scrittori

Ma come può un Dio buono permettere questo mondo di sofferenza e crudeltà?

copertina-dei-copia

Finalmente il libro che racconta sistematicamente come religioni e filosofie abbiano tentato di rispondere a tale domanda dall’antichità ai giorni nostri:

ALTRI DÈI, di Andrea B. Nardi, Eumeswil Edizioni


(http://www.eumeswiledizioni.info/index.php?page=shop.product_details&flypage=shop.flypage&product_id=45&category_id=14&manufacturer_id=0&option=com_virtuemart&Itemid=43).

Un viaggio fra teorie e pensieri misconosciuti, un linguaggio affascinante, un’avventura unica nel panorama editoriale contemporaneo del noto romanziere e saggista (www.andreanardi.it).

Ordinabile online qui

oppure nelle Librerie Feltrinelli.

Pubblicità

PRESTO, UN LIBRO PER NATALE!

libro-delle-meraviglieBéla Balázs, Il libro delle meraviglie, Tascabili e/o 1994

Erano tre anni che il tataro di Turania, come lui stesso si definì durante il suo primo viaggio a Berlino da studente, quando correvano tempi decisamente migliori, poiché erano almeno ignari di quanto stava per accadere, che quel tataro, insieme a tanti altri turanici fuggiti dall’Ungheria horthysta, svernava nei dintorni di Vienna, in lise stanze d’esilio appannate dall’esile luce d’autunno. E come se non bastasse la proscrizione, anche la sua vena poetica sembrava esiliata dall’urgenza di un proletarismo letterario, e pure la lingua ungherese ne soffriva, soppiantata dal tedesco.

Fu come in una bella favola, dunque, che quel giorno d’ottobre si presentò da lui Marie Stisny, segretaria della signora Schwarzwald, recando venti fotografie di venti acquerelli cinesi, dipinti da Marietta Lydis, una miliardaria greca con ambizioni artistiche che voleva confezionare un libro per Natale e cercava uno scrittore per i testi. Ogni acquerello doveva ispirare una storia e c’erano soltanto tre settimane di tempo per scrivere, giacché la signora Lydis voleva assolutamente pubblicare entro Natale. Balázs Béla accettò. E quel grigio ottobre d’esilio, divenne uno splendido ottobre viennese.

balazs_belaBalázs Béla scrisse a nastro (quando invece ogni suo scritto era sempre stato ponderato a lungo, limato, raffinato meticolosamente), scrisse a nastro in tedesco (la sua vena creativa e poetica si esprimeva piuttosto in magiaro: “Solo in ungherese sono in grado di cantare” confessò al suo diario), scrisse a nastro in tedesco sedici fiabe (nonostante stesse abbandonando la lirica per dedicarsi alla saggistica cosiddetta impegnata), scrisse a nastro in tedesco sedici fiabe di ambientazione cinese e di ispirazione taoista che prendevano spunto dalle illustrazioni della Lydis, rispettando i tempi di consegna. Il libro venne pubblicato con il titolo Der Mantel der Träume (Il manto dei sogni) nel 1922. Successivamente, nel 1948, fu pubblicata l’edizione ungherese, Csodálatosságok könyve (Libro delle meraviglie) sul cui testo è stata condotta la traduzione italiana a cura di Marinella D’Alessandro edita dalle Edizioni e/o.

Balázs Béla è un nome d’arte diventato poi ufficialmente anagrafico, sostituendo l’originario Herbert Bauer, appellativo di colui che era nato a Szeged il 4 agosto 1884 in una famiglia ebraica di origini tedesche perfettamente assimilata all’ambiente magiaro. Herbert/Béla fino agli anni dell’esilio si sentì profondamente ungherese nell’anima, un tataro di Turania appunto, attratto dalla cultura e dalla musica autenticamente magiare che insieme ai giovani Zoltán Kodály e Béla Bartók andava esplorando nelle campagne ungheresi durante le vacanze scolastiche (per capire la portata di queste esplorazioni musicali, bisogna sapere che fino agli studi di Kodály e Bartók si pensava che la musica ungherese fosse soltanto quella suonata dagli zigani nei locali di intrattenimento cittadini: nemmeno Ferenc Liszt, tanto per dire, sapeva esattamente cos’era la vera musica popolare ungherese).

Se mi tolgono da sotto i piedi la terra ungherese, troverò dimora sulle nubi della musica e della lingua ungheresi. Le parole si addenseranno sotto di me fino a trasformarsi in un terreno compatto: e quel suolo sarà la mia patria” scrisse Balázs nel suo diario.

Occorre però precisare che Balázs era un uomo dalle molteplici attitudini intellettuali e artistiche, spesso vissute conflittualmente e senza mai riuscire ad aderire completamente ad una sola di esse. Così in lui troviamo da una parte la vocazione poetica magiara che lo avvicina a Ady Endre, agli intellettuali della rivista Nyugat e a Bartók, dall’altra l’approccio filosofico che lo fa sodale di Lukács; da un lato l’idealismo tedesco e il simbolismo, la letteratura fantastica, dall’altro il marxismo e l’internazionalismo proletario, la letteratura rivoluzionaria.

Fino alla Prima Guerra Mondiale Balázs continuerà a credere nella letteratura come incondizionato valore estetico e come ragione di vita, benché già a partire dai suoi esordi sulla rivista Nyugat appaiano le prime incomprensioni, in particolare con Babits, un insieme di malintesi e dissensi con il mondo intellettuale ungherese che gli farà perdere progressivamente la fiducia nel suo sentirsi tataro di Turania e nell’essere accettato come tale dai veri tatari di Turania. In questo periodo (1908 – 1914) Balázs coltiva ancora la vena fantastica, scrivendo favole e atti unici per Bartók, come Il castello del principe Barbablu e Il principe di legno. Ma già si pongono le premesse per la successiva adesione al marxismo che si realizzerà compiutamente durante la breve estate della Repubblica dei Consigli.

“(…) man mano che il suo credo politico si traduceva in canoni estetici, iniziava a risentirne la qualità dei suoi scritti: la sua delicata vena poetica era mortificata dal pathos eroico delle ultime liriche, mentre un letale schematismo si sovrapponeva lentamente alla labirintica duttilità dei suoi precedenti scritti in prosa. Col passare del tempo questo conflitto si esasperò a tal punto che nel giro di un lustro Balázs abbandonò – per quasi un ventennio – sia la lingua ungherese che ogni ambizione puramente letteraria” (Marinella D’Alessandro, Il manto delle fiabe. Appunti sulle metamorfosi di un libro, Appendice a Béla Balázs, Il libro delle meraviglie, cit.).

Nell’effimera Repubblica dei Consigli (23 marzo – 1° agosto 1919) si agita un frenetico fermento culturale, tipico delle situazioni rivoluzionarie, che vede improvvise e decise adesioni al marxismo (come nel caso di Lukács) o improbabili ed estetizzanti consensi alla rivoluzione socialista (come nel caso di Molnár Ferenc, l’autore de I ragazzi della Via Pál), ma anche una ricca produzione cinematografica, circa trenta film girati in soli quattro mesi (il circa è d’obbligo in quanto si calcola che il 95% dei film muti ungheresi sia andato irrimediabilmente perduto), con nomi destinati a diventare celebrità della celluloide come Sándor Korda (responsabile del Direttorio del Cinema nel governo rivoluzionario), un certo Mihály Kertész (noto in seguito negli States come Michael Curtiz, il regista che nel 1942 girerà Casablanca) il quale realizza un film di propaganda rivoluzionaria, Jön az öcsém, e Liliom (incompiuto) tratto dall’opera di Molnár, nonché Béla Lugosi (presidente del sindacato attori) che negli USA diventerà celeberrimo, una vera icona, nel ruolo di Dracula, e anche cineasti destinati a scomparire nell’anonimato, come Pál Sugár.

Balázs, che negli anni dell’esilio acquisterà fama e prestigio come specialista di estetica cinematografica, in questo convulso periodo, quale appartenente al Direttorio degli Scrittori, si occupa della riorganizzazione dei teatri ungheresi, ma non appena il governo rivoluzionario lancia un appello patriottico a tutti i magiari per difendere i confini violati da rumeni e cecoslovacchi, anche Balázs si arruola nell’armata rossa comandata dal valente colonnello Aurel Stromfeld che lancia una vittoriosa offensiva in Slovacchia e blocca i rumeni tra la Drava e il Tibisco. Poi la sconfitta, il terrore rosso, l’occupazione di Budapest da parte dell’esercito rumeno, l’arrivo di Horthy, il terrore bianco e la condanna in contumacia, la fuga in Austria.

È dunque in questo contesto di sconfitta non solo militare e politica, ma addirittura esistenziale, in questo limbo grigio di esilio dove Balázs ripensa la sua estetica e la sua vita, che prendono corpo le fiabe taoiste. Quasi un divertimento, una distrazione, una breve parentesi di ricordi, di ritorno alle origini, proprio nel momento in cui tutto sta cambiando o è già cambiato, uno sguardo ironico e malinconico ai temi e alle passioni giovanili, alle letture di Li T’ai-Po e di Lao-Tse, alla teosofia, ai balletti di Ruth Saint Denis, ad un certo affascinante orientalismo.

“Le fiabe cinesi di Béla Balázs, così immediatamente godibili, fresche e trasparenti, a una lettura più attenta si rivelano dunque un tardivo e nostalgico compendio delle sue tematiche giovanili” (Marinella D’Alessandro, cit.).

In queste fiabe, dove il colorito locale è ritenuto da Balázs elemento imprescindibile per rendere suggestive le fiabe stesse, la forma diventa contenuto, lo stile di racconto traduce lo spirito fiabesco attraverso espedienti noti al filone fantastico (quali le riprese con varianti, le ripetizioni circolari, i chiasmi, ecc.), fino a realizzare autentici gioiellini stilistici come il seguente:

Li T’ai-Po, il poeta (…) viveva circondato dalla massima venerazione (…) L’imperatore gli faceva indossare le sue vesti più belle, e la più bella delle imperatrici gliele toglieva di dosso” (Li T’ai-Po e il ladro).

È un libro della nostalgia che comprende storie spesso nostalgiche e che nostalgicamente Balázs riprende e migliora nel 1948 con l’edizione ungherese, una delle sue ultime fatiche letterarie prima di morire, quando ancora una volta tutte le illusioni erano miseramente cadute, calpestate dallo stalinismo, tradite da colui nel quale si confidava amicizia e affinità spirituale (Lukács), schernite da un gusto comune addomesticato e perciò stupido, ancora una volta nelle lise stanze d’esilio, e per di più nella propria stessa patria. Non restava che un manto di sogni, come nella fiaba omonima, nel quale ammirare la perfezione di un universo desiderato e mai realizzato, o forse semplicemente irrealizzabile.

Mauro Del Bianco

REPARTO MACELLERIA a Colle Val d’Elsa ( newsletter Associazione Nausica )

-Domani, 26 novembre, REPARTO MACELLERIA a Colle Val d’Elsa

– Guarda il video di Reparto macelleria
– Valutazione del potenziale narrativo per partecipare alla Scuola di Narrazioni

Domani, 26 novembre, REPARTO MACELLERIA a Colle Val d’Elsa

Domani, mercoledì 26 novembre alle ore 11 a Colle Val d’Elsa (Si), presso il teatro dei Varii, la Scuola di Narrazioni presenta lo spettacolo Reparto macelleria -tratto da un racconto di Marco Vichi– con Francesco Botti attore unico sul palcoscenico. Storia di un ex partigiano che dopo molti anni ritrova il suo torturatore fascista, Reparto macelleria è un viaggio nella memoria e negli orrori della guerra e del fascismo, fino alla scelta finale del protagonista che costituisce, forse, l’ultima rivincita su ciò che è stata la differenza tra coloro che imponevano la loro volontà con crimini e violenz a e coloro che si sono opposti ad essa, fino al rischio della morte.
Tutto ciò fornirà la massima che accompagnerà il protagonista, dopo quella tragica esperienza, fino al letto di morte: “io non sarò mai come loro”. Lo spettacolo è inserito nel cartellone di Leggere è volare. Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare, ingresso gratuito. Per informazioni 0575 380468 e info@narrazioni.it
Reparto macelleria

Guarda il video di Reparto macelleria
Nel sito di Nausika potete vedere e scaricare un estratto di Reparto macelleria, ripreso dallo spettacolo al teatro Pietro Aretino di Arezzo lo scorso aprile. Francesco Botti in scena interpreta tutti i personaggi della storia, in un viaggio nella memoria e nell’orrore della guerra.
Reparto macelleria

Valutazione del potenziale narrativo per partecipare alla Scuola di Narrazioni
A pochi giorni dalla scadenza per le iscrizioni – il 2 dicembre prossimo – al primo anno della Scuola di Narrazioni è ancora disponibile il servizio gratuito di valutazione del potenziale narrativo.

Una consulenza a cura di Simone Giusti per avvicinare le persone alla scuola e per convincere gli indecisi sulle proprie potenzialità narrative. Per la consulenza scrivere a corsi@narrazioni.it
Scuola annuale di Narrazioni

A Natale regala un audiolibro con le fiabe da tutto il mondo

Prodotto da Nausika – Scuola di Narrazioni
Con le voci di Francesco Botti, Gianni Bruschi e Stella Gori

Per un regalo originale e intelligente
Informazioni allo 0575 380468 e info@narrazioni.it

Nausika consiglia

Gli scheletri di via Duomo di Stefania Nardini

libro-nardiniGli scheletri di via Duomo

di Stefania Nardini

Tullio Pironti Editore

Stefania Nardini, penna eclettica, donna inquieta e girovaga, mente sensibile, sforna questo suo terzo romanzo offrendo al panorama nazionale un squarcio fascinoso sulla sua Napoli, tinta di noir. Come sempre, però, qui siamo interessati non solo alle storie, ai soggetti, che peraltro la Nardini crea col rigore di smaliziata arte professionistica, elemento rarissimo nel contemporaneo campionario di narrativa italiana. Qui, si diceva, siamo interessati in misura addirittura maggiore al linguaggio, ed è proprio a questo punto che esplode – è proprio il caso di dirlo – la bravura dell’autrice, romana di nascita, ma partenopea (e marsigliese, e chissà che altro) per adozione. Le sue frasi sono bombe a mano, e come giustamente chiosa Antonio Ghirelli, «Stefania scrive con la dinamite e impagina a modo suo, strapazzando il periodo ma esaltando la sintassi e la lingua».

Uno squisito esempio di come si possa fare ottima narrativa, lavorando su un soggetto avvincente e al contempo sostenerlo tramite uno stile d’arte.

libro-nardini-retro

Andrea B.Nardi

Tentativo a manovella

canzoni-a-manovellaTENTATIVO A MANOVELLA

Matteo Codignola, Un tentativo di balena, Disegni di Roberto Abbiati, Adelphi 2008

Per chi sa ancora incantarsi al luna park delle meraviglie ingenue del passato (tipo: organetti, giochi di latta, caleidoscopi, grammofoni, marionette, lanterne magiche, cinema muto, grafica liberty) e tuttavia cerca nella letteratura o sul proscenio l’inedito che sappia essere anche poesia, se ama le Canzoni a manovella di Vinicio Capossela e il Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti, Un tentativo di balena è il libro che fa per lui.

È un libro insolito, per cui si fa presto a dire cosa non è, non è semplice invece stabilire a quale genere letterario appartiene. Non possiede infatti la razionalità geometrica del saggio, né la vaga irrealtà del romanzo, nemmeno la linearità descrittiva della cronaca, eppure contiene saggistica, narrativa e cronaca. E non solo. Ci sono anche disegni. E non solo. C’è anche la musica (per quanto occorra immaginarsela nel suo sviluppo melodico).

È un tentativo di libro, inteso come esperimento letterario che riproduce su carta una Wunderkammer, una stanza/scatola delle meraviglie, con un itinerario che, pur avendo quale stella di orientamento un classico della letteratura come Moby Dick e quale tema di fondo la possibilità/tentazione di ridurre all’indispensabile un qualunque testo, si snoda lungo tappe e percorsi insoliti o poco frequentati. Si parte infatti con i romanzi da tre righe di Félix Fénéon per arrivare al racconto di una rappresentazione teatrale che dura un quarto d’ora (quattordici minuti e quarantadue secondi, per essere precisi), ideata, diretta ed interpretata da un artista originalissimo che si chiama Roberto Abbiati. Tra la partenza e l’arrivo c’è posto per il citato Fénéon, per i Minimal Poems di Aram Saroyan, per un romanzo da una riga di Stephen King (“L’ultimo uomo rimasto sulla Terra è chiuso nella sua stanza. Bussano.”), per le vicissitudini polari di Rockwell Kent, illustratore del Moby Dick in bianco e nero, per le fisime di John Huston mentre girava il film tratto dal romanzo di Melville, per un filmato di Orson Welles che recita Moby Dick in chiave minimalista (22 minuti, monologo, fondale vuoto con riflessi d’acqua provocati da specchi), per Il cacciatore di immagini di Charles Simic, per la casa dell’astronauta, un’installazione di Ilya Kabakov nota come L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento, per un cortometraggio del muto tratto da un romanzo fantascientifico di Wells, per ricucire una biografia di Roberto Abbiati rappezzata di aneddoti delle sue esperienze artistiche, biografia puntinista che profila un personaggio da genere narrativo: se Roberto Abbiati non esistesse veramente (per il lettore ignaro la prima prova della sua esistenza sono le sue opere teatrali citate in copertina, oltre ai disegni presenti nel libro) lo crederesti un’invenzione dell’autore, una figura letteraria.

La struttura del libro fa pensare ad un meccanismo di scatole cinesi. La scatola principale (il libro in sé) ne contiene altre due: un’introduzione divagante e ricca di citazioni, e lo spettacolo Una tazza di mare in tempesta, composto da ventuno quadri della durata minima di ventiquattro secondi e massima di un minuto e quaranta secondi, ciascun quadro commentato da Matteo Codignola con riferimenti all’originale di Melville, quindi con intertesto (altra scatola), e che si svolge all’interno di una stanza/scatola di quattro metri per due metri e sessanta, alta due metri e dieci centimetri, e dentro la stanza c’è una credenza/scatola che contiene: foto di bastimenti, conserve di mare (barattoli di vetro colmi di conchiglie), scure e pialla in posa da profilo di balena, pipa/trealberi, appendi-abiti/pennone-parocchetto-gabbia-belvedere, schiumarola d’oro, violino con lampadine e morna incorporata, concertina a tre mani, molletta-da-bucato/trealberi, scolapasta/scialuppa-di-baleniera, balene di rame e in filo di ferro, statuine di terracotta, scatola di caramelle di latta gialla e rossa.

Questi infatti sono gli oggetti, in prevalenza di origine domestica, riconvertiti all’immaginario che Abbiati adopera, opportunamente modificati/integrati/installati/illuminati, per evocare atmosfere da romanzo marino, da fantastico viaggio a balene che concentra le ottocento e passa pagine di Melville in una rappresentazione di un quarto d’ora scarso.

Nella stanza/scatola che è tutto il teatro disponibile, sulle assi del pavimento volutamente flettenti e cigolanti come quelle del ponte di una nave, ci sono quindici sgabelli per altrettanti spettatori

Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto (R.L. Stevenson, L’isola del tesoro)

Quindici uomini sono andati, se li è presi la morte secca (Vinicio Capossela, Canzone a manovella)

Quindici uomini, quindici uomini e quaranta teste di porco (Vinicio Capossela, Brucia Troia)capossela

che vedono spalancarsi le finte finestre alle pareti come ribalte dove si svolgono i quadri della rappresentazione, quindici spettatori ammutoliti che piombano nel buio tagliato da lame di luce azzurra conficcate tra le assi del ponte della nave, o che alzando lo sguardo vedono sopra le loro teste un cielo blu costellato da una marea di lumini, mentre una cima che pesca in un secchio di ferro scorre rumorosamente simulando le funi degli arpioni tese da un’immaginaria Moby Dick che si tuffa e riemerge e sprofonda trascinando l’equipaggio nell’abisso.

E il comandante avanza

e niente si può fare

vuole una morte

la vuole affrontare.

(…) Il comandante è pazzo

e avanza nel peccato

e il demone che è suo

adesso vuole mio.

(Vinicio Capossela, Santissima dei Naufragati)

C’è anche la musica? Sì, in questo dramma oceanico c’è anche la musica

(…) i libri, le scialuppe

i manoscritti, le caldaie

l’orchestra ci ha suonato Charles Trenet

e sulle note di La Mer

nell’acqua scura si affondò

(Vinicio Capossela, L’affondamento del Cinastic)moby

un concertino di concertina a tre mani (due sono sicuramente di Abbiati, poi Codignola fa notare che ce n’è una terza che gli regge il mento in una posa di pensosa malinconia) e una morna di Capo Verde esalata da un violino illuminato.

Nel cielo di cenere affonda il giorno dentro l’onda (Vinicio Capossela, Morna)

Roberto Abbiati è l’unico interprete dei diversi ruoli del dramma, una tela cerata o un berretto da marinaio, un certo tono di voce, uno sguardo, una luce sparata dal basso o di profilo bastano a caratterizzare il personaggio rappresentato. Sparizioni e apparizioni, invenzioni e sorprese: se si considera il materiale utilizzato, imprevedibile rispetto alla sua originaria destinazione d’uso e di fattura semplice, ci troviamo di fronte, come scrive Codignola, ad una sorta di illusionismo cinematografico che ricorda le pellicole preistoriche degli anni eroici della macchina da presa, le quali vanno apprezzate per l’ingenua meraviglia che sanno ancora destare, non diversamente da una fiera di circensi da strada o dallo spettacolo dei fuochi d’artificio.

L’emozione è tutto nella vita (L.F. Céline, Guignol’s Band)

L’illusione è tutto nella vita (Vinicio Capossela, Nel blu)

Ah, dimenticavo: l’interpolazione dei testi di Stevenson, Céline e soprattutto di Vinicio Capossela nel libro di Matteo Codignola non c’è, ma potrebbe essere un’idea. Narrano infatti di aver visto Vinicio aggirarsi dietro le quinte dei suoi concerti con un libro in mano, e sulla copertina del libro c’era scritto:

Moby Dick.balen

serenata di capodoglio

per il mio cuore chiuso sott’olio

a spasso in mezzo al mare

senza un messaggio da riportare

solo per gli occhi di una sirena

con la coda di una balena.

(Vinicio Capossela, Canzone a manovella)

Mauro Del Bianco

TIBET – Mito e Storia

tibet

TIBET – Mito e Storia

di Pietro Angelini

Edizioni: Stampa Alternativa

Formidabile questo nuovissimo lavoro della coraggiosa e infaticabile casa editrice Stampa Alternativa, sempre attenta a tematiche stimolanti. Tibet – Mito e Storia è un racconto d’avventura sotto la veste di saggio magico, un modo nuovissimo d’analizzare momenti di storia e di socialità attraverso una narrazione personalissima, fascinosa, incantata, ma al contempo strettamente scientifica nelle sue conclusioni. Un approccio originale ed efficacissimo per parlare seriamente del Tibet al di là delle farneticazioni new age da bolsi attori hollywoodiani. Pietro Angelini è un orientalista e documentarista, autore di altri quattro titoli, tra cui un romanzo, sempre sullo sfondo dell’Oriente.

Troppo spesso ostaggio dei miti che l’Occidente ha messo in vendita nei supermercati del nuovo materialismo spirituale, il Tibet viene descritto come un paradiso perduto. Un luogo popolato da saggi monaci non-violenti, vittime inermi di un “genocidio” da parte dei cinesi, che sembrano incarnare tutto il male possibile.

Secondo una visione opposta, fino agli anni ’50 era invece una specie di Stato canaglia, una teocrazia fanatica e integralista governata da leggi barbare e sorretta da un rigido sistema feudale di servitù della gleba. Ma i due punti di vista sono ugualmente fuorvianti, perché eludono la complessità delle vicende storiche che cinquant’anni fa hanno determinato l’esilio del Dalai Lama e la nascita della questione tibetana.
Questo libro racconta il Paese delle Nevi dai primi miti agli ultimi tragici avvenimenti, le radici del conflitto coi cinesi, così come la vera storia del Tibet.

Un resoconto fuori dal coro – sorretto da un’impressionante documentazione – sulle vicende passate e le prospettive future di una cultura unica al mondo e di un popolo sull’orlo dell’estinzione.

Immaginate un diamante, cavato da deserto di sassi e precipitato in un crogiuolo a bollire con il ferro di una meteorite, insieme al burro di un bovino nipote di mammuth e al corallo che un pastore ha raccolto dove c’era un oceano tanto tempo fa, all’epoca dei dinosauri. E che intorno a questa molecola di carbonio vi sia dell’acqua, nella forma di un lago blu che rifletta il cielo, circondato da una terra color ruggine come una montatura d’oro trattiene uno sputo di cobalto nell’anello di un mago errante nell’Asia.

C’era una volta, al di là delle montagne più alte della terra, un regno chiamato Shangri-la. Il popolo che abitava questo regno incantato era fiero e compassionevole, munito di una saggezza fuori dal tempo che sembrava provenire da quelle stelle che certe notti pare di poter toccare con la mano… La storia del Tibet è, in realtà, ben più noiosa di una favola che potrebbe cominciare in questo modo. E fino a qualche tempo fa il Tibet non era che un suono di quelli che precedono gli sbadigli, un vuoto sulla carta geografica dell’Asia o al massimo una di quelle cose che si leggono in un almanacco illustrato o in un sussidiario scolastico. Troppo singolare per apparirvi con qualche scopo, freddo e solitario, rozzo e sottile a un tempo, feroce e dolcissimo, materico e rarefatto, spesso incomprensibile, il Tibet era fuori dai nostri pensieri, in uno spazio-tempo di antico conio, incastonato nel resto del mondo come per caso e sorvegliato dai suoi imgombranti vicini: la Cina che l’ha divorato nel 1950 e che ora lo chiama Regione Autonoma del Tibet e dell’India, che lo ammira per aver accolto tanto tempo fa la dottrina del Buddha, quando gli sciabolanti guerrieri islamici imperversavano nelle polverose piane del Bihar.

Il Tibet era un regno nascosto e scontroso, confinato da ghiacci e deserti. Un altipiano di vertiginose altezze che ha custodito per secoli una civiltà fossile, frequentata dai venti e popolata da demoni e yak, attraversata da nomadi, governata da re-bambini che cavalcavano e tiravano con l’arco e poi oberata da monaci buddhisti e infestata da maghi neri capaci di violare le leggi della natura e di comminare sortilegi mai visti: non solo volare, leggere nel pensiero, sdoppiarsi nel corpo e provocare tempeste o valanghe, ma anche attraversare i mondi adiacenti. E morire e rinascere a piacimento. Nel turbinio dei venti, fra cruente fatalità ed elevate realizzazioni, questo regno conobbe i giorni e le notti: lui che sapeva come porre fine alla brama, cadde spesso vittima della brama, chi conosceva il segreto della compassione spesso compassione di sé non ebbe. E volle perdersi, dopo la gloria, per infinite volte, nel vortice del samsara, e rivivere ancora, e ancora, i frutti del suo antico agire.

Tibet – Storia e mito di Pietro Angelini

Edizioni Stampa Alternativa – Collana Eretica Speciale

376 pagine

ISBN: 978-88-6222-055-2

Andrea B. Nardi

Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlečin

riceviamo e pubblichiamo dalla Casa Editrice Sandro Teti

stalin

Dalla prefazione di Leonid Mlečin

“Tutti coloro a cui ho sottoposto il manoscritto di questo libro, che ringrazio per le loro preziose osservazioni, mi hanno consigliato di pensare a un titolo diverso, obiettando che furono le Nazioni Unite e non Stalin a creare Israele. Sono tuttavia convinto che se non fosse stato per Stalin, probabilmente uno stato ebraico in Palestina non sarebbe mai sorto. La decisione del dittatore sovietico, oltre a determinare il destino dell’attuale Medio Oriente, ha influenzato la storia politica dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti.

Questo punto di vista è sostenuto da centinaia di documenti segreti provenienti dagli archivi sovietici e ora raccolti in due importanti pubblicazioni: Le relazioni sovietico-israeliane. 1941-1953, a cura del Ministero degli affari esteri della federazione Russa, e Il conflitto mediorientale. 1947-1956 pubblicato dalla Fondazione internazionale “Democratija”.

Ora siamo finalmente in grado di mettere a confronto le note del Ministero degli esteri dell’URSS, i telegrammi cifrati degli ambasciatori, i verbali dei colloqui dei Ministri degli esteri e le registrazioni del Comitato Centrale del PCUS con le memorie di politici e diplomatici, protagonisti di quei drammatici avvenimenti.

Possiamo così finalmente rispondere al quesito più importante: “Perché a Stalin serviva Israele?”, “quali piani aveva in serbo per il Medio Oriente? Perché, in seguito, la politica sovietica in Medio Oriente mutò in modo così radicale e repentino? Quali conseguenze ebbe questo cambio di rotta per l’URSS?
Questo libro non è dedicato a Israele ma alla politica sovietica in Medio Oriente
“.

Leonid Mlečin

Perché Stalin creò Israele

Leonid Mlečin

traduzione di Svetlana Solomonova

prefazione di Luciano Canfora
introduzione di Enrico Mentana

Collana: Historos

pag. 216 €17,00

ISBN: 978-88-88-249-20 9

Perché Stalin creò Israele è il nuovo titolo scelto dall’editore Sandro Teti per Historos, collana ideata per la conoscenza e la comprensione della Storia senza limiti cronologici e geografici. L’uscita dell’opera coincide con il sessantesimo anniversario della nascita dello stato di Israele. Il libro verrà presentato in occasione di “Più Libri Più Liberi”, la Fiera della piccola e media editoria in programma a Roma dal 5 all’8 dicembre. La traduzione è di Chiara Spano, la prefazione di Luciano Canfora, mentre l’introduzione è curata da Enrico Mentana.

Il libro

“Perché a Stalin serviva Israele? Quali piani aveva in serbo per il Medio Oriente? Perché, in seguito, la politica sovietica in Medio Oriente mutò in modo così radicale e repentino? Quali conseguenze ebbe questo cambio di rotta per l’Urss?”.

Leonid Mlečin

29 novembre 1947. L’Assemblea delle Nazioni Unite si riunisce per approvare la Risoluzione 181, il piano di spartizione della Palestina. Al voto contrario del Regno Unito si oppone il consenso degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Perché quel giorno venne presa quella decisione? Perché Stalin creò Israele? Attraverso un imponente lavoro di documentazione, il giornalista russo Leonid Mlečin indaga uno dei momenti più importanti della storia del Novecento. Con piglio avvincente l’autore ripercorre i passaggi salienti della politica estera sovietica nella gestione dei rapporti in Medio Oriente a partire dal 1917. Reperti originali e in parte inediti, materiale d’archivio del Politbjuro, del Comitato centrale del Partito comunista, dei servizi segreti e del Ministero degli Esteri dell’Unione Sovietica, telegrammi cifrati degli ambasciatori, memorie di politici e diplomatici che hanno vissuto da protagonisti quei cruciali avvenimenti. A riemergere è il progetto strategico di Stalin, finalizzato alla costituzione di un presidio sovietico nelle zone calde del Medio Oriente. Questo testo, scorrevole nella lettura, si presenta come un importante strumento di approfondimento conoscitivo tanto per gli studiosi specialisti, quanto per chi è interessato alla questione mediorientale e intende guardare oltre i recenti sviluppi.

Leonid Mlečin

Nato nel 1957, è giornalista, scrittore, storico e corrispondente della rivista “Novoe Vremja”. È Autore e conduttore di trasmissioni televisive di informazione, attualità e analisi politiche sui temi più importanti della storia del Novecento. Ha scritto diversi libri – E. Primakov, L. Brežnrv, I presidenti del KGB, I ministri degli Esteri, Morte di Stalin e romanzi gialli tradotti in inglese, giapponese, spagnolo, polacco e altre lingue dell’ex Unione Sovietica.

ROSCOE THE FIRST

cover

Vita, commedia e tragedia di un re della comicità
Jerry Stahl, Io, Ciccione, Mondadori, Strade Blu, 2008

Lui fu il primo. Vi siete mai posti la domanda: ma tutto questo pettegolezzo, questo non farsi gli affari propri, questo mettere il naso nelle fogne altrui ed esibire le proprie senza pudore, questa civiltà globale dell’esibizione moltiplicata e tracimata oltre ogni limite di buon senso e di buon gusto grazie ai media, insomma tutto questo cesso quando è cominciato? Chi sarà stata la prima vittima della storia a dare il via alla gran babilonia? Ecco la risposta: Roscoe Arbuckle detto Fatty, cioè Grassone.
Lui, nel suo campo, fu il primo in tutto: il primo attore comico che divenne una celebrità, che ottenne la regia dei propri film, che guadagnò milioni di dollari, il primo ad intuire il talento di Charlie Chaplin e di Buster Keaton, il primo uomo di spettacolo della storia del cinema a finire stritolato nelle maglie di uno scandalo sessuale, aizzato dai tabloid e dai cronisti giudiziari, che fece inorridire e indignare tutta l’America e che lo distrusse, moralmente ed economicamente, benché incolpevole.
Di lui ho due ricordi: il primo risale all’infanzia, quando il sabato trasmettevano in tv, all’ora di pranzo, “Oggi le comiche”, e accanto a Buster Keaton, Harold Lloyd, Laurel & Hardy, Charlie Chaplin e Harry Langdon, qualche volta c’era anche lui, Fatty. Sono pellicole molto vecchie, degli anni Dieci del Novecento, la prima comicità slapstick delle torte in faccia e degli inseguimenti rocamboleschi dei Keystone Studios.
L’altro ricordo è un po’ più recente e riguarda un fumetto strepitoso in bianco e nero, ma così curato e così originale per gli effetti di luce e ombra e per le tonalità dei grigi, che evocano atmosfere noir delle pellicole hard-boiled anni Quaranta e Cinquanta, da sembrare un film su carta: un’avventura dell’investigatore Joe Sumatra, disegnata da Francesco e Ildebrando Tosi e intitolata Arcobaleno notturno, apparsa sulla rivista Corto Maltese del dicembre 1990. In questo racconto ci sono Fatty, chiamato Arbugle, e il suo scandalo, benché trasferiti dagli anni Venti agli anni Quaranta e benché pretesto per narrare un’altra vicenda.
La storia narrata da Jerry Stahl in Io, Ciccione invece è un’affascinante e straziante ricostruzione in prima persona della vita di Roscoe, dalla nascita in una stamberga sperduta nel Kansas alla morte per overdose a quarantasei anni nell’anonima indifferenza di un appartamento smarrito nella metropoli newyorkese. È una cavalcata attraverso l’America ragtime, dalla tranquilla quotidianità di paura nella campagna middle-west e moonshiner, passando attraverso le glorie del vaudeville e del cinema preistorico, fino ai lussi e alle lussurie dei divi hollywoodiani e allo squallore del retroAmerica: come in una scenografia cinematografica, davanti marmi e cristalli, dietro spazzatura e desolazione.
Il problema di fondo di tutti i romanzi biografici (vedi Villon) è: ma è tutto vero? è andata proprio così? Sembra di sì, a leggerlo, il romanzo, nel senso che ha un tale impatto emotivo che ci credi ad occhi chiusi (bravo anche il traduttore: in questi casi non sai mai quanto il valore della scrittura stia nell’originale e quanto nella traduzione, o in tutti e due come dovrebbe essere, ma non sempre è). Bisognerebbe verificare, leggersi le cronache dell’epoca, indagare, sentire testimoni, se ce ne sono ancora vivi, per avere un minimo di orientamento sulla verità della vita di Roscoe Arbuckle, cose che, dalla bibliografia riportata a fine romanzo, Jerry Stahl sembra aver fatto, per cui: fidiamoci, benché lo stesso autore nell’Introduzione affermi: “Era una persona enormemente candida, considerate le circostanze. Che erano davvero estreme. Ma chi può saperlo? Come il corpulento Dr. Johnson amava ricordare ai suoi ammiratori: “Raramente una splendida storia è del tutto vera”.
Verità storica a parte, è la storia narrata ad essere, pur nella sua drammaticità, bellissima, con tratti di tragica ironia (esempio: “La morale, pulzelle e omarini cari, è che quando si chiude una porta poi se ne spalanca un’altra… e ti spacca il naso”) e di commovente poesia (esempio: l’episodio dell’infanzia di Roscoe, che si ritrova solo in una stazione, paralizzato dalla paura: “Per riuscire a camminare cominciai a fingere con me stesso (…) In questa versione dello Spettacolo di Roscoe (…) l’uomo che impersonificava papà sarebbe stato contento di vedermi (…) Mi avrebbe accarezzato la testa, e mi avrebbe chiamato con il mio vero nome, Roscoe, invece di quell’altro. Invece di Ciccione. Il papà, in questa commedia, mi avrebbe scompigliato i capelli, mi avrebbe preso la valigia dalla mano, e l’avrebbe gettata ad Arthur, il mio fratello maggiore (…) Ci incamminavamo tutti e tre impettiti – i gloriosi Arbuckle – quasi come una famiglia”).
È costante infatti lungo le pagine del romanzo la commovente ingenuità di Roscoe, un bambino costretto dalle circostanze a diventare presto uomo, e poi uomo rimasto per sempre bambino, che si guarda intorno disperato alla ricerca di una qualche ragione per un inspiegabile accanimento che lo perseguita da sempre e che nel gran finale allestisce una messa in scena grottesca e crudele che non risparmia nulla. L’infanzia di un bambino sovrappeso non dev’essere facile, se già in casa il padre lo disprezza e non perde occasione per denigrarlo e picchiarlo. Il senso di colpa nasce lì, nella stamberga di assi del Kansas, e non lo molla più fino al processo e alla condanna, e poi al processo e all’assoluzione, e anche dopo, perché nel frattempo Roscoe è indotto a credere di essere colpevole per il semplice fatto di esistere: per quanto ci rida sopra, per quanto sappia costruirci gags da avanspettacolo, nel fondo del suo cuore c’è la disperata convinzione che nulla ormai lo potrà più salvare, forse soltanto una fialetta di eroina.
“Mi odiò fin dal primo momento che mi vide. Il che significa molto, per un bambino (…) Quando mia madre morì, papà mi disse che ero stato io a ucciderla (…) Seguitava a urlare che dopo la mia nascita mia madre aveva smesso di essere una moglie. Che avevo rovinato la sua femminilità. Da quel momento in avanti le donne e il loro fiorellino mi misero paura. Perché senza saperlo glielo potevi spezzare. O qualcuno poteva dire che eri stato tu.”
Nel disegno del destino crudele di Roscoe Arbuckle il tarlo del sospetto che lui possa far del male ad una donna (prima per il solo fatto di nascere con otto chili già piazzati, e poi per il solo fatto di essere grasso, quindi mostruoso, “Che cosa fai quando il mondo intero pensa che sei un mostro, mentre invece tu sai che è il mondo a essere mostruoso?”) divora la pubblica e amata immagine di bonaccione allegro veicolata dalle pellicole, per fare posto ad un odio e ad una cattiveria che trasformano il beniamino delle famiglie e dei bambini in un repellente depravato.
“Davanti a casa mia, in Adams Boulevard, erano convenute parecchie altre persone a dimostrarmi tutto il loro odio. Curioso: a prima vista non parevano tanto differenti dai miei fan che un tempo venivano lì perché mi amavano. Alla fine capii che mi sembravano uguali perché erano gli stessi.”
Poche righe, ma più efficaci di tanti trattati sulla psicologia delle masse e sui metodi di persuasione delle masse. Cosa diavolo era successo? Nel corso di un party in un hotel di San Francisco, liquori a fiumi e persone sbagliate, una stellina del cinema si sente male (per cause precedenti il party) e Roscoe tenta maldestramente di rianimarla con una bottiglia ghiacciata. Da qui l’idea, che si impadronisce subito dei cervelli annebbiati dall’alcol, che lui l’abbia stuprata. Poi la ragazza muore. E Roscoe si trova incriminato per stupro e omicidio. La stampa monta il caso e suscita un’ondata di indignazione popolare contro i depravati di Hollywood. Roscoe diventa perciò il capro espiatorio dello star-system, trovandosi al centro di una ragnatela dove s’intrecciano trame tessute da molteplici centri di interesse: le case di produzione cinematografiche, che vogliono rifarsi una pubblica verginità, contribuire ipocritamente alla moralizzazione e allontanare da sé il pericolo di chiusura degli stabilimenti; l’ambizione di procuratori distrettuali e di politici in carriera; il tornaconto economico dei magnati della stampa; la vendetta di un regista che odiava Roscoe dai tempi dei Keystone Studios; gli intrighi squallidi di un falso amico oberato dai debiti; la calunnia di una falsa testimone di professione; la rappresaglia dei boss dell’industria cinematografica, il cui subdolo metodo punitivo degli attori recalcitranti alla loro tirannia si ripeterà anche in seguito (il caso di Frances Farmer, attrice ribelle che finì nell’inferno di un ospedale psichiatrico, vicenda portata sugli schermi negli anni ’80 dal film Frances con una splendida Jessica Lange). Così incredibile da essere vero.
Da questo incubo Roscoe Arbuckle non uscirà mai più, nemmeno dopo aver ottenuto l’assoluzione, nemmeno quando, dieci anni più tardi, il cinema lo richiamerà per affidargli ruoli da protagonista (nel frattempo sopravviveva facendo il regista sotto falso nome e girovagando con tournée cabarettistiche tra bar e locali notturni), nemmeno quando il mondo sembrava aver dimenticato e tornava a sorridergli. Ma lui non era più capace di sorridere, gli avevano tolto per sempre la gioia di vivere.
C’è un’epigrafe all’inizio del romanzo, un pensiero di Samuel Beckett:
Non c’è niente di più comico dell’infelicità.
Cambiando l’ordine dei fattori la tragedia di esistere e di chiamarsi Roscoe Arbuckle non cambia:
Non c’è niente di più infelice di un comico.

Mauro Del Bianco

Cenere ( Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco)

CENERE

Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco, SE srl Milano 2000

Il y a là cendre: vi è là cenere, oppure: vi è la cenere, o ancora: vi è là Cenere (nome di donna)? Quante interpretazioni e deformazioni di senso può subire, fino ad esaurirla, paradossalmente fino a farne cenere, una frase all’apparenza semplice come questa?

Raymond Queneau nei suoi Esercizi di stile aveva dimostrato come una frase può essere resa in cento modi diversi, ma là era appunto questione di stile, interpretazione (nel senso di rappresentazione) variabile al variare del registro linguistico adottato (burocratico, geometrico, telegrafico, ampolloso, insiemista, ecc.) senza modificare troppo il significato, il concetto trasmesso dalla frase. Là vi era fiducia e speranza nella presenza di un nucleo di significato invariabile al variare dell’apparenza del significante. Per Jacques Derrida la presenza del significato semplicemente non c’è, c’è invece disseminazione, dispersione di significato, deriva di significati, c’è différance invece, neologismo coniato da Derrida per valorizzare, al posto del canonico différence, la differenza + distanza incolmabile tra il testo e la verità del testo stesso.

Feu la cendre (1999, tradotto come Ciò che resta del fuoco nell’indecidibilità tutta derridiana di rendere l’omonimia di feu come “fu” – nel senso di defunto – e come “fuoco”) prende le mosse da una frase (il y a là cendre) contenuta in una precedente opera filosofica di Derrida, La dissémination (1972), per sviluppare un polylogue di voci che indagano il vero significato di quella frase senza peraltro approdare a nulla di deciso e definitivo: vera e propria autodecostruzione per rivelare l’indecidibile perfino nella propria scrittura, ironicamente e coerentemente come dev’essere una vera prassi decostruzionista.

Tramite il ritorno paziente, ostinato, ironico dell’esegesi che non porta a nulla e che gli ingenui troverebbero indecente, staremmo forse modellando l’urna di un linguaggio per questa frase di cenere, che lui, per quanto lo riguarda, ha abbandonato al suo destino e alle sue probabilità, virtù di autodistruzione che fa fuoco da sola dritto al cuore?

Il testo, come tutti i testi di Derrida, è ostico e disorientante: non è un romanzo, non è un racconto, non è un saggio filosofico, è un po’ tutte queste forme di scrittura insieme, è un testo disseminato, differante, contiene tutto quello che potrebbe essere senza essere niente, è traccia di ciò che è e non è, quindi traccia non come segno, pista, orma (vale a dire presenza), ma come spazio vuoto, interlinea del testo, il non detto della sua verità.

Così il libro non ha un inizio accettabile secondo i canoni letterari (parte con un’osservazione slegata da qualunque contesto, come la pellicola tagliata di un film, frammento, istante, fotogramma gratuito) e non ha nemmeno una fine, poiché colui che chiude/non chiude il polylogue con le parole “e che adesso vi dirò”, non dice nulla lasciando dissiparsi il racconto nel silenzio del foglio bianco.

In effetti può apparire indecente tutto ciò. Più che altro ha un carattere straniante come un’opera dadaista, e qui sta il suo fascino letterario: una letteratura nuova, diversa, si può fare anche così, tagliando un foglio a metà, sopra un intrecciarsi polifonico di voci, sotto le animadversiones tratte dai testi filosofici, e giocare con questi due livelli di scrittura, giocare con le parole, farne fuochi d’artificio, consumarle fino alla cenere, incrinare la loro superficie, la loro integrità verbale, rendendo evidente il loro sottrarsi alla linearità del significante, leggerle come enigma che contiene una molteplicità di direzioni.

Magnifico suggerimento per esperimenti letterari, per limitarci al piano estetico.

Sul piano filosofico, invece, sul piano cioè della ricerca di un sapere non meramente contingente, è un altro discorso. La visione derridiana è un sofisticato scetticismo che si risolve nel nichilismo. Semplificando: partendo dall’osservazione che un testo scritto vive di vita propria (non c’è la presenza di chi l’ha scritto) e in quanto tale è composto da connessioni verbali indecidibili, che sottoposte a interpretazione non rivelano quella autentica, si giunge alla conclusione che in un testo non c’è mai la verità, bensì il non-essere della verità, la sua traccia, che come abbiamo visto ha un carattere negativo: di essa posso dire solo che non c’è, il suo essere si rivela tramite il suo non-essere. Il che equivale a dire che non è.

Come spesso è accaduto nella storia della filosofia, l’osservazione iniziale è interessante, ma se ne traggono conclusioni problematiche. La critica di Derrida è notevole per combattere la tendenza dogmatica ad oggettivare la Verità, ma bastava ricordarsi di una perla della meditazione orientale: appena ti sei costruito un pensiero, ridici sopra. Questo è l’atteggiamento del saggio, del sapiente che riconosce la privazione, il darsi incompleto della Verità, il suo porsi e il suo contemporaneo sottrarsi a qualsiasi tentativo di possesso, di oggettivazione. Il che non significa che non esista, anzi: proprio perché ne riscontro la differanza, ne postulo necessariamente l’esistenza, che, vista da un’altra angolatura, è la classica critica allo scetticismo: affermare che non esiste alcuna Verità, vuol dire che questa è la Verità.

Analogamente la negazione di una legittimazione metafisica dell’esistente, ne reintroduce il simulacro proprio nella scrittura, che diventa un luogo metafisico, in quanto ad essa si applicano per trasposizione gli indecidibili tipici di una dimensione metafisica: la famosa barra / intesa come luogo della Verità, il non-spazio dove si risolvono gli opposti (vero/falso, buono/cattivo, essere/non essere, ecc.) ha un valore di trascendenza/immanenza riferibile ad un contesto metafisico, ad un contesto cioè che si situa al di là del nostro spazio e del nostro tempo, quindi al di là del principio di non contraddizione, nell’infinitamente piccolo o nell’InfinitamenteGrande.

Discutibile anche che tutto l’impianto si regga su un dato parziale dell’esperienza, la scrittura, fino a dedurne la precedenza del Divenire sull’Essere: come può divenire ciò che non è? come può un meno dar luogo ad un più?

Ora, tutto ciò non significa liquidare Derrida in cinque minuti, ma indicare ipotesi di decostruzione della sua teoria per evidenziarne, sul piano filosofico, la problematicità. È proprio questa, dirà qualcuno, la dimostrazione della coerenza e della tenuta del pensiero derridiano: sì, può darsi, ma, a parte il fatto che la coerenza non è necessariamente un criterio di verità, non lo è sicuramente nel senso di un girotondo di chiacchiere, non nel senso del derridiano colpo di dadi (prendo un’opinione qualsiasi e mi ci affeziono, tanto sono tutte uguali, cioè non vere). C’è infatti una profonda differenza tra il riconoscere la relatività dell’esistente e tuttavia cercare ciò che legittima tale relatività (e che non può essere relativo), e l’identificare sbrigativamente la relatività dell’esistente con il nulla e il non-senso, o con un rinvio infinito ad altro, destinato a scomparire parimenti nel nulla.

La differenza è data da un approccio metafisico alle domande sul più-che-vita. Perfino parlando di truco (che è un gioco di carte argentino) Jorge Luis Borges diceva: “Così (…) ci siamo avvicinati alla metafisica: unica giustificazione e fine di ogni tema” (da Evaristo Carriego).

Ciò nonostante Derrida ci fa riflettere sul trascendente nella letteratura, e nell’arte in genere, sul fatto che un testo è comunque un contenuto al di là dei suoi contenuti particolari, che rinvia ad altro per il solo fatto di esserci: anche la letteratura volutamente insignificante ha un suo significato, che può essere, al limite, proprio l’esserne carente. Da una parte infatti abbiamo scoperto nuove strade e nuove possibilità formali: differanza, disseminazione, traccia, barra, decostruzione, sono tutti elementi che applicati alla letteratura rivoluzionano il modo di fare letteratura, con il pregio di svelare la non solennità della letteratura stessa, cioè l’indipendenza del gioco letterario dai contenuti, la non necessarietà del contenuto cosiddetto impegnato: una vera e propria ventata di aria fresca nello sgabuzzino stantio di una burocrazia letteraria assillata dai motivi dell’Opera (la letteratura, come tutte le arti, è anche gioco e può essere addirittura soltanto gioco, un gioco difficile da costruire e mantenere vivo, ma bellissimo, se ti riesce). Ma d’altra parte, benché senza contenuti dichiarati o apparenti, un testo conserva un suo significato per il solo fatto di essere, anche quando è gioco, anche quando è indecidibile, anche quando è un esercizio di stile. È comunque una determinazione di pensiero (non importa se consapevole o no), un atto, un porre, il cui significato complessivo trascende il suo apparire contingente fatto di frasi e di parole, per quanto insignificanti e ludiche possano essere.

La pittura ci può aiutare a capire. Pensate al famoso Quadrato nero, l’opera suprematista di Malevič. Anche se non l’avete mai visto, non è difficile da immaginare: su fondo bianco c’è un quadrato nero. Tutto qui. Ma oltre la sua tautologica autoreferenzialità, quest’opera ha comunque un significato (tentativo di esplorare una quarta dimensione dello spazio? il bianco come infinito spazio pieno? uno spazio bianco dove “la vista non incontra limite”?), fosse anche quello ultimo dell’alterità rispetto a tutto il resto della pittura. Motivo per cui, si narra (inedito di Max Frisch tradotto da Alessandro Melazzini per l’inserto culturale del Sole 24ore del 19 ottobre 2008), i burocrati del Partito lo volevano in cantina, insieme a tutte le altre opere dell’avanguardia russa, perché il popolo, nel confronto con le celebrazioni collettivistiche e materialistiche del realismo sovietico (i cosiddetti contenuti impegnati), vi avrebbe visto un’alterità, e ciò che è altro fa pensare, fa dubitare: prassi assolutamente non igienica per un regime, perché a volte fa anche capire.

Talora infatti le esagerazioni servono a ripristinare il senso e il valore della realtà, soprattutto quando la si è persa di vista E questo può essere considerato il merito principale della teoria di Derrida: la sua decostruzione è un’esagerazione, ma serve a ripensare la pacifica evidenza e a dubitare della certezza che erroneamente attribuiamo ai sistemi ideologici, per cercare la traccia (in senso proprio) della Verità.

Perché un’estetica non deve fondare per forza un’ontologia e occorre guardarsi bene dalle ontologie che pretendono di pianificare un’estetica.

Mauro Del Bianco

Il male oscuro .

Può un romanzo descrivere un abisso ed essere al tempo stesso la cura attraverso la quale il suo autore torna a “riveder le stelle”?

E’ quello che, nel 1964, è accaduto con Il male oscuro, il formidabile romanzo attraverso il quale, dopo anni di difficoltà e di nevrosi, Giuseppe Berto, che nell’immediato dopoguerra era stato uno dei protagonisti della scena letteraria con il suo romanzo d’esordio “Il cielo è rosso”, tradotto in molti paesi del mondo, tornò al successo, dopo anni di nevrosi e di difficoltà di ogni genere.

La trama del romanzo riprende da vicino la vita dello scrittore ( mai romanzo è stato forse più autobiografico di questo): un intellettuale di provincia lavora nella Roma della “Dolce Vita”, come sceneggiatore cinematografico, in attesa di riuscire a creare il capolavoro letterario grazie al quale il suo nome passerà alla storia.

La morte del padre scatena in lui tutta una serie di sensi colpa che lo fanno piombare nella depressione e nella nevrosi.

In oltre quattrocento pagine, con uno stile personalissimo (praticamente senza punteggiatura, un vero e proprio stream of consciousness) Berto si racconta con  un tono amaro e disincantato, ma ricco di autoironia ed umorismo.

Dominano il romanzo la lotta contro la malattia, la storia d’amore con una giovane donna ( che per tutto il libro è definita “la ragazzetta”), la nascita della figlia, le aspirazioni artistiche, la sofferenza per l’ostracismo al quale lo condannano le conventicole letterarie per il suo atteggiamento anticonformistico.

La salvezza arriva con la psicoanalisi, che gli consentirà di afferrare il recondito significato della sua “guerra con il padre” e di riconciliarsi alla fine con se stesso. Il tono del libro è continuamente ironico e autoironico, Berto ride e ci fa ridere di se’ e delle proprie disgrazie, ma insieme all’ironia c’è l’amarezza.

Cinquant’anni dopo Svevo e il suo “La coscienza di Zeno”, ritroviamo il protagonista di un grande romanzo alle prese con i propri complessi di colpa e le proprie insufficienze e incertezze.

“Il male oscuro” e’ il primo vero e proprio romanzo psicoanalitico italiano, e anche se investe della sua ironia la disciplina freudiana,  ha anche il merito di farla conoscere in un’epoca in cui nessuno ne parlava.

Il male oscuro” e’ probabilmente il piu’ attuale dei romanzi di Giuseppe Berto.

Mentre per il protagonista del romanzo la salvezza è fisicamente rappresentata dall’acquisto di una casa in Calabria, a Capo Vaticano, che diventa il luogo della serenità, della solitudine e del completo distacco dal mondo, nella vita di Giuseppe Berto la resurrezione e la salvezza arrivarono proprio attraverso lo straordinario successo di questo romanzo , vincitore nel corso della stessa estate del premio Viareggio e del premio Campiello, dopo essersi installato saldamente e per un lunghissimo periodo in testa alle classifiche di vendita.

Andando a ritirare il premio Viareggio con la moglie e la figlia ( la notizia lo aveva raggiunto proprio nella casa di Capo Vaticano), non poteva fare a meno di pensare che della giuria di quel premio facevano parte due eminenti letterati che in passato erano stati critici e addirittura ostili nei suoi confronti, Eugenio Montale e Natalino Sapegno. Entrambi avevano dovuto riconoscere la grandezza del libro.

P.S.

Ricordo con piacere questo libro perchè l’ho letto quando ancora frequentavo le medie e portavo, letteralmente, i calzoni corti.

Un giovane magistrato che frequentava la nostra casa, incuriosito dal successo del libro, lo aveva acquistato, arrendendosi dopo le prime due pagine. Mi fu facile quindi averlo da lui in prestito.

Lo divorai in pochi giorni e, appena lo ebbi finito, ricominciai a leggerlo, tra gli ondeggiamenti di testa di mio padre che, avendone letto alcune frasi qua e là, continuava a disapprovare dicendo: “Non è un libro per la tua età”