’accordo, può capitare, niente di impressionante. Ma nella partita successiva, con la Repubblica Ceca, che vale la qualificazione ai quarti, i Turchi stupiscono il mondo: a un quarto d’ora dalla fine perdono 2 a 0, chiunque si rassegnerebbe, ammetterebbe che è finita, che i Cechi hanno chiuso la partita e i quarti li hanno in tasca, noi Italiani, tanto per dire, avremmo già cominciato a processare tecnico e giocatori e a pensare al calcio mercato e ai prossimi mondiali. I Turchi no. Segna ancora Arda Turan al 30′ del secondo tempo, ma è Nihat Kahveci che coglie l’assurdo disegno del destino negli ultimi tre minuti: pareggio al 42′ e incredibile vantaggio al 45′, ribaltando un risultato ragionevolmente assicurato.
Arriva il turno dei Croati, i quali pensano ragionevolmente di avere in tasca la semifinale con un gol realizzato in prossimità dello scadere del secondo tempo supplementare. E si sbagliano, non lo sanno ancora, ma sbagliano. Rüştü Reçber, il portiere turco, rilancia dalla sua area un pallone sul quale non scommetteresti una lira, la palla vola fino all’area di rigore avversaria, il numero 9 Semih Şentürk trova uno spiraglio in mezzo alle gambe dei difensori croati (“la palla gli è passata in mezzo alle caviglie come una goccia d’acqua che scivola tra le dita” direbbe Soriano) e tira una botta che batte tutti, riagguantando al 16′ del secondo tempo supplementare (vale a dire a tempo scaduto) il pareggio e la speranza di vincere ai rigori. E infatti dal dischetto Semih Şentürk, Arda Turan e Hamit Altıntop non falliscono un tiro e ne bastano soltanto tre su cinque, perché i croati intanto, storditi e incazzati (comprensibile), ne sbagliano addirittura tre. Finisce 4-2 e la Turchia vola in semifinale.
I titoli della stampa che pescano nell’immaginario da Mille e una notte ottomana adesso si sprecano: Svizzeri nel bagno turco, Fata Turchia fa magie, Turchi dell’altro mondo, Marcia turca, I Turchi si fumano la Croazia.
Chi l’avrebbe mai detto. La Turchia è la squadra delle sorprese, è uno spettacolo, una meraviglia, la vera rivelazione dell’Europeo 2008 (senza nulla togliere agli Spagnoli che il torneo se lo sono strameritato, ma loro hanno vinto), perché Soriano ci ricorda che ci sono tre generi di calciatori: quelli che vedono gli spazi liberi, quelli che ti fanno vedere uno spazio libero e quelli che creano un nuovo spazio dove non dovrebbe esserci nessuno spazio: questi sono i poeti del gioco.
Fino a questo momento lo stile non è irresistibile, giocano abbastanza bene, ma pestano meglio, con una media di 3,5 ammoniti a partita, il che la dice lunga sulla foga che ci mettono nel gioco: portiere titolare espulso, tre giocatori fondamentali squalificati per somma di ammonizioni. Aggiungiamo i feriti delle precedenti battaglie e l’Imperatore si trova con una squadra decimata per la semifinale con la Germania. Poiché l’UEFA non gli permette di recuperare gli squalificati, Fatih Terim stavolta sì la spara grossa: “farò giocare il portiere di riserva in attacco”. Se lo fa, è davvero Ali Babà. Se lo fa e vince, ha superato tutte le meraviglie di cent’anni di calcitudine. Se lo fa, finirà sui libri di storia. Se lo fa, il calcio totale degli Olandesi Anni ’70 sarà a confronto roba da dilettanti.
Non lo fa e la Turchia, prosaicamente, ha perso. Ha perso quando giocava alla grande, sia tatticamente che esteticamente, quando ha avuto un solo ammonito, quando per la prima volta nel torneo stava vincendo, ha perso quando aveva messo ko i Tedeschi con un gol di Uğur Boral che non era un effimero sorriso di Fortuna, ma un gol arrivato dopo che una sassaiola aveva crivellato la porta tedesca senza segnare il punto, ha perso nonostante Semih Şentürk avesse riacciuffato il pareggio al 41′ del secondo tempo, e tutti sperassero nel ripetersi del miracolo. Il miracolo e, a questo punto, la beffa, li hanno combinati invece i Tedeschi: gol di Lahm, che si beve una difesa stremata, al 45′, poco prima del fischio arbitrale: 3-2, fine. Negli occhi della nazione turca la terra è di ferro e il cielo è di rame, come dicevano i contadini della Cilicia per esprimere la loro disperazione negli anni di carestia. Son cose che succedono.
Nel calcio “ci sono cose che apparentemente non hanno logica, ma succedono molto spesso” racconta Soriano.
È così che nascono i miti letterari del pallone, sull’amarezza delle occasioni perdute, sulla solitudine del portiere di riserva, Tolga Zengin, numero 12, che per un attimo ha cullato l’illusione di trovarsi in campo con una maglia diversa, di giocare in attacco, lui che per destino gli attaccanti ha sempre dovuto e sempre dovrà tenerli a bada e combattere con loro epiche battaglie. E pensare che in questa Turchia hanno giocato tutti, anche Akman Ayhan che non era mai stato impiegato prima della semifinale, tutti fuorché Tolga Zengin, portiere di riserva che non si è scollato di dosso la panchina, il portiere che non giocò centravanti: sembra perfino il titolo di un racconto di Osvaldo Soriano.
Mauro Del Bianco