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Portugal Futurista‏

Portugal Futurista

Fernando Pessoa, Ultimatum e altre esclamazioni, Robin Edizioni 2006

Ed infine giunse anche all’estremo lembo d’Europa, all’ultima spiaggia di questa vecchia Europa, di fronte solo acqua, acqua ovunque, acqua comunque, interminabile acqua e nemmeno un’Atlantide, giunse il virus futurista. Portato da gente che era stata a Parigi, perché bisognava proprio portarlo di peso, il Futurismo, in Portogallo, posto che il semplice invito non sembrava sufficiente.

L’invito era uno dei tanti inviti spediti al mondo da Marinetti. Era l’inverno del 1909. Il Diário dos Açores, il quotidiano delle Azzorre (sarà anche un giornale importante, certo, ma pur sempre un quotidiano delle isole sperdute nell’Atlantico, i maggiori quotidiani di Lisbona s’erano persi l’esclusiva, e pare non ne fossero particolarmente afflitti…) aveva pubblicato, poco dopo Le Figaro, il primo manifesto di Marinetti, quello famoso dello schiaffo e del pugno, e dell’automobile da corsa “col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente [notare il genere maschile di automobile, n.d.r.] che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia“. Nessun effetto.

Tempo dopo altre cronache giornalistiche sulle esposizioni parigine dei pittori futuristi italiani tentarono di dare la sveglia all’intellettualità portoghese. Nessun effetto apprezzabile.Allmada Negreiros

Qualche altra stagione, e intanto siamo arrivati al 1915 – nel frattempo Marinetti era stato osannato dal bel mondo moscovita e pietroburghese e spernacchiato dai cubofuturisti, o almeno da alcuni di loro capeggiati da Chlebnikov, il futurismo dilagava fino al Mar del Giappone, dall’estetica s’era tuffato nella politica, era perfino scoppiata una guerra mondiale nella quale il futurismo dissanguava le sue giovani vene creative – e finalmente i lusitani dissero qualcosa di futurista: su Orpheu n°1, la rivista modernista animata da un ristretto numero di intellettuali raccolti intorno a Fernando Pessoa, appare una poesia di Álvaro de Campos (un eteronimo di Pessoa), Ode Triunfal, che di futurista ha il vestito ma non l’anima, in quanto la ridondanza verbale di grandes lâmpadas eléctricas da fábrica, rodas dentadas, engrenagens, cimento armado, maquinismos em fúria, mitragliatrici, aeroplani, sottomarini e metropolitane, si dispiega in un paesaggio emozionale che non è autenticamente futurista (il futurismo non riposa compiacendosi sulle riflessioni di sentimento, sia esso fierezza o saudade, poiché, semplicemente, non riposa mai, non è mai statico). E tale strana e détourné (traslata e riconvertita) adesione all’avanguardia del momento – “in mano a Fernando Pessoa anche il Futurismo diviene un’altra cosa“, ricorda Luciana Stegagno Picchio – è ribadita in una lettera al Diário de Noticias del 4 giugno 1915, dove Álvaro de Campos (sempre Pessoa) precisa che di intersezionismo è più corretto parlare, e non di futurismo (“Nessun futurista sopporterebbe Orpheu (…) La caratteristica principale del futurismo è l’Oggettività Assoluta, l’eliminazione dall’arte di tutto quanto è anima, sentimento, emozione, lirismo, soggettività insomma (…) il tedio, il sogno, l’astrazione sono gli usuali atteggiamenti dei poeti miei colleghi in quella brillante rivista“), al quale futurismo peraltro, annuncia, sarà dedicato il n° 2 di Orpheu (sembra una gufata, ma è un dato di fatto che con il n° 2 Orpheu chiude le pubblicazioni: che il futurismo fosse proprio così indigesto ai lusitani?…).

Nel numero 2 di Orpheu del giugno 1915, che porta la didascalia “Colaboração especial do futurista Santa Rita Pintor”, compaiono infatti quattro lavori del pittore futurista Santa Rita Pintor (al secolo Guilherme Augusto Cau da Costa de Santa Rita, nato nel 1889), l’Ode Maritima di Álvaro de Campos e due poemi di Mario de Sá Carneiro, Manucure e Apoteose, che possono essere considerati due omaggi alla tecnica parolibera e allo stile anarcotipografico dei futuristi, ma anche in questo caso: quanto c’è in essi di autenticamente futurista? Mentre infatti in Manucure troviamo un ribadire a più riprese il concetto di intersezionismo (E tudo, tudo assim me é conduzido no espaço/Por inúmeras intersecções de planos/Múltiplos, livres, resvalantes) accanto all’esaltazione della beleza futurista e di un Novo che è tuttavia guardato con sguardi pluriprospettici e quindi intersezionisti: meus olhos futuristas, meus olhos cubistas, meus olhos interseccionistas (ancora una volta il riferimento esplicito all’intersezionismo), in Apoteose sembra prevalere lo stile futurista, con adeguati collages di testate giornalistiche e marchi commerciali, e con esiti addirittura transmentali alla Kručënych: Beleza Numérica (…) nova sensibilidade tipográfica (…) Nova simpatia onomatopaica (…) beleza alfabética pura: Uu-um… kess-kress… vliiim… tlin… blong… flong… flak…, ma ancora una volta sorge il sospetto che si tratti più di un esercizio di stile o di un piacere estetico, più di sensazionismo che di sostanziale adesione allo spirito futurista. Così l’Ode Maritima di Álvaro de Campos è molto saudosa nell’immagine della dolorosa dolcezza della solitudine, della Distanza e delle partenze, del vuoto interiore, e in quanto tale assai poco futurista, nonostante Mario de Sá Carneiro l’abbia salutata come Obra Prima do Futurismo.

In definitiva, nell’ultimo numero di Orpheu, l’unico autentico futurista sembra essere il pittore Santa Rita Pintor, che presenta quattro suoi lavori, elaborati a Parigi tra il 1913 e il 1914, tre dal curioso sottotitolo simmetrico: Sensibilidade mecânica, Sensibilidade litographica, Sensibilidade radiographica, e l’ultimo, quasi a non voler dispiacere il modernismo pluriprospettico lusitano, Interseccionismo plastico.

Santa Rita, che è tornato nel settembre 1914 da Parigi, dove già si autodefiniva pintor futurista, portando con sé il futurismo e la velleità di pubblicare in Portogallo le opere e i manifesti di Marinetti, trova presto un sodale futuristicamente entusiasta in José Sobral de Almada Negreiros (1893-1970), che si definisce poeta d’Orpheu futurista e tudo, e che con il Manifesto Anti-Dantas del 1915 si scaglia con l’irruenza verbale tipica dei futuristi contro uno dei massimi intellettuali borghesi dell’epoca, Júlio Dantas, che si era permesso di tacciare i redattori di Orpheu come gente di poco cervello.Santa Rita Pintor

Sempre in questo 1915 che segna l’inizio delle ostilità futuriste in Portogallo, Santa Rita Pintor organizza insieme ad altri un congresso di giovani artisti in opposizione ai mandarini inerti della vecchia casta intellettuale portoghese.

Ma è il 1917 l’anno decisivo del futurismo lusitano. Il 4 aprile al Teatro República di Lisbona si tiene la 1a Conferência Futurista, nel corso della quale Almada Negreiros, vestendo un fato-macaco (una tuta da meccanico), declama il suo Ultimatum Futurista às Gerações Portuguesas do Século XX. Al meeting si esibisce anche Santa Rita Pintor.

Sempre nel 1917 Almada Negreiros pubblica K4 O Quadrado Azul, testo futurista composto di un unico paragrafo che si estende senza soluzione di continuità per una ventina di pagine e che con intenti satirici attacca violentemente la logica ordinaria e il saudosismo lusitano, opera edita insieme a Amadeo de Souza Cardoso, importante pittore d’avanguardia portoghese, ma anch’egli di provenienza e formazione parigina, che nel 1916 aveva allestito a Porto una grande mostra dal titolo Abstraccionismo.

Nel novembre del 1917 esce il primo numero della rivista Portugal Futurista, esce e sparisce, in quanto immediatamente sequestrato dalla polizia. E pare che il motivo del sequestro, a parte la pericolosità sociale ed il potenziale eversivo delle idee futuriste, fosse da cercarsi proprio in quell’Ultimatum scritto da Fernando Pessoa con la firma di Álvaro de Campos.

Il 1917 è un anno difficile per la giovane repubblica portoghese, già travagliata da lotte intestine, tentativi di rivolta e colpi di stato, che vedranno contrapporsi per tutto il secondo decennio del ‘900 i repubblicani e i monarchici che non si rassegnano alla fine della dinastia dei Bragança esiliati nel 1910. Ricordiamo per inciso che Pessoa e Santa Rita Pintor sono monarchici o filomonarchici, e che Almada Negreiros ha simpatie di destra che in seguito lo faranno avvicinare all’Estado Novo di Salazar.

Inoltre il Portogallo è coinvolto nella Grande Guerra a fianco dell’Intesa: nel febbraio 1917 il primo contingente portoghese è in linea nelle Fiandre. La censura di guerra era già stata instaurata nel marzo 1916, a seguito della dichiarazione di guerra della Germania, e l’Ultimatum di Pessoa contiene attacchi agli Alleati e allo stesso Portogallo giudicati dal regime democratico, che pochi giorni dopo è rovesciato dal golpe di Sidónio Pais, antipatriottici (ne contiene anche contro la Germania e l’Austria, se è per questo).

La rivista, ideata e indirizzata da Santa Rita Pintor, che compare soltanto in fotografia abbigliato con un clownesco abito a scacchi, ospita oltre a Ultimatum di Álvaro de Campos-Pessoa, citazioni dei manifesti futuristi italiani, il monologo intersezionista SaltimbancosContrastes Simultáneos di Almada Negreiros, i saggi sull’arte di Santa Rita elaborati da José Rebelo de Bettencourt e da Raul d’Oliveira Sousa Leal, poesie di Apollinaire e di Mario de Sá Carneiro, morto suicida a Parigi l’anno prima.

Come Ugo Serani precisa nell’introduzione a Ultimatum e altre esclamazioni, il manifesto di Álvaro de Campos-Pessoa ripercorre l’aggressivo tracciato stilistico dei manifesti futuristi, ma con un climax discendente, dall’invettiva verticale e scandalosa al nostalgico ammarare in riva all’Atlantico guardando l’Infinito (quando invece Marinetti concludeva lanciando la sfida alle stelle), ulteriore cifra della sostanziale originalità ed aderenza alla cultura nazionale del modernismo lusitano.

Nel 1918 la breve stagione del futurismo portoghese si estingue con la precoce scomparsa di Santa Rita Pintor seguita pochi mesi dopo dalla morte per “spagnola” di Amadeo de Souza Cardoso, e con la partenza di Almada Negreiros per Parigi.

A Lisbona rimane l’oscura solitudine di Pessoa che nel suo ideare eteronimi, finzioni, lettere a direttori di giornali mai spedite, traduzioni mai pubblicate, nel suo teorizzare la necessità dell’individuo multiplo ed architettare perfino la sensazionale (e bugiarda) scomparsa nella Boca do Inferno del mago inglese Aleister Crowley, anticipa tematiche e pratiche d’intonazione situazionista se non addirittura blissettiana.

Mauro Del Bianco

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ASSOLUTAMENTE FUTURDADA

Pobeda nad solncem 1913

Aleksej Kručënych, Vittoria sul sole, a cura di Michaela Böhmig, La Mongolfiera Editrice Alternativa, 2003

Quella sera del 3 dicembre 1913 gli spettatori accorsi al teatro Luna Park di San Pietroburgo potevano legittimamente aspettarsi delle stranezze, considerando che tra i firmatari della rappresentazione Vittoria sul sole c’erano nomi già apparsi su manifesti sovvertitori dell’ordine delle arti e già noti per la loro stravaganza, ma non avrebbero mai potuto immaginare la totale eversione di ogni equilibrio spaziale, temporale, prospettico, semantico, teleologico, ideologico, ontologico, di qualunque ordine logico accettabile. Al termine dei due atti la maggior parte del pubblico rimase attonita, smarrita come di fronte al nero abisso dell’infinito cosmico, scioccata come di fronte ad un follia, altri inveirono disgustati con urla minacciose e fischi, qualcuno rise, pochi applaudirono, probabilmente gli amici e i colleghi degli autori. Che erano tre, anzi quattro considerando l’autore del prologo: Aleksej Kručënych, Velimir Chlebnikov, Michajl Matjušin e Kazimir Malevič, autori rispettivamente del dramma, del prologo, delle musiche (a chiamarle musiche) e della scenografia nonché dei costumi.

Perché tanto scandalo? Facciamo un passo indietro. Anzi: due.

Tra i firmatari dei manifesti futuristi russi, fra i quali il celeberrimo Schiaffo al gusto corrente di un anno prima, c’è anche un tale Aleksej Kručënych, geniale inventore di estetiche lettriste (e ben prima, un trentennio abbondante, che Isidore Isou proclami a Parigi la dittatura del lettrismo, contestato da quegli esuli russi, come il poeta georgiano Iliazd, che ricordavano benissimo le follie linguistiche di Kručënych e del gruppo dadaista 41°) ed inesauste avanguardie, ma non così poeticamente ingegnoso, profondo e prestigioso come il suo sodale Chlebnikov. Più un fantasioso istintivo che un metodico costruttore, più uno sciamano che un ingegnere del linguaggio. Nel 1912 pubblica Starinnaja ljubov’ (Amore all’antica) il primo libro d’avanguardia e all’avanguardia come oggetto-libro: trattasi di quattordici fogli non rilegati di carta da pacchi, e pure tagliata male, infilati in una copertina, manoscritti e litografati, testi di Kručënych e disegni di Larionov, dove l’autore attua una omogeneità, perlomeno visiva, di testo e pittura che sembrano incisi dalla stessa mano. E questo è un primo esperimento di fusione, di totalità artistica.Vittoria sul sole_Codardo

Fautore dello zaumnyj jazyk, del linguaggio transmentale, o più brevemente zaum’, un astrattismo fonico di lettere e fonemi anarchicamente fluenti da una fantasia “senza offesa di concreto“, come ebbe a chiosare lui stesso, un inseguirsi di lettere senza capo né coda ma dalla sconcertante potenza onomatopeica e perciò evocativa (il celebre verso dyr bul ščylsulle sue labbra aveva qualcosa di sciamanico” testimonia l’insigne slavista Vittorio Strada che lo conobbe ormai vecchio, dimenticato e alla fine), Kručënych prosegue nelle sue pubblicazioni eccentriche e confeziona Mirskonca (Mondoallarovescia) insieme a Velimir Chlebnikov, dove il progetto di rivoltare le regole esistenti riguarda prima ancora che il contenuto dei testi il raccoglitore dei testi stessi, il libro, che stavolta viene scomposto, disarticolato, differenziato, decostruito: carta di tipo e qualità assortiti, scrittura soltanto sulle pagine dispari, molti illustratori con stili disparati, caratteri impressi sulla carta per mezzo di litografie e timbri di gomma, inchiostri variegati, e varia è la grafia che muta al mutare del sentimento del poeta, rendendo leggibile il cambiamento di stato d’animo. E questo è un primo esperimento di capovolgimento, di sovvertimento dell’ordine tipografico che nel titolo si riferisce all’idea di un mondo alla rovescia.

Il 18 luglio 1913, circa cinque mesi prima della rappresentazione di Vittoria sul sole, si incontrano a Uusikirkko in Finlandia (allora provincia dell’Impero zarista) Aleksej Kručënych, Kazimir Malevič e Michajl Matjušin, e nella dacia di quest’ultimo danno vita al “Primo congresso panrusso dei rapsodi del futuro”, intenzionati a creare un’opera di rinnovamento assoluto dell’arte, quella che si potrebbe definire l’Opera Totale o l’Opera Assoluta. I tre se ne escono con una Dichiarazione nella quale si attesta tra l’altro la volontà di abrogare i processi logici fondati sulla legge di causa-effetto e di farla finita con il buonsenso, la logica simmetrica e il sentimentalismo simbolista, per fare spazio finalmente alla potenza creativa degli uomini nuovi.

Gli uomini nuovi ci sono, o almeno c’è l’idea coniata da Chlebnikov dei budetljane, “gli abitanti del sarà” o futuriani. Colossi futuriani saranno infatti i protagonisti del dramma intitolato Pobeda nad solncem (Vittoria sul sole), i titani Vittoria sul sole_Titano budetljaninche daranno l’assalto al cielo.

L’opera è composta di un prologo e due azioni o atti. Il prologo è scritto da Chlebnikov che si diverte con le radici linguistiche slave per dare vita a brillanti, impensabili, straordinari neologismi (il cui fascino estetico nelle traduzioni può essere soltanto intuito), con il suo tipico approccio sapiente e irrazionale, magicamente scientifico e scientificamente magico, nel senso di sistematico e filologico ma senza verificabile fondamento linguistico (laddove Kručënych nella sua logopoiesi è pure irrazionale ma caoticamente arbitrario).

Il primo atto illustra la battaglia condotta dai Titani Futuriani contro il Sole , simbolo del vecchio mondo, il cui abbattimento da parte dei colossi allude allo scardinamento dei canoni estetici vigenti: “abbiamo sparato al passato” gridano gli abitanti del mondo nuovo.

Il secondo atto è ambientato appunto in questo mondo nuovo, un mondo alla rovescia, dove cessano di essere valide tutte le regole del vivere quotidiano: il tempo scorre all’indietro, non c’è legge di gravità, le finestre delle case guardano all’interno, il regime delle proporzioni e della prospettiva è impazzito, mentre i vari personaggi del dramma, tra i quali il “Viaggiatore del tempo”, il “Nerone e Caligola” (una sola persona), il “Grassone”, il “Codardo”, il “Titano budetljanin”, l'”Aviatore”, parlano secondo una sintassi decostruita attraverso lo sdvig “spostamento”, traduzione del francese déplacement, scomposizione cubista che riaggrega i frammenti verbali in modo nuovo e inaspettato dando luogo a straniamento e insensatezza, fino a toccare le vette dell’assurdo nei versi zaum’ della canzone filistea e della canzone di guerra.

Come il testo di Kručënych è in realtà una non-trama, senza sviluppo spazio-temporale e senza climax drammatico, così la trama musicale di Matjušin è priva di melodia classicamente intesa, ma ordita con trovate rumoriste (la strada, i clacson, i cantieri, la folla) e le scenografie di Malevič dissolvono l’ordine delle forme nello spazio, anticipando temi che distingueranno il Suprematismo: il sole rappresentato sul sipario da un quadrato nero, le scatole sceniche basate sul cromatismo bianco e nero, il nero su nero (pavimento e pareti) che segna la sconfitta del sole e l’avvento del buio; e un certo Costruttivismo: le case con le finestre irregolari, la mitragliatrice futurista, la locomotiva, l’aeroplano, eliche, ruote e altri dispositivi meccanici (per Kručënych il dramma doveva rappresentare il trionfo del tecnico sul naturalistico), il tutto illuminato da un sistema di luci veramente innovativo rispetto alla tecnica allora diffusa nei teatri europei.Vittoria sul sole_Grassone

Opera Assoluta e Totale quindi non solo nella fusione di letteratura, pittura, musica e arte plastica, ma anche nel suo volersi anticipatrice di molti sviluppi avanguardisti di là da venire, dal Dada al Surrealismo, presunzione futuriana di voler essere principio e fine dell’arte: secondo lo studioso delle avanguardie Nikolaj Chardžiev, Kručënych è già dadaista prima ancora che il non-senso dada sia pronunciato da Tzara e soci; in un fotomontaggio i tre autori del dramma sono ritratti sotto la minaccia di un pianoforte capovolto e appeso al soffitto, anticipando analoghi collages surrealisti e immaginisti.

Tutto è bene ciò che comincia bene, e non ha fine, il mondo finirà ma per noi la fine non sarà” canta il coro finale dei Titani Futuriani, chiara epitome di una volontà di potenza tesa al superamento assoluto dello spazio e del tempo attraverso il cataclisma dei piani logici ordinari, risentendo ideologicamente tale visione delle indagini scientifiche ed occultiste allora in voga sulle geometrie non euclidee, sulla logica iperbolica e sulla super-razionalità trascendentale legata all’iperspazio, fino a tradurne artisticamente l’utopia.

Vittoria sul sole_ViaggiatoreIn seguito Kručënych animerà durante gli anni della guerra civile il gruppo del 41° che si riuniva alla Fantastičeskij kabačok (Fantastica Taverna) della georgiana Tiflis (Tbilisi), dove ancora più rilevante diventa la componente dadaista. Rientrato a Mosca nei primi anni ’20 per portare avanti la sua inesauribile produzione d’avanguardia, sarà costretto alla clandestinità negli anni dell’opprimente realismo di regime e a scomparire dalla scena artistica occultandosi in una komunalka, uno di quei famigerati appartamenti collettivi con un unico gabinetto ed un’unica cucina per tutti gli inquilini, dove vivrà in una stanza zeppa di libri e soltanto una branda, fino alla sua morte avvenuta nel 1968, quando in Occidente le teorie e le pratiche di “fantasia al potere” e, ossimoricamente, di volontà totalitaria, avranno nuova linfa e nuova fioritura nell’ultima esplosione di avanguardia europea, cui non saranno estranei quei situazionisti passati attraverso il lettrismo debitore a sua volta dello zaumnyj jazyk ideato da Kručënych.

Oggi ci resta il piacere intellettuale e il fascino estetico dell’avanguardia ‘900, poiché come ha scritto Vittorio Strada a proposito di una rappresentazione contemporanea di Vittoria sul sole, “il dadafuturismo ha smesso da tempo di epater borghesi e proletari. Ma diverte davvero. E in un mondo squallido come il nostro non è poco.”

Mauro Del Bianco

Thomas Pynchon o della clandestinità

Thomas Pynchon, L’incanto del lotto 49, Edizioni e/o 2001

Insieme a J.D.Salinger, Cormac McCarthy e Harper Lee, Thomas Pynchon è uno dei grandi invisibili del mondo letterario americano, uno scrittore clandestino, il più coerente ed irriducibile del quartetto citato, perché fin dall’inizio ha scelto di non apparire mai.

Infatti Jerome David Salinger, l’autore di Il giovane Holden, si è chiuso in se stesso e nella sua proprietà del New Hampshire solo dopo aver pubblicato il suo capolavoro, diradando sempre più i contatti umani e continuando a scrivere soltanto per sé, fino a diventare uno scorbutico, irascibile ed intrattabile vegliardo (quest’anno ha compiuto novant’anni) che rincorre scacciando dal suo giardino i giornalisti, i curiosi e i paparazzi che tentano l’intrusione e lo scoop fotografico.

Cormac McCarthy, un duro con del talento, aveva mandato al diavolo il business e il global show, si era ritirato a scrivere in un ranch texano e “stammi lontano almeno un miglio, amico”, gergo western permettendo. Un grande scrittore, così poco americano nello stile e nella densità filosofica del suo pensiero, un pensiero tragico, assolutamente non allineato al titanico OK a stelle e strisce. Eppure è bastato un premio Pulitzer, ed ecco fotografie, articoli sui giornali, eccetera.

Anche Harper Lee, l’autrice di Il buio oltre la siepe, ha pubblicato un solo capolavoro e poco altro, sparendo poi dalla circolazione e restando ben nascosta, benché la sua cortina isolante abbia alcuni impensabili spiragli, a saperli trovare, tant’è che intervistarla non è del tutto impossibile e recentemente è stata immortalata alla consegna della Medaglia della Libertà da parte del presidente Bush e gentile signora, deludendo chi si aspettava da lei l’ennesima, coerente e irriguardosa “buca”. Per quanto autorecluso e misantropo lo scrittore clandestino corre infatti il rischio di diventare l’idolo di pochi tifosi, devoti e sempre sul piede di guerra, come tutti i fanatici, che vedono in lui il Profeta Eremita, la leggenda metropolitana in stile cyberpunk. È l’altra faccia della medaglia: sei clandestino, ma diventi tuo malgrado un’icona della civiltà dello spettacolo.

C’è molta America in tutto ciò. Probabilmente perché il potere della rappresentazione e il surf esistenziale si sono consolidati prima da loro che da noi, e il conseguente marginale ed emarginato rifiuto pure. Per l’Italia casi di clandestinità a vario titolo sono quelli di Guido Morselli, precursore del postmoderno con vent’anni di anticipo e perciò non capito e rifiutato dagli editori, che morì suicida; di Silvio D’Arzo, che in realtà si chiamava Ezio Comparoni e si nascondeva dietro una manciata di pseudonimi, continuamente tallonato dalla fobia di rivelarsi e rimasto nella storia, ironia del destino, con il nome finto che gli piaceva meno; di Camilla Salvago Raggi, a detta degli estimatori la più grande scrittrice italiana vivente, ma del tutto dimenticata, perfino dalle enciclopedie della letteratura, e appartata nella sua provincia piemontese; di Elena Ferrante, vero e proprio caso letterario degli ultimi anni, quasi un Thomas Pynchon in gonnella quanto a scelta di vita, se di donna effettivamente si tratta (qualcuno sospetta uno scrittore maschio e ben noto dietro lo pseudonimo femminile).

Thomas Pynchon è riuscito finora a schivare le trappole dello spettacolo globale mediante la tenacia e la destrezza nel sapersi mantenere invisibile, e anche mediante una buona dose di ironia: lui scrive e pubblica regolarmente, ma non si fa vedere, nessuno sa che faccia abbia oggi (le pochissime – forse due – fotografie riesumate dai curiosi lo ritraggono a circa vent’anni), la voce sì invece, la si conosce, perché ha doppiato il suo personaggio in un cartone animato dei Simpsons (sic!).

Rispetto all’icona dell’ottimismo e al mito del successo, alla facilità, banalità e approssimazione del pensiero di tendenza, Pynchon si differenzia elaborando uno stile di scrittura di verticale complessità sintattica e di orizzontale estensione in ogni direzione (molteplicità ed erudizione della narrazione), esplorando storie e cose dimenticate, il lato nascosto della vita, imprese fallimentari o insignificanti, falliti predestinati, curiosità e bizzarrie, e impone al mercato il suo diktat: avrai le mie storie, ma non avrai me, o quanto meno la mia immagine.

L’incanto del lotto 49 è il secondo romanzo (1966) di Thomas Pynchon, e il titolo, oltre a costituire un rimando colto al famoso racconto dell’orrore Il lotto n° 249 di Arthur Conan Doyle, in italiano ben si presta ad un’ambivalenza di significato (fascino o vendita all’asta?) che segnala l’ambiguità presente nell’intera storia narrata (complotto reale o burla colossale? ovvero pura paranoia della protagonista e della società californiana degli Anni ’60?) dove nemmeno la CIA è quell’agenzia che tutti conoscono, ma diventa la messicana Conjuración de los Insurgentes Anarquistas connessa ai fratelli Flores Magón e a Zapata.

Antilope Che CorreCardine del plot, e per quanto qui interessa, è un sistema alternativo di spedizione postale (in un’epoca in cui non esistono e-mail, sms ed altri sistemi multimediali oggi usuali), alternativo, clandestino e ribelle all’istituzione governativa delle Poste, di cui si servono svariati gruppi e associazioni nonché singoli individui, non collegati tra loro, ma tutti credenti in un mito di fondazione variamente e vagamente inteso, e costituito da un simbolo che non manca “mai di decorare ogni alienazione e ogni specie di isolamento“, che rappresenta “un calcolato ripiegare dalla vita della Repubblica e dalle sue istituzioni. Se diseredati per odio, semplice ignoranza, indifferenza al potere del loro voto, cecità politica, fosse quello che fosse a venir loro negato, il ripiegamento era proprietà loro, privata e inalienabile, e senza propaganda. Dato che non potevano ripiegare nel vuoto, doveva esserci per forza un insospettato mondo dall’esistenza silenziosa a sé stante“.

Questo ripiegare è anche rifiuto, ripudio, ripulsa del clamore del mondo (il simbolo di questi clandestini si scoprirà voler significare uno zittire, un far tacere il rumore), un eclissarsi che se da un lato può essere ricapitolato da questa celebre frase di Laborit:

“(…) la ribellione solitaria porta rapidamente alle soppressione del ribelle da parte delle generalità anormale che si crede detentrice della normalità. Non rimane che la fuga (…) Solo il comportamento di fuga permetterà di rimanere normali rispetto a se stessi (…)

Henri Laborit, Elogio della fuga

dall’altro sembra anticipare la recente teoria delle zone ad autonomia temporanea elaborata da Hakim Bey, il quale definisce tali zone come territori, anche mentali, caratterizzati da mobilità, invisibilità e provvisorietà che ne garantiscono l’indipendenza dai sistemi di controllo delle gerarchie oppressive: nel momento in cui è nominata la zona provvisoriamente autonoma svanisce e si ricostituisce altrove e con altre modalità.

Emblematico del primo dei due termini della questione (la fuga) è l’episodio del commodoro confederato Pinguid che messo alle strette tra uno zar (Alessandro II e non Nicola II come riportato nel testo: anacronismo intenzionale per sgabbiare l’aneddoto dalla realtà storica o mera svista?) che libera i servi della gleba e un’Unione “che aveva la parola abolizionismo sulle labbra mentre incatenava il suo bracciantato industriale al servaggio dei salari“, atterrito da un’alleanza tra queste due potenze geopolitiche, prefigurando un capitalismo padre del marxismo, “fondamentalmente due facce di un’unica peste“, dà le dimissioni e si ritira a vita privata, intuendo probabilmente che la guerra che sta combattendo (cioè la guerra di secessione degli Stati del Sud) non ha più senso né serietà in una simile prospettiva.

Trystero

Il Trystero invece, la società segreta dei congiurati di nero travisati che si oppone al monopolio delle Poste, il cui simbolo del Silenzio si accompagna all’acronimo W.A.S.T.E. (= We Await Silent Tristero’s Empire, ma curiosamente mentre in inglese waste è un aggettivo che significa “desolato”, o come sostantivo: “scarto”, “rifiuti”, in lakota-sioux invece waste – pr. uashtè – ha un significato positivo di “buono”, “giusto”, “diritto”) rappresenta una chiave di lettura della “zona temporaneamente autonoma”, talmente segreta ed invisibile da suscitare il legittimo sospetto sulla sua reale esistenza ovvero: il prezzo da pagare per ottenere la totale libertà e la completa padronanza del proprio territorio esistenziale sembra essere l’irrilevanza, il non esistere per qualsiasi tipo di potere. Insignificance è il titolo di un intrigante film di Nicolas Roeg del 1985, che pur non attinente al presente argomento, evoca analoghe suggestioni di contesto.Ghost riders

Tolte di mezzo le “scomparse” letterarie che sono espressione di narcisismo, che sono pose adottate per distinguersi nella folla del palcoscenico letterario, ripicche dell’escluso o richieste di attenzione, o ancora che consistono in mere trovate pubblicitarie, e fatte ovviamente salve le clandestinità subite per ostracismo politico o culturale/editoriale, restano le fughe, le renitenze, i ripiegamenti, le irrilevanze che sono espressione di rifiuto consapevole, diniego di partecipare al grande mercato del libro-merce, di percorrere il calvario delle procedure spettacolari della società dello spettacolo, per attenersi al rapporto gerarchico originario ed elementare tra letteratura e mezzi di divulgazione della stessa, rapporto oggi rovesciato nella sua parodia dalla cultura-merce.

Che sia questa anche la motivazione alla clandestinità di Thomas Pynchon? Può darsi, ma sicuramente da prendersi con ironia e leggerezza, consapevoli del fatto che ogni assenza ha un valore di presenza, come l’indagine etimologica della parola “clandestino” può suggerire.

Clandestino significa “essere nascosto alla luce del giorno” dal latino clam “di nascosto” e dies “giorno”, termine nel quale è presente una radice indoeuropea KEL/KAL che dà luogo ad una curiosa ambivalenza di significato. Tale radice si trova infatti nel latino celo “nascondo” e caligo “caligine”, come nel verbo greco kălýptō “nascondo”, “copro”, da cui il nome della ninfa Kălypsō che nasconde Odisseo nella sua isola per sette anni, e nella parola kăliā “tana”, così come nel sanscrito kāla “nero” e nei nomi della dea Kali e del Kali-yuga, “l’età oscura”, l’ultima età del mondo, indicando kāla il colore del cielo senza sole (sembra quindi che il nero sia il colore che più si addice alla renitenza clandestina, come del resto neri sono i drappi degli anarchici che nel romanzo si confondono con la maschera nera dei componenti del Trystero, e che non sia affatto casuale o sentimentale il ruolo rivestito dalla dea Kali nello sviluppo della teoria di Hakim Bey), ma contemporaneamente la radice KEL/KAL sta alla base di parole che significano il contrario, come nel caso del latino caelum “cielo”, clamo “grido”, clarus “chiaro”. E tale mistero linguistico dovrebbe far meditare sul fatto che concettualmente qualunque principio primo non conosce l’antitesi degli opposti ma la coesistenza degli opposti, e sul valore antifrastico di un’irrilevanza liberata da ogni scoria esibizionista.

Fuggire dalla civiltà dello spettacolo tuttavia non è facile, paparazzi, fanatici e curiosi a parte. Lo scrittore clandestino diventa suo malgrado protagonista di storie, stereotipo metaletterario. In quest’ultimo decennio è infatti diventato una moda narrativa, a cominciare dal film di Gus Van Sant Finding Forrester (Scoprendo Forrester, 2000) con Sean Connery nei panni di William Forrester, vincitore di un Pulitzer con l’opera prima e anche unica Avalon Landing, il quale vive rinchiuso in un appartamento con un archivio stipato di cartelle e fogli dattiloscritti: un cardex di inediti, e con diverse manie paranoidi: ottanta metri quadri di manicomio, finché incontra e scopre un talento in erba, o il ragazzo scopre lui, e la storia che si dipana da questa amicizia intellettuale è bella e commovente. Peccato per l’idea ricorrente del fuoriclasse da guarire e redimere, il paranoico da ricondurre alla normalità accettabile. Perché invece non pensarlo come perfettamente lucido e stabile, senza fobie e compulsioni, soltanto uno che ha detto no e non chiede perdono, come il buon vecchio ribelle della famosa canzone dixie?Toro Seduto

Gli ultimi scrittori/personaggi clandestini rappresentati nella narrativa sono il dottor Pasavento dell’omonimo romanzo di Enrique Vila-Matas (uno scrittore rinuncia alla propria identità approfittando di un casuale scambio di persona, salvo poi scoprire la sua assoluta irrilevanza: nessuno dà segno di aver notato la sua scomparsa o di sentirne la mancanza), lo scrittore dimenticato Bernardo Davanzati di Scarti di Héctor Abad Faciolince (uno che getta nel cestino dei rifiuti tutte le sue pagine insoddisfatte che un vicino di casa, frugando nella spazzatura, recupera per farne tessere di un mosaico biografico soltanto immaginato) e l’ineffabile e fantomatico scrittore prussiano Benno von Arcimboldi del mastodontico 2666 di Roberto Bolaño.

Sfuggire al potere della rappresentazione pertanto non è facile, la società dello spettacolo assorbe tutto, anche il suo contrario, anche la sua eventuale opposizione, che si trasforma a sua volta in spettacolo.

La forma integrale di clandestinità diventa allora la scomparsa senza lasciare traccia, come accaduto al giornalista e scrittore americano Ambrose Bierce, svanito nel Messico di Pancho Villa, o ad Arthur Cravan, poeta e pugile dadaista, parimenti scomparso da qualche parte in Messico senza alcun indizio, o ancora al geniale fisico Ettore Majorana, eclissatosi tra due scali marittimi nel Tirreno.

Soltanto il silenzio infatti sfugge a tutte le usurpazioni.

Mauro Del Bianco

Tentativo a manovella

canzoni-a-manovellaTENTATIVO A MANOVELLA

Matteo Codignola, Un tentativo di balena, Disegni di Roberto Abbiati, Adelphi 2008

Per chi sa ancora incantarsi al luna park delle meraviglie ingenue del passato (tipo: organetti, giochi di latta, caleidoscopi, grammofoni, marionette, lanterne magiche, cinema muto, grafica liberty) e tuttavia cerca nella letteratura o sul proscenio l’inedito che sappia essere anche poesia, se ama le Canzoni a manovella di Vinicio Capossela e il Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti, Un tentativo di balena è il libro che fa per lui.

È un libro insolito, per cui si fa presto a dire cosa non è, non è semplice invece stabilire a quale genere letterario appartiene. Non possiede infatti la razionalità geometrica del saggio, né la vaga irrealtà del romanzo, nemmeno la linearità descrittiva della cronaca, eppure contiene saggistica, narrativa e cronaca. E non solo. Ci sono anche disegni. E non solo. C’è anche la musica (per quanto occorra immaginarsela nel suo sviluppo melodico).

È un tentativo di libro, inteso come esperimento letterario che riproduce su carta una Wunderkammer, una stanza/scatola delle meraviglie, con un itinerario che, pur avendo quale stella di orientamento un classico della letteratura come Moby Dick e quale tema di fondo la possibilità/tentazione di ridurre all’indispensabile un qualunque testo, si snoda lungo tappe e percorsi insoliti o poco frequentati. Si parte infatti con i romanzi da tre righe di Félix Fénéon per arrivare al racconto di una rappresentazione teatrale che dura un quarto d’ora (quattordici minuti e quarantadue secondi, per essere precisi), ideata, diretta ed interpretata da un artista originalissimo che si chiama Roberto Abbiati. Tra la partenza e l’arrivo c’è posto per il citato Fénéon, per i Minimal Poems di Aram Saroyan, per un romanzo da una riga di Stephen King (“L’ultimo uomo rimasto sulla Terra è chiuso nella sua stanza. Bussano.”), per le vicissitudini polari di Rockwell Kent, illustratore del Moby Dick in bianco e nero, per le fisime di John Huston mentre girava il film tratto dal romanzo di Melville, per un filmato di Orson Welles che recita Moby Dick in chiave minimalista (22 minuti, monologo, fondale vuoto con riflessi d’acqua provocati da specchi), per Il cacciatore di immagini di Charles Simic, per la casa dell’astronauta, un’installazione di Ilya Kabakov nota come L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento, per un cortometraggio del muto tratto da un romanzo fantascientifico di Wells, per ricucire una biografia di Roberto Abbiati rappezzata di aneddoti delle sue esperienze artistiche, biografia puntinista che profila un personaggio da genere narrativo: se Roberto Abbiati non esistesse veramente (per il lettore ignaro la prima prova della sua esistenza sono le sue opere teatrali citate in copertina, oltre ai disegni presenti nel libro) lo crederesti un’invenzione dell’autore, una figura letteraria.

La struttura del libro fa pensare ad un meccanismo di scatole cinesi. La scatola principale (il libro in sé) ne contiene altre due: un’introduzione divagante e ricca di citazioni, e lo spettacolo Una tazza di mare in tempesta, composto da ventuno quadri della durata minima di ventiquattro secondi e massima di un minuto e quaranta secondi, ciascun quadro commentato da Matteo Codignola con riferimenti all’originale di Melville, quindi con intertesto (altra scatola), e che si svolge all’interno di una stanza/scatola di quattro metri per due metri e sessanta, alta due metri e dieci centimetri, e dentro la stanza c’è una credenza/scatola che contiene: foto di bastimenti, conserve di mare (barattoli di vetro colmi di conchiglie), scure e pialla in posa da profilo di balena, pipa/trealberi, appendi-abiti/pennone-parocchetto-gabbia-belvedere, schiumarola d’oro, violino con lampadine e morna incorporata, concertina a tre mani, molletta-da-bucato/trealberi, scolapasta/scialuppa-di-baleniera, balene di rame e in filo di ferro, statuine di terracotta, scatola di caramelle di latta gialla e rossa.

Questi infatti sono gli oggetti, in prevalenza di origine domestica, riconvertiti all’immaginario che Abbiati adopera, opportunamente modificati/integrati/installati/illuminati, per evocare atmosfere da romanzo marino, da fantastico viaggio a balene che concentra le ottocento e passa pagine di Melville in una rappresentazione di un quarto d’ora scarso.

Nella stanza/scatola che è tutto il teatro disponibile, sulle assi del pavimento volutamente flettenti e cigolanti come quelle del ponte di una nave, ci sono quindici sgabelli per altrettanti spettatori

Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto (R.L. Stevenson, L’isola del tesoro)

Quindici uomini sono andati, se li è presi la morte secca (Vinicio Capossela, Canzone a manovella)

Quindici uomini, quindici uomini e quaranta teste di porco (Vinicio Capossela, Brucia Troia)capossela

che vedono spalancarsi le finte finestre alle pareti come ribalte dove si svolgono i quadri della rappresentazione, quindici spettatori ammutoliti che piombano nel buio tagliato da lame di luce azzurra conficcate tra le assi del ponte della nave, o che alzando lo sguardo vedono sopra le loro teste un cielo blu costellato da una marea di lumini, mentre una cima che pesca in un secchio di ferro scorre rumorosamente simulando le funi degli arpioni tese da un’immaginaria Moby Dick che si tuffa e riemerge e sprofonda trascinando l’equipaggio nell’abisso.

E il comandante avanza

e niente si può fare

vuole una morte

la vuole affrontare.

(…) Il comandante è pazzo

e avanza nel peccato

e il demone che è suo

adesso vuole mio.

(Vinicio Capossela, Santissima dei Naufragati)

C’è anche la musica? Sì, in questo dramma oceanico c’è anche la musica

(…) i libri, le scialuppe

i manoscritti, le caldaie

l’orchestra ci ha suonato Charles Trenet

e sulle note di La Mer

nell’acqua scura si affondò

(Vinicio Capossela, L’affondamento del Cinastic)moby

un concertino di concertina a tre mani (due sono sicuramente di Abbiati, poi Codignola fa notare che ce n’è una terza che gli regge il mento in una posa di pensosa malinconia) e una morna di Capo Verde esalata da un violino illuminato.

Nel cielo di cenere affonda il giorno dentro l’onda (Vinicio Capossela, Morna)

Roberto Abbiati è l’unico interprete dei diversi ruoli del dramma, una tela cerata o un berretto da marinaio, un certo tono di voce, uno sguardo, una luce sparata dal basso o di profilo bastano a caratterizzare il personaggio rappresentato. Sparizioni e apparizioni, invenzioni e sorprese: se si considera il materiale utilizzato, imprevedibile rispetto alla sua originaria destinazione d’uso e di fattura semplice, ci troviamo di fronte, come scrive Codignola, ad una sorta di illusionismo cinematografico che ricorda le pellicole preistoriche degli anni eroici della macchina da presa, le quali vanno apprezzate per l’ingenua meraviglia che sanno ancora destare, non diversamente da una fiera di circensi da strada o dallo spettacolo dei fuochi d’artificio.

L’emozione è tutto nella vita (L.F. Céline, Guignol’s Band)

L’illusione è tutto nella vita (Vinicio Capossela, Nel blu)

Ah, dimenticavo: l’interpolazione dei testi di Stevenson, Céline e soprattutto di Vinicio Capossela nel libro di Matteo Codignola non c’è, ma potrebbe essere un’idea. Narrano infatti di aver visto Vinicio aggirarsi dietro le quinte dei suoi concerti con un libro in mano, e sulla copertina del libro c’era scritto:

Moby Dick.balen

serenata di capodoglio

per il mio cuore chiuso sott’olio

a spasso in mezzo al mare

senza un messaggio da riportare

solo per gli occhi di una sirena

con la coda di una balena.

(Vinicio Capossela, Canzone a manovella)

Mauro Del Bianco

Simone Di Maggio, “Avevo sei anni e mezzo”

Una gentile lettrice ( Giovanna I.) ci segnala, con queste parole , il libro di Simone Di Maggio, “Avevo sei anni e mezzo”

“...ho visto il blog e l’ho trovato interessante però non ho visto tra i libri quello di Simone Di Maggio “Avevo sei anni e mezzo” uscito da poco, che sta davvero facendo scalpore sia per il contenuto, sia per il modo in cui è scritto.
E’ bellissimo.
Io l’ho conosciuto tramite un’intervista su Donna Moderna e delle segnalazioni sul blog di Noimamme e così l’ho comprato.
Allego la copertina a la descrizione del libro presa dalla Fazi editore.”

Di fronte al portone, suono schiacciando forte il pulsante del citofono. Mi volto e saluto con la mano Flavio e sua mamma, che mi fanno ciao e se ne vanno. Forse pensano che qualcuno mi abbia aperto. Citofono di nuovo, schiacciando più forte, una, due volte…

Non c’è nessuno a casa, e nessuno in strada.

Mi guardo intorno, ho sei anni e mezzo, e ho paura.

Un parco alla periferia di Torino, uno spiazzo un po’ brullo riecheggiante di grida gioiose, di cigolii d’altalena, di mamme che chiamano ad alta voce i loro figli. Ma anche un terreno di caccia, per qualcuno che se ne sta tranquillo su una panchina a osservare quel che succede intorno a lui, in attesa del momento buono. Per alzarsi, avvicinarsi, magari regalare due parole dolci, o per fare una carezza. Qualcuno che il protagonista di questa scioccante vicenda realmente accaduta chiama il Falco. Se questa storia è stata scritta, è perché il bambino di allora è cresciuto, ma il Falco è rimasto a lungo con lui, come un dolore sotto pelle, un disagio quotidiano durante gli anni della crescita, per manifestarsi in pensieri neri e incontrollabili, attacchi di panico improvvisi, mentre l’adolescenza sembrava scorrere normale come quella di molti suoi coetanei. Per Simone, la rielaborazione interiore degli abusi subiti e il recupero della propria infanzia e della propria vita segnano un percorso di dolore e coraggio che passa attraverso la psicoterapia e l’ipnosi, finché ogni cosa non viene riportata a galla, per poter essere finalmente gettata lontano. Quel che resta, alla fine di questo viaggio, è una confessione lucida e consapevole.

Dopo il parco giochi, dopo il Falco, Simone ha riscritto la sua storia e finalmente ha ritrovato la sua vita.

Parte del ricavato di questo libro sarà devoluto a La Caramella Buona onlus, associazione da anni in prima linea nella lotta contro la pedofilia e la violenza sui minori.

La leggenda di Villon

LA LEGGENDA DI VILLON

Jean Teulé, Io, François Villon, Neri Pozza Editore 2007

Su François Villon si sono accumulate nell’arco di più di cinquecento anni parecchie leggende, sorte sia per la scarsità di documentazione e di informazioni biografiche, sia soprattutto per il fatto che François Villon il 9 gennaio 1463 sparì nel nulla, riassorbito nell’anonimato nebbioso e lupesco di una Francia medievale al tramonto.

Jean Teulé ha scritto un romanzo (è bene sottolinearlo fin dall’inizio: trattasi di romanzo e quindi di opera di fantasia) nel quale lo stesso François Villon narra in prima persona la propria vicenda dalla nascita fino a quel giorno di gennaio in cui fu bandito da Parigi. Per ricostruire una presunta autobiografia del poeta, Teulé si è avvalso di elementi storici di contorno, dei dati desumibili dai documenti giudiziari che riguardano Villon e delle notizie che possono essere ricavate dai versi delle sue opere. Ne scaturisce una storia crudissima, il ritratto di un personaggio abietto, calato in un disgustoso contesto di violenza iperbolica e di sozzura materiale e morale, un quadro iperrealistico, assai prossimo all’immaginario veicolato dalle recenti pellicole sul Medioevo che privilegiano il grand-guignol.

Ciò non toglie che il romanzo sia comunque un’opera di valore oltre che ben scritta, strutturata su un gioco di luci e ombre che non esclude anzi esalta, in mezzo a tanta raccapricciante desolazione, la sensibilità a tratti commovente che riesce a filtrare. Ma non è di questo che qui si tratta, non cioè del valore intrinseco dell’opera letteraria di Teulé, bensì dell’equivoco che essa può ingenerare nel lettore sprovveduto che potrebbe scambiare questo romanzo per la vera biografia di François Villon (e in tal senso una nota introduttiva nell’edizione italiana non sarebbe stata superflua).

Il libro di Teulé rappresenta infatti una delle possibili interpretazioni dell’enigma Villon. Ce ne sono state e ne sono possibili altre. La leggenda di François Villon nasce mentre lui è presumibilmente ancora vivo, nell’ambito dei chierici e dei goliardi della Parigi universitaria, quando circolano soltanto manoscritti delle sue opere, si accresce con la prima edizione a stampa del 1489, viene ripresa nel Quart Livre da Rabelais che inventa due aneddoti sulla fase misteriosa successiva al 9 gennaio 1463, uno che vede Villon alla corte inglese di Edoardo V e un altro che lo descrive ormai vecchio, farceur impegnato ad allestire rappresentazioni teatrali.

In questa mitologica nebulosa, dove con il passare del tempo e il venir meno delle fonti di prima mano si allargano le zone d’ombra, tra il Romanticismo e il Decadentismo (i documenti giudiziari relativi alle malefatte e alle condanne di Villon saranno scoperti solo a partire dal 1873) si assiste all’invenzione del personaggio Villon come una sorta di consapevole ribelle all’ordine costituito, di anarchico fuorilegge in lotta contro il potere della Chiesa, di ironico e beffardo fustigatore dei costumi e del perbenismo borghesi, archetipo del poeta maudit, maestro di Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fino ad arrivare all’assunzione del nome del poeta quale pseudonimo da parte dell’artista d’avanguardia Gaston Duchamp (alias Jacques Villon). Ovviamente ne deriva un’esaltazione romantica e sublimata di quella che in realtà è stata probabilmente un’esistenza molto più prosaica.

Nel caso del romanzo di Teulé l’esagerazione interpretativa di Villon, se così si può definire, va in direzione opposta, attraverso l’ingrandimento degli aspetti più brutali e amorali ricavabili dal suo tempo e dalle sue opere nonché dalla scarna biografia giudiziaria, calcando su episodi non provati o inventandone di nuovi (ma è pur sempre un romanzo e quindi giustificabile): per esempio la nascita di Villon nello stesso giorno in cui Giovanna d’Arco è arsa sul rogo, l’appartenenza del poeta ai Coquillards e la partecipazione alle loro imprese sanguinarie, la storia d’amore con Isabelle, l’oltraggio bestiale commesso nei confronti dell’amata (amata?), la violenza subita per proteggere il suo tutore.

Le perplessità riguardo al François Villon storico cominciano con la sua vera identità, in quanto non è certo se si chiamasse François de Montcorbier ovvero des Loges. La sua data di nascita è ipotetica, desunta dall’inizio del Testamento (“Nell’anno della mia trentesima età (…) l’ho scritto nell’anno sessantuno“) e fatta quindi coincidere con l’anno 1431 (lo stesso in cui fu bruciata Giovanna d’Arco), ma occorre tener presente che la datazione annuale allora non seguiva l’anno solare bensì andava da una Pasqua all’altra, e quindi potrebbe non trattarsi del 1431 secondo l’attuale datazione. Una donna di nome Ysabeau compare nella “Lettera di remissione concessa dal re Carlo VII a maître François de Montcorbier, colpevole dell’omicidio di Phelippe Sermoise, prete“, in quanto presente al momento della rissa nel corso della quale Villon uccise il Sermoise che l’aveva aggredito. Una Ysabeau appare fugacemente anche al verso 1580 del Testamento, subito dopo Jacqueline e Perrecte, tre nomi di giovani amiche dei chierici, forse prostitute: di certo non una donna che per Villon rappresentasse un qualche legame affettivo. E ancora: Colin de Cayeux, che nel romanzo riveste il ruolo di feroce capo della banda dei Coquillards, era il figlio di un fabbro del quartiere di Saint-Benoît (il quartiere della Riva Sinistra dove era cresciuto Villon) che partecipò con il poeta al furto al Collegio di Navarra. Era un chierico come Villon (e non quindi uno sconosciuto incontrato nei bagni pubblici), baro e scassinatore, che fu processato dal tribunale di Parigi e impiccato nel settembre 1460, ricordato dal poeta nei versi 1674-1675 del Testamento. Di lui Villon parla anche nelle Ballate in gergo (Ballata II verso 4) chiamandolo Collin l’escailler, cioè “venditore di conchiglie”, quale presunto membro della banda dei Coquillards. In ogni caso si ritiene che se Villon abbia fatto parte (e in proposito ci sono forti dubbi) di tale congrega brigantesca, della quale peraltro dimostra di conoscere bene il gergo, ciò sia avvenuto solo dopo il colpo al Collegio di Navarra (mentre nel romanzo la sua affiliazione tramite un furto ignobile, l’omicidio di una prostituta e la consegna di Isabelle ai briganti che la stuprano, avviene prima).

In entrambe le versioni dell’apoteosi (quella romantica e ideologica da una parte e quella iperrealistica dall’altra) la premessa è costituita dall’accettare senza remore e come pura verità quanto scrisse Villon, ritenendo che le sue opere siano strettamente autobiografiche e interpretabili come storiche, mentre potrebbe essere percorribile un’altra strada, ovvero che si tratti di superba finzione letteraria, del primo tentativo nella storia della letteratura moderna di gioco letterario, di esercizio di stile. Negli ultimi anni la critica si è indirizzata verso quest’ultima ipotesi, negando ogni valore autobiografico a nomi, eventi, situazioni citati nelle opere di Villon.

Certo, anche questa è un’esagerazione tecnicistica, perché qualcosa di storico e di personale nell’opera di Villon c’è sicuramente. Tuttavia questo dogmatismo formalista sviluppatosi negli ultimi trent’anni ha avuto il merito di dare una sterzata importante nell’ermeneutica letteraria per evadere finalmente dall’ovatta (o dalla fogna) immaginaria in cui riposava il personaggio Villon e non il poeta Villon.

Che François Villon fosse un tipo poco raccomandabile, amante del vizio, disposto a rubare, a sguainare la daga e ad uccidere (cosa del resto abbastanza frequente a quei tempi), non è posto in dubbio. La sua era un’epoca di crisi, in cui gli ideali e i valori metafisici del Medioevo erano stati demoliti da una guerra lunga cent’anni, dalle epidemie di peste, dalle miserie umane che ne erano derivate. Il trono del re non appariva più come un’investitura dall’alto dei cieli, ma come una posta in gioco per intriganti ed arrivisti. Parigi stessa, dimenticata dal re e occupata dagli inglesi, sconvolta dalla guerra civile tra armagnacchi e borgognoni, era diventata il campo di battaglia (dapprima goliardica e poi drammaticamente sanguinosa) tra le due Rive della Senna, la Riva Sinistra delle chiese e delle università e la Riva Destra dei quartieri mercantili e borghesi, una lotta tra il passato e il presente, tra lo spirito e la materia, come ricorda Jean Teulé, e dove arbitro e tiranno era il Prevosto con i suoi “valletti del diavolo”, una sorta di governatore e relativi scherani.

Che tuttavia Villon fosse consapevole in tale contesto di un suo ruolo socialmente eversivo o se ne compiacesse, è indimostrabile, e molto probabilmente falso. Nei versi di Villon si incontra viceversa una sofferta coscienza della propria condizione, accettata con fatalismo (“facendomi Saturno il fagottello, ci mise, penso, il suo prezzo“) e spesso con ironia (dalla famosa quartina: “e grazie alla corda lunga una tesa, saprà il mio collo quanto il mio culo pesa“), la tristezza e il rimpianto di un maître che sarebbe potuto diventare un agiato e rispettato docente universitario (quindi nessun astio per l’ordine costituito, per la Chiesa e per i borghesi, anzi) e che invece si è lasciato condurre sulla strada del vizio, sciupando la sua vita. È motivo ricorrente infatti il rimpianto della giovinezza perduta, della vita che scivola via, come neve che si scioglie e si dissipa nel nulla: sembra quasi la malinconia di un discolo consapevole delle bricconate compiute, della loro ineluttabilità e vacuità e dell’impossibilità di goderne ancora.

Ma le maschere che Villon assume nei suoi versi sono così diverse, molteplici e contraddittorie, il gioco di specchi è così frequente, l’ambiguità così ricercata, che non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra la verità della sua vita e la fantasia poetica. D’altra parte è questa incoerenza che ne ha fatto un grande nella storia delle lettere: egli è il primo poeta francese che rompe gli schemi della letteratura cortese medievale, che fa del pastiche linguistico la sua cifra letteraria, che affrontando temi scabrosi e scandalosi fa conoscere un mondo immondo che la letteratura precedente aveva volutamente ignorato. Se c’è un aspetto rivoluzionario in Villon è tecnicamente letterario e risiede nell’eversione dei modelli, degli stili e degli stereotipi fino ad allora vigenti.

Scrive a tal proposito Emma Stojkovic Mazzariol (François Villon: un enigma letterario, in François Villon, Opere, Meridiani Mondadori, 2000): “Usando tutti i linguaggi, da quello alto e nobile a quello dimesso e quotidiano, da quello pomposo e retorico a quello osceno o criptico dei bassifondi, Villon infrange tutte le barriere che separano i vari codici, li sottopone, mettendoli a raffronto, a una specie di incessante contestazione linguistica che, liberandoli dai sensi paralizzati, li restituisce a una rinnovata vitalità espressiva. Che l’effetto ultimo di questa riutilizzazione simultanea di tutti i temi, i codici, i registri, i ritmi fissati e catalogati dal sistema retorico del tempo sia quello di una tensione dialettica generante una continua, e spesso paradossale, ambiguità del dire, è un dato strutturale del testo che è estremamente pericoloso tentare di risolvere mediante referenti biografici.”

Resta il mistero di cosa fece Villon dopo il bando da Parigi, perché non scrisse più o, se scrisse ancora, perché nulla ci è pervenuto, dove andò, cosa gli capitò, come morì. È un’ignoranza in un certo senso emozionante, mitopoietica, da scriverci un altro romanzo a partire dalle ultime righe del romanzo di Teulé:

Racconteranno più tardi di essere stati gli ultimi a vedere Villon, che stavo in cima alla collina e il mio abito sbatteva, agitato dal vento (…) e che poi ho cominciato a scendere sull’altro versante della collina. Diranno che a sparire per primi dietro il crinale furono i piedi, poi le gambe e infine il busto. Affermeranno che, a un certo punto, rimaneva solo il profilo della mia povera testa, che pareva fluttuare nell’aria come il pianeta Saturno, e poi giureranno bestemmiando di aver visto la testa dissolversi di colpo nella luce, come quando si entra nell’eternità… e che da allora nessuno ha più saputo nulla di me.

Mauro Del Bianco

Osvaldo Soriano, Fútbol – Storie di calcio

ALL’ULTIMO MINUTO

Osvaldo Soriano, Fútbol – Storie di calcio, Einaudi 1998

Alcuni autori, come l’argentino Osvaldo Soriano, hanno rivelato del football un aspetto mitografico che si ispira a vicende vissute, da giocatore o da spettatore, oppure a sensazioni catturate nel flusso della memoria, fiutate nella poesia di un gesto atletico, evocate dall’odore dell’erba di un campo sportivo. Nelle loro storie il calcio, gioco pedestre in senso stretto e pure ampio, si svincola dai lacci dell’esegesi tecnicistica, della scalmana delle curve e delle chiacchiere dei processi televisivi, per fluttuare liberamente nell’immaginario mitopoietico fino a diventare metafora della vita.

In questo libro sono stati raccolti diciannove racconti di Osvaldo Soriano ambientati nel mondo del calcio sudamericano, che parlano poco dei campioni e delle stelle, e molto invece di anonimi e più o meno onesti calciatori che inseguono un pallone nei villaggi della Patagonia, di improbabili allenatori giramondo, di storie d’amore, di leggende e scenari fantastici, di gioie e disperazioni calcistiche, e anche della malinconia degli sconfitti, degli esclusi, degli sfortunati, “dei goal che uno si perde nella vita”.

Tra le vicissitudini del giovane centravanti Osvaldo Soriano si inseriscono i ricordi di Obdulio Varela, centromediano uruguayano che disputò la finale del Mondiale 1950 al Maracaná, quello che fece piangere milioni di brasiliani, uomo di un’eleganza d’altri tempi, il quale, la sera subito dopo la partita, se ne andò nei bar a consolare i carioca davanti ad una birra; il rigore più lungo del mondo, che doveva essere calciato nel 1958 “in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto”, in una contrada di indios araucani che militano in squadre dai nomi pretenziosi come Estrella Polar, Escudo Chileno, Deportivo Belgrano, e che giocano a calcio “perché di domenica non c’era altro da fare e il vento portava con sé la sabbia dalle dune e il polline dalle fattorie”; il fantastico Mondiale del 1942 (in realtà mai disputato) nella Patagonia argentina, arbitrato niente di meno che dal figlio del pistolero Butch Cassidy; le fanfaronate del mister Peregrino Fernández, che ha girato tutto il mondo giocando nella Francia della Terza Repubblica, nell’Italia di Mussolini e nella Russia di Stalin, transitando per la Casablanca di Rick/Humphrey Bogart, per finire in una squadra di Tangeri e poi nel Congo insieme al generale Perón, quindi allenatore dei Coyotes del Texas, e la cui nostalgica filosofia di vita è riassunta nell’aforisma: “Si moriva meno per incidenti d’auto e più per un futuro imperfetto”.

Se c’è un senso tragico nel football è quello che lascia nel cuore la nostalgia e la commozione per i vinti, per quelli belli, bravi e tuttavia vinti: la stupefacente Olanda ’74, il meraviglioso Brasile ’82, l’Ungheria di Puskas del ’54, squadre che, sul piano del risultato concreto, non hanno vinto nulla, ma che restano negli annali calcistici per una qualche meraviglia: il tocco felpato, la valanga di gol, lo spettacolo di una danza, la spregiudicatezza dello schema, la somma dei talenti, qualunque sia il fattore che le ha rese un unico irripetibile, stanno nell’Olimpo degli Immortali.

Quest’anno è toccato alla Turchia, la squadra che ha disputato gli Europei 2008. Elemento distintivo dei lottatori turchi: “all’ultimo minuto”. Sembrano usciti da un racconto di Osvaldo Soriano, pronti per entrare nel libro di Darwin Pastorin Le partite non finiscono mai.

Tanto per cominciare, uno pensa che siano 23, come tutti i convocati di tutte le nazionali che partecipano al torneo. E invece danno l’impressione di essere 46. Hanno nomi da cavalieri delle steppe turaniche lanciati alla conquista delle praterie, millenari galoppi di scorrerie selvagge, tonfi di purosangue, zoccoli nitriti manti lucidi di luce asiatica, fragore dell’orda nell’ululato del vento: Turan, Volkan, Uğur, Hakan, Tuncay Şanlı detto Cesur Yurek, “cuore impavido”, per non parlare di uno con un nome da antico romano, nato in Brasile e naturalizzato turco come Mehmet Aurelio, e di un altro che è un inglese (Colin Richards) diventato Kâzım Kâzım, nomi esotici ed altaici che i giornalisti deputati alla cronaca dell’Europeo scambiano ora per il nome ora per il cognome, sicché una volta trovi scritto Turan, un’altra trovi Arda, e invece è sempre lo stesso: Arda Turan. La serie di combinazioni nominative dei 23 giocatori è talmente variabile e illogica (non sappiamo proprio come si chiamano) che alla fine i 23 potrebbero essere effettivamente 46. Sembra una fiaba, Ali Babà e i 46 corsari, dove l’Ali Babà che possiede la parola magica capace di aprire il Sesamo del tesoro europeo è Fatih Terim, detto l’Imperatore, pirotecnico mago del football in grado di imprimere alla squadra un’energia e un’ostinazione mai viste: “abbiamo vinto perché non abbiamo accettato la sconfitta” dice l’Imperatore, e non la sta sparando grossa.

La Turchia, strapazzata nella prima partita del torneo dal Portogallo, fa conoscere agli Svizzeri, affogati in un campo che sembra una piscina, la riedizione di un’opera del teatro moderno turco, un dramma di Reşat Nuri Güntekin: Bir yağmur gecesi (Una notte di pioggia, 1940), che prevede il colpo di scena al 48′ del secondo tempo con il gol della vittoria di Arda Turan, vale a dire quando il tempo regolamentare è già scaduto e si è nei minuti di recupero, prima, soltanto un soffio prima, dell’ultimo soffio dell’arbitro nel fischietto. D’accordo, può capitare, niente di impressionante. Ma nella partita successiva, con la Repubblica Ceca, che vale la qualificazione ai quarti, i Turchi stupiscono il mondo: a un quarto d’ora dalla fine perdono 2 a 0, chiunque si rassegnerebbe, ammetterebbe che è finita, che i Cechi hanno chiuso la partita e i quarti li hanno in tasca, noi Italiani, tanto per dire, avremmo già cominciato a processare tecnico e giocatori e a pensare al calcio mercato e ai prossimi mondiali. I Turchi no. Segna ancora Arda Turan al 30′ del secondo tempo, ma è Nihat Kahveci che coglie l’assurdo disegno del destino negli ultimi tre minuti: pareggio al 42′ e incredibile vantaggio al 45′, ribaltando un risultato ragionevolmente assicurato.

Arriva il turno dei Croati, i quali pensano ragionevolmente di avere in tasca la semifinale con un gol realizzato in prossimità dello scadere del secondo tempo supplementare. E si sbagliano, non lo sanno ancora, ma sbagliano. Rüştü Reçber, il portiere turco, rilancia dalla sua area un pallone sul quale non scommetteresti una lira, la palla vola fino all’area di rigore avversaria, il numero 9 Semih Şentürk trova uno spiraglio in mezzo alle gambe dei difensori croati (“la palla gli è passata in mezzo alle caviglie come una goccia d’acqua che scivola tra le dita” direbbe Soriano) e tira una botta che batte tutti, riagguantando al 16′ del secondo tempo supplementare (vale a dire a tempo scaduto) il pareggio e la speranza di vincere ai rigori. E infatti dal dischetto Semih Şentürk, Arda Turan e Hamit Altıntop non falliscono un tiro e ne bastano soltanto tre su cinque, perché i croati intanto, storditi e incazzati (comprensibile), ne sbagliano addirittura tre. Finisce 4-2 e la Turchia vola in semifinale.

I titoli della stampa che pescano nell’immaginario da Mille e una notte ottomana adesso si sprecano: Svizzeri nel bagno turco, Fata Turchia fa magie, Turchi dell’altro mondo, Marcia turca, I Turchi si fumano la Croazia.

Chi l’avrebbe mai detto. La Turchia è la squadra delle sorprese, è uno spettacolo, una meraviglia, la vera rivelazione dell’Europeo 2008 (senza nulla togliere agli Spagnoli che il torneo se lo sono strameritato, ma loro hanno vinto), perché Soriano ci ricorda che ci sono tre generi di calciatori: quelli che vedono gli spazi liberi, quelli che ti fanno vedere uno spazio libero e quelli che creano un nuovo spazio dove non dovrebbe esserci nessuno spazio: questi sono i poeti del gioco.

Fino a questo momento lo stile non è irresistibile, giocano abbastanza bene, ma pestano meglio, con una media di 3,5 ammoniti a partita, il che la dice lunga sulla foga che ci mettono nel gioco: portiere titolare espulso, tre giocatori fondamentali squalificati per somma di ammonizioni. Aggiungiamo i feriti delle precedenti battaglie e l’Imperatore si trova con una squadra decimata per la semifinale con la Germania. Poiché l’UEFA non gli permette di recuperare gli squalificati, Fatih Terim stavolta sì la spara grossa: “farò giocare il portiere di riserva in attacco”. Se lo fa, è davvero Ali Babà. Se lo fa e vince, ha superato tutte le meraviglie di cent’anni di calcitudine. Se lo fa, finirà sui libri di storia. Se lo fa, il calcio totale degli Olandesi Anni ’70 sarà a confronto roba da dilettanti.

Non lo fa e la Turchia, prosaicamente, ha perso. Ha perso quando giocava alla grande, sia tatticamente che esteticamente, quando ha avuto un solo ammonito, quando per la prima volta nel torneo stava vincendo, ha perso quando aveva messo ko i Tedeschi con un gol di Uğur Boral che non era un effimero sorriso di Fortuna, ma un gol arrivato dopo che una sassaiola aveva crivellato la porta tedesca senza segnare il punto, ha perso nonostante Semih Şentürk avesse riacciuffato il pareggio al 41′ del secondo tempo, e tutti sperassero nel ripetersi del miracolo. Il miracolo e, a questo punto, la beffa, li hanno combinati invece i Tedeschi: gol di Lahm, che si beve una difesa stremata, al 45′, poco prima del fischio arbitrale: 3-2, fine. Negli occhi della nazione turca la terra è di ferro e il cielo è di rame, come dicevano i contadini della Cilicia per esprimere la loro disperazione negli anni di carestia. Son cose che succedono.

Nel calcio “ci sono cose che apparentemente non hanno logica, ma succedono molto spesso” racconta Soriano.

È così che nascono i miti letterari del pallone, sull’amarezza delle occasioni perdute, sulla solitudine del portiere di riserva, Tolga Zengin, numero 12, che per un attimo ha cullato l’illusione di trovarsi in campo con una maglia diversa, di giocare in attacco, lui che per destino gli attaccanti ha sempre dovuto e sempre dovrà tenerli a bada e combattere con loro epiche battaglie. E pensare che in questa Turchia hanno giocato tutti, anche Akman Ayhan che non era mai stato impiegato prima della semifinale, tutti fuorché Tolga Zengin, portiere di riserva che non si è scollato di dosso la panchina, il portiere che non giocò centravanti: sembra perfino il titolo di un racconto di Osvaldo Soriano.

Mauro Del Bianco

Marella Caracciolo Chia, Una parentesi luminosa

IL CONVITATO DI PIETRA

Marella Caracciolo Chia, Una parentesi luminosa, Adelphi, Milano 2008

Esplorando gli archivi Caetani, alla ricerca dell’enigma Leone Caetani, l’autrice si è imbattuta in un fascio di lettere che rivelano per la prima volta la storia d’amore tra la principessa Vittoria Colonna, moglie del principe Leone Caetani, e il pittore futurista Umberto Boccioni, un effimero amore sbocciato nell’estate del 1916 su un’isola del Lago Maggiore, una parentesi luminosa nella vita inquieta dei due innamorati, che si spegne con la morte del pittore nell’agosto dello stesso anno, ma che forse nel cuore di Vittoria non si è mai estinta, benché lei, dopo la scomparsa di Umberto, possa averla rimossa.

Lei: appartenente alla nobiltà romana, educata all’inglese, severa nello stile e sbarazzina nella vita, ma bisognosa di affetto e tenerezza, sposa calligrafica di un altro esponente della nobiltà romana: il loro rapporto d’amore, a prescindere dall’unico figlio nato dall’unione, sembra infatti esprimersi a livello letterario, attraverso la corrispondenza quasi giornaliera che li tiene legati malgrado la distanza: Vittoria perennemente in fuga dalla capitale e da Palazzo Caetani, rimbalzando da Londra a Montecarlo, per trovare infine una sua dimensione in una villa sul Lago Maggiore; Leone isolato nella sua torre d’avorio materiale (la tenuta Caetani nelle paludi pontine) e sapienziale (gli studi sull’Islam e forse, come si vedrà, l’esoterismo).

Lui: pittore geniale e ribelle, futuristicamente tombeur de femmes, votato alla pennellata rivoluzionaria ma anche allo schiaffo e al pugno, protagonista insieme a Marinetti di epiche risse e di serate culturali (più o meno la stessa cosa nella prassi futurista), interventista e volontario nella guerra in corso, benché ormai sazio di trincee, fango e cadaveri (l’estetica entusiasmante del 24 maggio si è ormai esaurita lasciando il posto alla stanchezza e forse alla noia, sicuramente alla preoccupazione per la propria arte trascurata a favore delle armi), alla ricerca di nuove espressioni artistiche, non come un pittore qualunque, ma come un futurista che non può soffermarsi sulle proprie espressioni stilistiche, continuamente spinto all’invenzione, pena la sconfitta del proprio ideale di vita. Per i futuristi la velocità e il dinamismo promettono l’immortalità e l’infinito, poiché uccidono il tempo, ma costringono a correre senza posa, a non fermarsi mai: emuli di Sisifo che s’illudono di volare e invece sono gravati da una forza cinetica che li costringe ad agitarsi incessantemente.

Il marito: Leone Caetani principe di Teano duca di Sermoneta, più vecchio di Vittoria di una dozzina d’anni, ma più vecchio di un’età che non è soltanto anagrafica, bensì esistenziale. Vittoria ama il mondo e la vita, vuole godere del mondo e della vita, Leone ama i libri e lo studio, la sapienza, quanto a vivere: lo faranno i nostri servi per noi, direbbe Villiers de l’Isle-Adam.

Stili inconciliabili, che rendono arduo capire non come possa essere nato l’amore, ma come Leone e Vittoria possano aver scambiato un’attrazione erotica per un progetto di vita in comune. Ancor più curioso è il fatto che il loro matrimonio, deciso in tempi brevissimi, appaia come una sorta di conciliazione epocale tra i Colonna e i Caetani, due casati rivali dai tempi di Bonifacio VIII, ulteriore segno forse che questo era il classico matrimonio che non s’ha da fare. Gli amanti dell’astrologia vi troverebbero un’avvincente materia di analisi: Leone Caetani, Vergine; Vittoria Colonna, Sagittario: una quadratura che di solito non promette idilli, ma conflitti, e dove essendo lei il carattere impulsivo e ballerino è prevedibile una separazione dei destini, come di fatto accadde, dapprima con l’accettazione paziente da parte di Leone delle insofferenze della moglie e poi, una volta legatosi ad Ofelia Fabiani, con l’abbandono definitivo.

Nella storia narrata da Marella Caracciolo Chia, affascinante scorcio dell’Italia tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, ricostruzione di un’epoca bella, come la chiamarono i francesi, di un periodo ricco di fermenti culturali e di vaghezza, ma anche di intrighi e di ipocrisie, ciò che risalta è la presenza quasi metafisica di Leone Caetani, all’origine del libro e nel libro testimone appartato, attraverso le lettere quotidiane che Vittoria gli scrive, di quanto accade. Una sorta di convitato di pietra.

Insigne orientalista, non propriamente topo di biblioteca e pantofolaio, come darebbe l’impressione nell’antitesi con la moglie, ma propenso all’avventura purchè finalizzata ai suoi studi e al suo stile di vita spartano e solitario (visitò giovanissimo l’Egitto, il Sinai, l’Algeria e il Sahara in un’epoca in cui un viaggio del genere era veramente un’avventura, e nell’ultima fase della sua vita si stabilì nelle regioni più selvagge del Canada, senza contare la partenza volontaria per il fronte quando l’età avrebbe potuto esonerarlo e la rottura con le convenzioni della sua casta quando si accasò con Ofelia more uxorio), Leone Caetani irradia mistero, tanto più da quando negli ultimi tempi si sono moltiplicate le ipotesi circa un suo ruolo da protagonista negli ordini esoterici romani del primo Novecento, fino ad identificarlo con l’anonimo autore di una relazione clamorosa trasmessa ad una rivista magica degli anni ’20 e sulla quale ancora oggi si discute. Per quanto vi siano forti dubbi circa tale identità a causa dei dati biografici e ideologici del principe, la sua personalità non banale lascia margini di indagine.

Di certo Leone Caetani è esattamente l’opposto di Umberto Boccioni, l’impassibilità e l’erudizione contro la passione e l’estro artistico, la gravità del “ciò che dev’essere” contro l’agitazione del “ciò che desidero”, il sostanziale rifiuto della mondanità e della città contro l’esaltazione estatica della metropoli moderna.

Contrasto non solo personale, ma proprio di un’epoca giunta alla sua fine, di cui la Grande Guerra, a ben vedere, fu la materializzazione bellica, inconciliabilità che l’emozione della poiesis letteraria potrebbe rappresentare così:

La Città, les madames, il macadam, i tram, la trama di fili elettrici ricamata in sospensione da una casa all’altra, casamenti squadrati massicci alti altissimi ortogonali da boulevard a boulevard, incoerenti fabbricati imbastarditi nel dedalo dei quartieri vecchi, della dilatazione sbrigliata di palazzine ville tuguri casali catapecchie fabbriche, dietro le vetrine dei grandi viali alberati, e i vicoli ciechi, i cortili senza scampo, i passaggi chiusi, le gallerie, gli empori, i politeama, le piazze, taxi, automobili, biciclette, carriaggi, tram, macadam, marciapiedi, la trama di un formicaio pestato da suole indaffarate, i lustrascarpe, gli strilloni, i garzoni, i galoppini, il galoppo dell’umanità, macadam macadam, appestata dalla frenesia meccanica, clacson traffico drindrin, viavai viavai viavai, motori fischietti trombe campanelli, e vociare vociare vociare, incessante assordante estenuante, viavai viavai viavai, e ruggire ruggire ruggire, reboante stordente potente, viavai viavai viavai, e luci neon luminarie, lampade lampioni lampadine, colori elettrici a rincorrersi corsivi sui cornicioni dei palazzi, sui telai delle vetrine, sui tetti d’ardesia, sui tetti dei tram, il trambusto gaudente di una società fru-fru, caffè teatri tabarin cabaret cinematografi animatografi autografi fotografi, paillettes velette aigrettes colletti di celluloide vestiti alla marinara, canne da passeggio, ombrellini da passeggio, la vita è una passeggiata, una gita in barca sul lago, la vita è un batuffolo di zucchero filato, la giostra, il circo, la ruota panoramica, la Città, la Madame, il macadam, i tram, trema la vita, la stramberia del destino, il dramma in cartellone: prossimamente sugli schermi d’Europa, prima assoluta a Sarajevo, la trama delle vite giulive sospese alla stramberia del destino nel dramma europeo, teatro dopo teatro, le quinte abbattute, le pareti svanite, fino a rivelare il piatto paesaggio dei campi arati dalle artiglierie e svenati dalle trincee, il velluto è sangue, le pagliette elmetti, la folla cadaveri, millenovecentoquattordici, uno nove uno quattro, 1914, giugno 1914, arriverà l’estate e ci porterà la morte, arriverà l’estate e l’epoca bella finirà, quando invece dovrebbe cominciare la bella stagione, sarà per questo che la guerra sembrerà una passeggiata tra le spighe di grano mature, sudando sotto il sole, sudando di paura, la paura, la paura che tutta la grande illusione possa finire, allora accelerare il ritmo della vita, velocità, ancora ancora ancora, e di più, non c’è più tempo, tutto è troppo poco tutto è troppo tardi, ancora ancora ancora, gli uomini quando hanno paura corrono, corrono via da se stessi, imbrogliano la paura nella concitazione, imbrigliano la disperazione in un sogno, abbagliati si precipitano plagiati, Carica! Urrah! il galoppo dell’umanità, macadam macadam, appestata dalla frenesia meccanica, shrapnel tank obici mortai, viavai viavai viavai, motori assalti baionette mitraglia, e gridare gridare gridare, incessante assordante estenuante, viavai viavai viavai, e ruggire ruggire ruggire, reboante stordente potente, viavai viavai viavai

ma se solo per un istante

arrestare l’agitazione

respirare

fermarsi un attimo

e guardare

soltanto un istante per capire

dove stia andando tutta questa umanità delirante

senza lasciarsi travolgere

macadam macadam, appestata dalla frenesia meccanica, clacson traffico drindrin, viavai viavai viavai, motori rumori afrori, e vociare vociare vociare, incessante assordante estenuante, viavai viavai viavai, e ruggire ruggire ruggire, reboante stordente potente, viavai viavai viavai

ma lasciare scorrere

come acqua che scivola via

e poi scorgere la fine

allora

allora si potrebbe voltare le spalle a tutto questo

allontanarsi

e guarire.

Mauro Del Bianco

Recensioni del cuore

DOMENICA 1 GIUGNO 2008 PARTIRA’ IL CONCORSO “RECENSIONI DEL CUORE”
promosso dal blog ( “figlio” della CONOSCENZA RENDE LIBERI ) IL MESTIERE DI LEGGERE

librilatpiccIl concorso e il bando verranno presentati alle ore 18,00 di Domenica 1 giugno presso EDISON BOOKSTORE AREZZO , partner dell’iniziativa insieme alla Casa Editrice Prometheus di Milano


Vi chiediamo di partecipare anche con poche righe raccontandoci di un libro che è rimasto nel cuore, nella mente.

Un libro che vi ha seguito nel corso della vostra vita.

La commissione composta da amanti della lettura, come amano definirsi e che nella vita di tutti i giorni svolgono la professione di docenti di scuola superiore, è al completo.


Prof. ANGELA PECORARO

Prof. FRANCO CIOCCA

Prof. ALESSANDRO TEMPI

A partire dal 1 giugno e fino a tutto il 31 agosto 2008 le recensioni possono essere inviate a recensioni@laconoscenzarendeliberi.it

Affilate le penne……..

Archeologia di frontiera, recensione a “Roma il primo giorno”

ARCHEOLOGIA DI FRONTIERA

Andrea Carandini,

Roma il primo giorno,

Editori Laterza 2007

Quanto riportano cronache fantastiche (che talvolta lo sono solo in apparenza o solo in parte) è spesso il trampolino di lancio dell’archeologo di frontiera, di colui che ritiene più degne di fede per la propria ricerca le testimonianze tramandate dai classici, benché in forma narrativa e talvolta impropria, che le conclusioni spesso presuntuose della scienza positivista.

Quante volte infatti si sente dire, a cominciare dai banchi di scuola, che le testimonianze annalistiche e letterarie degli antichi romani non sono del tutto attendibili, nel migliore dei casi, ammettendo cioè un margine di dubbio, o che sono tutte favole, nel peggiore dei casi, con una prosopopea a dir poco risibile.

Favola la vicenda di Romolo, favola la fondazione dell’Urbe, favola la data di fondazione, favola tutto ciò che non è riconducibile ad un metodo di verifica che avrebbe bisogno in realtà di essere verificato, perché troppe volte ormai ha mostrato la corda (in quanto sillogisticamente fondato su ipotesi illegittimamente tramutatesi in dogmi di verità).

Andrea Carandini, archeologo che da più di vent’anni scava nel centro primordiale di Roma (Palatino e dintorni), ha le idee chiare in proposito, con una saggezza che gli deriva dall’essere non solo uno studioso ma anche un faber, un uomo che fa, che agisce, che cerca, che scava appunto:

“Non sono certo un portatore di verità assolute – sempre irraggiungibili – ma pongo problemi e avanzo soluzioni, cioè ipotesi più o meno probabili, i cui risultati sono provvisori, esito dello sforzo di sintesi che oggi sono in grado di fare” (p. 7).

Questo per il metodo d’indagine. E per quanto riguarda l’atteggiamento culturale e mentale Carandini offre una solida garanzia di intelligente competenza:

“(…) i primi Romani credevano fermamente nei loro dèi e nei rituali con cui li veneravano. Il diritto, la politica e lo Stato – in quel tempo alla loro prima apparizione – erano avvolti ancora in una placenta sacrale; religione, morale e politica non erano ancora campi separati della vita e della cultura, ma realtà mentali interconnesse. Lo storico saggio, oltre che laico, non laicizza un passato impregnato di sacralità (…)” (p. 8).

Non passi inosservata quest’ultima affermazione, che è bene ripetere e perfino stampare in grassetto: lo storico saggio non laicizza un passato impregnato di sacralità.

La storiografia moderna infatti si è impegnata accanitamente a contraddire questo principio, che dovrebbe essere invece normale e addirittura ovvio, applicando valutazioni e opinioni contemporanee, cioè completamente desacralizzate, a uomini di un lontano passato che tali visioni non avevano e non potevano avere.

Rispetto alla corposa bibliografia di Carandini (ricordiamo Remo e Romolo; La nascita di Roma; Archeologia del mito; Palatino, Velia e Sacra via; Cercando Quirino) questo libro ne rappresenta una sorta di introduzione per chi voglia addentrarsi nel mistero delle origini di Roma e contemporaneamente una sintesi dei risultati finora ottenuti. È un libretto molto ben fatto in cui l’esposizione si esemplifica con planimetrie, illustrazioni, disegni ricostruttivi di come poteva essere l’Urbe primordiale, fonti letterarie romane e greche.

Nella ricostruzione di Carandini, avvalorata dalle sue scoperte archeologiche, Roma sorge per volontà di un rex augur (Romolo) in luoghi già abitati e già organizzati in comunità politico-sacrale, il Septimontium della tradizione varroniana, il giorno della festa dei Parilia (21 aprile) e in un’epoca che non si discosta da quella della tradizione annalistica (753 a.C.).

“Se esisteva prima di Roma un centro proto-urbano grande quasi quanto l’abitato cittadino della prima Roma, cosa avrebbe fatto di originale Romolo nel fondare la città? (…) Romolo voleva invece fondare una città sul Palatino, proprio nel cuore del centro proto-urbano, scelta innovatrice, dal momento che implicava la conquista e la trasformazione sacrale e giuridica del centro simbolico del Septimontium comprendente due montes: il Palatium e il Cermalus” (p. 24 e p. 40).

La fondazione non si esaurisce nell’atto materiale della posa delle fondamenta del nuovo centro urbano, ma lo stesso rito di fondazione del pomerium, condotto secondo la disciplina etrusca, è simultaneamente atto sacro all’origine di una nuova comunità sociale, dove Latini, Sabini, Etruschi e le altre etnie italiche colà rappresentate, cessano di essere tali per divenire Romani, uniti e rinnovati nell’azione formatrice di una realtà con ben tre nomi a definirne il destino: politico (Roma), sacro (Flora), segreto (Amor).

Il viaggio a ritroso nel tempo condotto da Carandini ci riporta ad una primordialità magica latente in un paesaggio montuoso di boschi, di ombrosi lecci e di faggi, tra acque di palude e anse dove invece il fiume riposa in calmi meandri, dove i giunchi sono accarezzati da un vento lieve che non increspa l’acqua limpida, specchio tranquillo di salici e tamarici, fra sentieri di massi affioranti dalle acque e levigati da migliaia di flutti, guadi intitolati a divinità che là si sono manifestate, luoghi che a vederli diresti subito insieme a Ovidio: qui c’è un nume, ne senti il profumo nell’aria, profumo di Camene che giacciono discinte e nascoste tra la vegetazione, querce secolari e templi non ancora eretti in muratura, ma rustiche capanne inaugurate dal volo degli uccelli o dal bagliore dei fulmini, immagini aniconiche e non antropomorfe degli dèi: un’asta per Marte, l’ascia di pietra focaia, forse meteorica, per Giove Feretrio, il menhir per Terminus, il fuoco per Vesta.

È in un contesto di tal fatta che la comunità fondata da Romolo muove i suoi primi passi, nel primo giorno di Roma rievocato da Andrea Carandini.

Gli archeologi di frontiera talvolta sbagliano clamorosamente, ma talvolta intuiscono verità laddove nessuno scommetterebbe un fico, basti pensare a Schliemann e alla scoperta di Troia condotta con l’unico ausilio della poesia omerica. Nel recente passato italiano il veneziano Giacomo Boni, contro ogni saccente teorema della storiografia a lui contemporanea, scoprì il Lapis Niger nel Foro e il presunto mundus della Roma Quadrata sul Palatino, e cercò senza successo di individuare anche il luogo dove era nascosto il Palladio, uno dei pignora imperii di Roma, uno dei sette oggetti sacri cui si riteneva legato il destino di Roma (sacra fatalia).

Che fine hanno fatto i pignora? Mi sono sempre chiesto dove e quando siano spariti per esempio gli ancilia, i sacri scudi a forma di otto custoditi dai Salii: trafugati durante le scorrerie delle invasioni barbariche? fusi da inconsapevoli artigiani medievali per altre prosaiche necessità con altro materiale di bronzo? sepolti da qualche parte sul Palatino dove sorgeva la Curia Saliorum o nel Foro, in prossimità della Regia dove c’era il sacrario di Marte? Sembra una faccenda alla Indiana Jones e potrebbe diventare un accattivante spunto narrativo.

Soltanto sei mesi fa gli scavi condotti all’interno del Palatino hanno rivelato un ninfeo di epoca augustea probabilmente edificato proprio là dove si apriva l’originario Lupercal (la grotta della Lupa che allattò Romolo e Remo) e in tal senso la stampa ha riportato entusiasticamente la notizia della scoperta epocale, benché la coincidenza logistica sia ancora allo stato di verifica.

C’è infatti ancora molto da scavare e da riscoprire. C’è ancora molto da ricordare. Ci vorrebbero più archeologi e più storici coraggiosi come Carandini. Chissà che un giorno non saltino fuori anche gli ancilia e gli altri sacra fatalia, finalmente non più leggendari talismani ma a tutti gli effetti RE ROMANIS RESTITVTA.

Mauro Del Bianco