Fernando Pessoa

Portugal Futurista‏

Portugal Futurista

Fernando Pessoa, Ultimatum e altre esclamazioni, Robin Edizioni 2006

Ed infine giunse anche all’estremo lembo d’Europa, all’ultima spiaggia di questa vecchia Europa, di fronte solo acqua, acqua ovunque, acqua comunque, interminabile acqua e nemmeno un’Atlantide, giunse il virus futurista. Portato da gente che era stata a Parigi, perché bisognava proprio portarlo di peso, il Futurismo, in Portogallo, posto che il semplice invito non sembrava sufficiente.

L’invito era uno dei tanti inviti spediti al mondo da Marinetti. Era l’inverno del 1909. Il Diário dos Açores, il quotidiano delle Azzorre (sarà anche un giornale importante, certo, ma pur sempre un quotidiano delle isole sperdute nell’Atlantico, i maggiori quotidiani di Lisbona s’erano persi l’esclusiva, e pare non ne fossero particolarmente afflitti…) aveva pubblicato, poco dopo Le Figaro, il primo manifesto di Marinetti, quello famoso dello schiaffo e del pugno, e dell’automobile da corsa “col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente [notare il genere maschile di automobile, n.d.r.] che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia“. Nessun effetto.

Tempo dopo altre cronache giornalistiche sulle esposizioni parigine dei pittori futuristi italiani tentarono di dare la sveglia all’intellettualità portoghese. Nessun effetto apprezzabile.Allmada Negreiros

Qualche altra stagione, e intanto siamo arrivati al 1915 – nel frattempo Marinetti era stato osannato dal bel mondo moscovita e pietroburghese e spernacchiato dai cubofuturisti, o almeno da alcuni di loro capeggiati da Chlebnikov, il futurismo dilagava fino al Mar del Giappone, dall’estetica s’era tuffato nella politica, era perfino scoppiata una guerra mondiale nella quale il futurismo dissanguava le sue giovani vene creative – e finalmente i lusitani dissero qualcosa di futurista: su Orpheu n°1, la rivista modernista animata da un ristretto numero di intellettuali raccolti intorno a Fernando Pessoa, appare una poesia di Álvaro de Campos (un eteronimo di Pessoa), Ode Triunfal, che di futurista ha il vestito ma non l’anima, in quanto la ridondanza verbale di grandes lâmpadas eléctricas da fábrica, rodas dentadas, engrenagens, cimento armado, maquinismos em fúria, mitragliatrici, aeroplani, sottomarini e metropolitane, si dispiega in un paesaggio emozionale che non è autenticamente futurista (il futurismo non riposa compiacendosi sulle riflessioni di sentimento, sia esso fierezza o saudade, poiché, semplicemente, non riposa mai, non è mai statico). E tale strana e détourné (traslata e riconvertita) adesione all’avanguardia del momento – “in mano a Fernando Pessoa anche il Futurismo diviene un’altra cosa“, ricorda Luciana Stegagno Picchio – è ribadita in una lettera al Diário de Noticias del 4 giugno 1915, dove Álvaro de Campos (sempre Pessoa) precisa che di intersezionismo è più corretto parlare, e non di futurismo (“Nessun futurista sopporterebbe Orpheu (…) La caratteristica principale del futurismo è l’Oggettività Assoluta, l’eliminazione dall’arte di tutto quanto è anima, sentimento, emozione, lirismo, soggettività insomma (…) il tedio, il sogno, l’astrazione sono gli usuali atteggiamenti dei poeti miei colleghi in quella brillante rivista“), al quale futurismo peraltro, annuncia, sarà dedicato il n° 2 di Orpheu (sembra una gufata, ma è un dato di fatto che con il n° 2 Orpheu chiude le pubblicazioni: che il futurismo fosse proprio così indigesto ai lusitani?…).

Nel numero 2 di Orpheu del giugno 1915, che porta la didascalia “Colaboração especial do futurista Santa Rita Pintor”, compaiono infatti quattro lavori del pittore futurista Santa Rita Pintor (al secolo Guilherme Augusto Cau da Costa de Santa Rita, nato nel 1889), l’Ode Maritima di Álvaro de Campos e due poemi di Mario de Sá Carneiro, Manucure e Apoteose, che possono essere considerati due omaggi alla tecnica parolibera e allo stile anarcotipografico dei futuristi, ma anche in questo caso: quanto c’è in essi di autenticamente futurista? Mentre infatti in Manucure troviamo un ribadire a più riprese il concetto di intersezionismo (E tudo, tudo assim me é conduzido no espaço/Por inúmeras intersecções de planos/Múltiplos, livres, resvalantes) accanto all’esaltazione della beleza futurista e di un Novo che è tuttavia guardato con sguardi pluriprospettici e quindi intersezionisti: meus olhos futuristas, meus olhos cubistas, meus olhos interseccionistas (ancora una volta il riferimento esplicito all’intersezionismo), in Apoteose sembra prevalere lo stile futurista, con adeguati collages di testate giornalistiche e marchi commerciali, e con esiti addirittura transmentali alla Kručënych: Beleza Numérica (…) nova sensibilidade tipográfica (…) Nova simpatia onomatopaica (…) beleza alfabética pura: Uu-um… kess-kress… vliiim… tlin… blong… flong… flak…, ma ancora una volta sorge il sospetto che si tratti più di un esercizio di stile o di un piacere estetico, più di sensazionismo che di sostanziale adesione allo spirito futurista. Così l’Ode Maritima di Álvaro de Campos è molto saudosa nell’immagine della dolorosa dolcezza della solitudine, della Distanza e delle partenze, del vuoto interiore, e in quanto tale assai poco futurista, nonostante Mario de Sá Carneiro l’abbia salutata come Obra Prima do Futurismo.

In definitiva, nell’ultimo numero di Orpheu, l’unico autentico futurista sembra essere il pittore Santa Rita Pintor, che presenta quattro suoi lavori, elaborati a Parigi tra il 1913 e il 1914, tre dal curioso sottotitolo simmetrico: Sensibilidade mecânica, Sensibilidade litographica, Sensibilidade radiographica, e l’ultimo, quasi a non voler dispiacere il modernismo pluriprospettico lusitano, Interseccionismo plastico.

Santa Rita, che è tornato nel settembre 1914 da Parigi, dove già si autodefiniva pintor futurista, portando con sé il futurismo e la velleità di pubblicare in Portogallo le opere e i manifesti di Marinetti, trova presto un sodale futuristicamente entusiasta in José Sobral de Almada Negreiros (1893-1970), che si definisce poeta d’Orpheu futurista e tudo, e che con il Manifesto Anti-Dantas del 1915 si scaglia con l’irruenza verbale tipica dei futuristi contro uno dei massimi intellettuali borghesi dell’epoca, Júlio Dantas, che si era permesso di tacciare i redattori di Orpheu come gente di poco cervello.Santa Rita Pintor

Sempre in questo 1915 che segna l’inizio delle ostilità futuriste in Portogallo, Santa Rita Pintor organizza insieme ad altri un congresso di giovani artisti in opposizione ai mandarini inerti della vecchia casta intellettuale portoghese.

Ma è il 1917 l’anno decisivo del futurismo lusitano. Il 4 aprile al Teatro República di Lisbona si tiene la 1a Conferência Futurista, nel corso della quale Almada Negreiros, vestendo un fato-macaco (una tuta da meccanico), declama il suo Ultimatum Futurista às Gerações Portuguesas do Século XX. Al meeting si esibisce anche Santa Rita Pintor.

Sempre nel 1917 Almada Negreiros pubblica K4 O Quadrado Azul, testo futurista composto di un unico paragrafo che si estende senza soluzione di continuità per una ventina di pagine e che con intenti satirici attacca violentemente la logica ordinaria e il saudosismo lusitano, opera edita insieme a Amadeo de Souza Cardoso, importante pittore d’avanguardia portoghese, ma anch’egli di provenienza e formazione parigina, che nel 1916 aveva allestito a Porto una grande mostra dal titolo Abstraccionismo.

Nel novembre del 1917 esce il primo numero della rivista Portugal Futurista, esce e sparisce, in quanto immediatamente sequestrato dalla polizia. E pare che il motivo del sequestro, a parte la pericolosità sociale ed il potenziale eversivo delle idee futuriste, fosse da cercarsi proprio in quell’Ultimatum scritto da Fernando Pessoa con la firma di Álvaro de Campos.

Il 1917 è un anno difficile per la giovane repubblica portoghese, già travagliata da lotte intestine, tentativi di rivolta e colpi di stato, che vedranno contrapporsi per tutto il secondo decennio del ‘900 i repubblicani e i monarchici che non si rassegnano alla fine della dinastia dei Bragança esiliati nel 1910. Ricordiamo per inciso che Pessoa e Santa Rita Pintor sono monarchici o filomonarchici, e che Almada Negreiros ha simpatie di destra che in seguito lo faranno avvicinare all’Estado Novo di Salazar.

Inoltre il Portogallo è coinvolto nella Grande Guerra a fianco dell’Intesa: nel febbraio 1917 il primo contingente portoghese è in linea nelle Fiandre. La censura di guerra era già stata instaurata nel marzo 1916, a seguito della dichiarazione di guerra della Germania, e l’Ultimatum di Pessoa contiene attacchi agli Alleati e allo stesso Portogallo giudicati dal regime democratico, che pochi giorni dopo è rovesciato dal golpe di Sidónio Pais, antipatriottici (ne contiene anche contro la Germania e l’Austria, se è per questo).

La rivista, ideata e indirizzata da Santa Rita Pintor, che compare soltanto in fotografia abbigliato con un clownesco abito a scacchi, ospita oltre a Ultimatum di Álvaro de Campos-Pessoa, citazioni dei manifesti futuristi italiani, il monologo intersezionista SaltimbancosContrastes Simultáneos di Almada Negreiros, i saggi sull’arte di Santa Rita elaborati da José Rebelo de Bettencourt e da Raul d’Oliveira Sousa Leal, poesie di Apollinaire e di Mario de Sá Carneiro, morto suicida a Parigi l’anno prima.

Come Ugo Serani precisa nell’introduzione a Ultimatum e altre esclamazioni, il manifesto di Álvaro de Campos-Pessoa ripercorre l’aggressivo tracciato stilistico dei manifesti futuristi, ma con un climax discendente, dall’invettiva verticale e scandalosa al nostalgico ammarare in riva all’Atlantico guardando l’Infinito (quando invece Marinetti concludeva lanciando la sfida alle stelle), ulteriore cifra della sostanziale originalità ed aderenza alla cultura nazionale del modernismo lusitano.

Nel 1918 la breve stagione del futurismo portoghese si estingue con la precoce scomparsa di Santa Rita Pintor seguita pochi mesi dopo dalla morte per “spagnola” di Amadeo de Souza Cardoso, e con la partenza di Almada Negreiros per Parigi.

A Lisbona rimane l’oscura solitudine di Pessoa che nel suo ideare eteronimi, finzioni, lettere a direttori di giornali mai spedite, traduzioni mai pubblicate, nel suo teorizzare la necessità dell’individuo multiplo ed architettare perfino la sensazionale (e bugiarda) scomparsa nella Boca do Inferno del mago inglese Aleister Crowley, anticipa tematiche e pratiche d’intonazione situazionista se non addirittura blissettiana.

Mauro Del Bianco

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ARCIPELAGO PESSOA

Alla deriva tra le carte di Fernando Pessoa

Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares,

Universale Economica Feltrinelli,

sesta edizione marzo 2003

Fernando António Nogueira Pessoa, impiegato d’azienda con mansioni di traduttore, celibe, muore per crisi epatica all’ospedale São Luís dos Franceses di Lisbona il 30 novembre 1935, all’età di 47 anni. Come direbbe uno dei tanti, comuni e anonimi necrologi che scivolano sotto il nostro sguardo disattento: lo piangono gli amici e i parenti tutti. Vale a dire che la sua storia, quello che Fernando è stato e quello che ha fatto, rimarrà nella memoria circoscritta e sempre più opaca di un ristretto numero di persone, fino ad estinguersi nel flusso indistinto della vita transitata per questo mondo. È quello che accade comunemente alle persone comuni. E Fernando Pessoa era, per il mondo, una persona affatto comune, così banale che se lo incontravi per strada manco te ne accorgevi. Sennonché nella sua casa di Rua Coelho da Rocha n°16, che oggi è un museo, per una di quelle inspiegabili strategie del destino, qualcuno si preoccupa di salvare le sue carte impacchettate in un baule di biancheria e di preservarle alla Biblioteca Nazionale di Lisbona. E se Fernando Pessoa oggi vive ancora nel mondo letterario e nella nostra memoria è per quel “baule pieno di gente”, secondo la bella espressione di Antonio Tabucchi, se Pessoa è considerato in patria e all’estero il maggior poeta portoghese del Novecento o addirittura il più grande dopo Camões, è sempre per via di quel baule, se gli hanno fatto perfino una statua al caffè A Brasileira, è ancora per quel baule (e pensare che Pessoa preferiva il caffè Martinho da Arcada al Terreiro do Paço e che, come testimonia Ophélia Queiroz, l’unica donna che per breve tempo ha alleviato l’infelicità della sua vita, alla Brasileira lui non ci poteva andare, non poteva nemmeno passare sul marciapiede davanti al caffè, perché i frequentatori avrebbero bastonato il monarchico conservatore che c’era in lui).
Chi era Fernando Pessoa nel mondo della cultura prima del 1942, anno in cui vennero pubblicate le sue prime opere tratte dal baule? Un intellettuale conosciuto su alcune riviste letterarie, anche pregevoli ed autorevoli, ma limitate a specialisti del settore, che in vita aveva pubblicato alcune raccolte di poesie scritte in inglese (a sue spese) e un unico poema, Mensagem, redatto per partecipare ad un concorso (non vinto) e stampato nel 1934, un anno prima della morte. Praticamente niente a confronto di quello che c’era nel baule, un’arca domestica per biancheria: 27.543 documenti, ripartiti in fascicoli o sciolti, manoscritti (la stragrande maggioranza), dattilografati e misti, quaderni, carta riciclata di lettere commerciali e bozze di appunti, stampe di quanto già pubblicato, foglietti, taccuini, tutto il possibile armamentario di carta su cui Pessoa vergava il fiume inesauribile della sua fitta scrittura.
Nel 1942 i curatori cominciarono ad estrarre alcuni scritti e a pubblicarli, negli anni ’60 è iniziata la catalogazione ufficiale di tutti i documenti del Fondo Pessoa presso la Secção de Espólios della Biblioteca Nazionale di Lisbona, nel 1982 viene pubblicato per la prima volta in Portogallo il Livro do Desassossego por Bernardo Soares, il Libro dell’inquietudine, l’unica opera di narrativa di una certa consistenza (esclusi quindi i racconti brevi) scritta da Pessoa lungo un ventennio, dal 1913 al 1935, e soprattutto “non pronta” per la pubblicazione, come tantissimo altro materiale del baule: c’era in effetti un fascicolo con l’indicazione autografa Livro do Desassossego, ma a questo i curatori hanno aggiunto altri fogli ritenuti collegati in qualche modo al Livro, secondo criteri sicuramente apprezzabili, ma altrettanto sicuramente ipotetici, dato che Pessoa non ha lasciato alcuna idea organizzativa del testo e nel suo caso ogni ipotesi di “ordine” lascia disorientati, alla deriva in un oceano imprevedibile dove le zattere e le boe di salvataggio sono costruite artatamente dai posteri, per non naufragare. Paradossalmente siamo noi ad aver bisogno di un “ordine” che Pessoa ha ritenuto invece non necessario, o non ha fatto in tempo a ritenere necessario.
Chi è infatti Fernando Pessoa? Possiamo accontentarci di definirlo sommo fingitore? Dove finisce la finzione letteraria, una finzione non meramente di mestiere come lo è quella di tutti gli scrittori, ma una finzione addirittura ontologica, come rileva Antonio Tabucchi, una finzione che diventa vizio assurdo e che investe persino i sentimenti e l’amore, e dove inizia la verità della sua vita? È possibile altresì effettuare questa distinzione nel caso Pessoa? La dichiarata angustia di vivere è reale o inventata, è sentita o immaginata, è nelle vene, nell’anima e nel cervello o è soltanto un’estetica di carta? Per quanto si legga, si confronti, si analizzi, non c’è una risposta definitiva al mistero Pessoa.
Sul tema possono aiutarci Bernardo Soares e la sua inquietudine. Bernardo Soares è uno dei tanti eteronimi di Pessoa (eteronimo: alter ego con una propria biografia, una personalità, un proprio stile, perfino con un oroscopo personalizzato redatto dallo stesso Pessoa che si interessava anche di esoterismo e astrologia, un’esistenza che potrebbe essere vera e che Pessoa tale considerava o fingeva di considerare, dal momento che non trovava improprio scrivere lettere ai suoi eteronimi, affrancarle e spedirle, inventare le loro firme e calligrafie, far stampare biglietti da visita con i loro nomi e professioni) e Il Libro dell’inquietudine è un diario, articolato nell’edizione italiana in 259 paragrafi scelti (ma l’edizione portoghese ne ha di più) dove emerge tutto il male di vivere di Soares/Pessoa, il sentirsi incongruenti, inadeguati, “incompetenti verso la vita” secondo la definizione di Jacinto do Prado Coelho, senza alcuna speranza di integrazione nel mondo in cui ci si è trovati a vivere.
Bernardo Soares è il più isolato fra tutti gli eteronimi maggiori, non partecipa al dibattito culturale sulle riviste, non firma alcun pezzo letterario, non entra in polemica, non entra nemmeno nella vita di Pessoa (come Álvaro de Campos che si mette in mezzo nella storia d’amore con Ophélia), esiste solo in virtù del suo Livro.
Bernardo Soares è un impiegato contabile, solo che più solo non si può, talmente solo che il suo diario è la cronaca dei sentimenti, delle impressioni, delle riflessioni, delle meditazioni, delle insonnie del soggetto Bernardo Soares senza alcun rapporto con altri soggetti, se non occasionali, generici e anonimi, e che pertanto diventano oggetti del pensiero. Introspezioni dunque derivanti dallo sguardo sul mondo ed elaborate in completa solitudine per la solitudine, una visione solipsistica ed autarchica, ma senza slanci di superomismo, bensì di disperazione nichilista, a tratti fredda e lucida, a tratti accorata.
Tutto ciò potrebbe essere il vero ritratto di Fernando Pessoa. Potrebbe. Si potrebbe prendere come cardine dell’ordine pessoano, limitatamente alla psicologia, il Bernardo Soares (dato che la stesura del Livro in forma diaristica ha tenuto occupato Pessoa per metà della sua vita) e fargli ruotare attorno tutto il resto. Avrebbe un senso. Ma la coerenza non è la verità. E probabilmente mettendo al centro un altro eteronimo, il tutto acquisterebbe un senso, un nuovo senso, non meno coerente del precedente: Octavio Paz infatti considera l’eteronimo Alberto Caeiro il cardine dell’ordine pessoano.
Forse sta in questo la grandezza di Fernando Pessoa (progettata o semplicemente accaduta?), l’averci lasciato, con la “civetteria” di volersi postumo sostiene Zanzotto, un bagaglio di letteratura senza un ordine estrinseco, ma con un ordine intrinseco fondato sull’essenza stessa della sua finzione.
Probabilmente, ma appunto è un’ipotesi fra le tante, il dramma umano di Pessoa, e al tempo stesso l’origine della sua grandezza letteraria, è il sentimento di inadeguatezza che l’ha accompagnato per tutta la vita, il sentirsi sempre e comunque a disagio nel mondo, l’incapacità di vivere, il ritenersi incompetente a vivere, per cui anche l’amore, percepito all’inizio entusiasticamente e, perché no, autenticamente, diventa alla lunga lo specchio del proprio fallimento ad essere quello che tutti gli altri sono (o appaiono essere), un sentirsi fuori posto anche fra le braccia dell’amata per una propria ineluttabile, autolesionistica disistima di se stesso.
Não sou nada. Non sono niente.
Nunca serei nada. Non sarò mai niente.
Não posso querer ser nada. Non posso voler essere niente.
(da Tabacaria)


Pensiamo a tutto quel baule pieno di letteratura che aspettava solo di essere pubblicato: perché Pessoa non ci ha mai messo mano, nonostante le buone intenzioni proclamate in più di una lettera, limitandosi ad accumulare incompiuti su incompiuti (incompiuti devono considerarsi tutti quegli scritti che uno scrittore non ha interrotto con la pubblicazione, atto provvisoriamente finale di una creazione che altrimenti sarebbe infinita, e pertanto suscettibili di ulteriori modifiche e integrazioni, e quindi incompiuti)? Gli mancavano forse le possibilità editoriali, come ad un qualunque esordiente o scrittore dilettante? Non credo: c’erano riviste che lo salutavano come maestro, è stato un generatore di esperienze letterarie e il diffusore

dell’avanguardia europea in Portogallo, la stampa lisbonese lo intervista sul futuro politico portoghese dopo il golpe dei militari del 1926, segno che qualcosa poteva contare, se solo l’avesse voluto, se solo avesse posseduto quella determinazione volontaristica che ha fatto e continua a fare di autori, anche di basso profilo e certamente non all’altezza di Pessoa, personaggi di prima grandezza nel mondo delle lettere.

Pensiamo alla sua esistenza quotidiana così banale e mediocre, ritagliata intenzionalmente nella sottostima delle sue capacità, nell’esilio e nella solitudine. Pensiamo al flagrante delitro, al piacere del bere che divenne abuso fino a condurlo alla tomba. Pensiamo infine alla presenza nella sua poetica di un dolore che si veste di ironia e di un’ironia che si spoglia nel dolore, per immaginare che la finzione fosse un rimedio, palliativo al suo non essere e via di fuga per il suo non voler essere, la finzione dunque come mezzo e non come fine, come un’altra vita inventata per sopravvivere alla vita, un diversivo in attesa della fine, una finzione divenuta

così imprescindibile e interiormente goduta da rasentare con l’andar del tempo la follia, lo scindersi in una folla di personalità dell’uomo che la beffa del destino ha voluto si chiamasse Pessoa (in portoghese “pessoa” significa “persona”), dell’uomo che tra i suoi tesori di estetica ci ha lasciato una bellissima giustificazione della letteratura:
la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta.

O che una vita soltanto non basta.

Mauro Del Bianco

Lettere alla fidanzata di Fernando Pessoa

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Lettere alla fidanzata di Fernando Pessoa

 

Collana Piccola Biblioteca Adelphi, pag.128

 

 

 

 

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Si chiama Ofelia Queiroz, ha diciannove anni, è fresca, carina, spigliata e, contro la volontà dei suoi genitori, ha deciso di trovare un impiego.

Conosce il francese, sa scrivere a macchina e sa anche qualche parola di inglese.

Viene assunta in una piccola azienda commerciale.

Il primo giorno conosce un collega. E’ un uomo vestito tutto di nero, con gli occhiali, un cappello con la falda alzata ed una cravatta a farfalla.
E’ Fernando Pessoa, il più grande poeta portoghese del ‘900, ed ha già perso la testa per lei.Iniziano così le schermaglie amorose fra i due due. E’ quello che in portoghese si chiama il namoro, il periodo in cui si manifesta quell’attrazione reciproca che poi darà luogo al fidanzamento vero e proprio

Il poeta è di diversi anni più vecchio, ma non si sottrae al gioco degli sguardi, dei baci in punta di labbra tra una scrivania e all’altra, dei bigliettini. I due si scambiano anche una infinità di lettere d’amore.

Lettere che non ci si aspetterebbe dal Poeta dell’Inquietitudine: piene di affettuosità di tipo adolescenziale, di piccole ritrosie, di grandi slanci, perfino di giocosità puerili.

Che dire di questa lettera del maggio 1920?

“Bebè piccino del Nininho-ninho,

Oh!

Ti scrivo questa letteina per dire al Bebè piccino che mi è piaciuta tanto la sua letteina.

Oh!

Ed ero tanto triste pecchè non avevo il mio Bebè vicino a dargli tanti cicini.

Oh! Questo Nininho è così piccininino! Oggi questo Nininho qui non viene a Belém pecchè non sa se funzionano i tram e deve essere qui alle sei. Domani, se tutto va bene, il tuo Nininho esce di qui alle cinque e mezzo.

Domani il mio Bebè appetta il suo Nininho, sì? A Belém, sì, sì?

Cicini, cicini e cicini

Fernando”

Per Pessoa, Ophelia rappresenta un porto sicuro e stabile, una donna che lo stima e gli dà attenzione, un essere sensibile che lo ama così com’è, senza chiedergli di essere diverso, senza pretendere di cambiarlo.

Il namoro è un momento magico, che il Poeta vorrebbe prolungare all’infinito, proprio perché a questo status di fidanzato, oltre che, naturalmente, al carattere paziente e affettuoso di Ophelia, sa di dovere la sua beatitudine: quella di uomo che coltiva intensamente la sua passione per la letteratura mantenendo anche un sottofondo di dolcezza nella sua vita privata.

Ma Pessoa sa anche che, il giorno in cui al namoro facesse seguito il matrimonio, Ophelia pretenderebbe un ruolo quanto meno di pari dignità rispetto alla sua Opera, chiedendo di accentrare su di sé una passione che il Poeta sa di poter indirizzare esclusivamente verso la letteratura

Nel dicembre del 1920 Ofélia decide di mettere un punto, stanca di essere presa in giro dall’insicurezza surreale del poeta.

“Una donna che crede alle parole di un uomo, non è che una povera idiota; se un giorno vedeste qualcuno che finga di portare alle labbra una bevanda avvelenata a causa sua, rovesciategliela velocemente in bocca perchè libererà il mondo da un impostore in più.”

Conclude così la sua ultima lettera.

D’altronde quale donna di buon senso ( e Ophelia sicuramente lo era!) non diffiderebbe degli slanci amorosi di chi ha scritto una poesia come quella, ormai famosissima, che riporto qui sotto?

Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore
devono essere
ridicole.
Ma, dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere d’amore
ad essere
ridicoli.

Filippo Cusumano