Filippo Cusumano

L’ingegnere in blu

“Immancabilmente in abito completo blu ben stirato, camicia bianca e cravatte deplorevoli acquistate ( forse da lui solo) in un sonnolento magazzino giù per via della Mercede, e un fazzolettino candido ad angolo retto nel taschino. Scarpe ovviamente nere e lucidatissime”

Così ci viene descritto Carlo Emilio Gadda nel bellissimo libro che Alberto Arbasino gli ha dedicato, “L’ingegnere in blu”

Sono gli anni ‘50, Roma è ancora la città più bella del mondo e Gadda ha finalmente trovato lì il suo habitat naturale.

Assunto dalla Rai per i servizi di cultura del Terzo programma radiofonico, entra in contatto con tutti i personaggi dell’ambiente letterario della capitale.

Non ha ancora pubblicato Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, il libro formidabile con il quale, lui così compassato e timido, irromperà nella letteratura della seconda metà del Novecento diventandone assoluto protagonista.

Nei circoli letterari gli preferiscono Moravia, Landolfi, Brancati, Commisso e Soldati. Il Corriere della Sera non pubblica i suoi elzeviri.

Consapevole del suo valore, Gadda non può che dispiacersi di questa evidente sottovalutazione del suo talento.

Ma all’improvviso, senza che egli abbia in alcun modo cercato o fors’anche pensato di “autopromuoversi” ( come si direbbe oggi e certo non si usava dire allora) un gruppo di giovani letterati prende a considerarlo come un maestro.

Così scrive Arbasino:

“Carlo Emilio Gadda aveva più di sessant’anni, scriveva da più di trenta, e non aveva ancora pubblicato in volume il Pasticciaccio[…] quando i ventenni degli anni Cinquanta scoprirono la sua posizione ‘centrale’ nella nostra letteratura contemporanea.

E sull’entusiasmo per la stupenda Adalgisa, per le mirabili Novelle del Ducato in fiamme, lo dichiararono massimo autore italiano del mezzo secolo, con immenso dispetto di tutti gli altri”.

Gadda non lo dà a vedere, ma è felice di questa considerazione.

Per moltissimi anni è stato considerato semplicemente un outsider, un eccentrico arrivato tardi alla letteratura.

A questa fama di dilettante ha contribuito non tanto la sporadicità delle sue pubblicazioni, quanto il suo titolo di ingegnere : laurea presa non per vocazione , ma per necessità di sostentamento della famiglia d’origine (media borghesia travolta dalla crisi economica del primo dopoguerra) ed esercitata solo per pochi anni.

Arbasino commenta: “Come se il caso Svevo non insegnasse mai nulla”.

E in effetti è singolare, ma i due narratori più dotati del nostro Novecento, Svevo e Gadda, sono due outsider: il primo fa l’industriale ( e ancora oggi se entrate da un feramenta trovate le vernici “Veneziani” prodotte dalla fabbrica del suocero di cui Svevo era uno dei dirigenti) il secondo è ingegnere.

Il libro di Arbasino ci porta in un mondo favoloso che non esiste più, anche se resistono i suoi templi: il mondo dei circoli letterari romani degli anni Cinquanta, quello che gravitava intorno al Caffè Rosati e al ristorante il Bolognese di Piazza del Popolo, che frequentava i tè domenicali di Emilio Cecchi e di sua moglie Leonetta Pieraccini, che si attavolava in Trastevere nelle sere d’estate.

Un mondo di cui fanno parte una serie di personaggi mitici come Alberto Moravia, Elsa Morante ( che l’ingegnere chiama ‘ Elsina’), Attilio Bertolucci, Guttuso, Piovene, Bassani ( “il primo paltò di cammello della letteratura del dopoguerra”) Pasolini ( “che doveva scappare prima del dolce perchè sennò i ragazzini non lo aspettavano”), Parise.

Un mondo in cui ai letterati famosi si affiancano presto i cinematografari (Antognoni, Fellini, Visconti) ed uno dei principi della scrittura cinematografica, quell’Ennio Flaiano implacabile nell’appioppare soprannomi a destra e a manca: l’ Incantatore di Sergenti, Pancia Competente, l’Antico Tastamento, il Dandy Cariato, il Latrin Lover, il Giardino dei Finti- Pompini.

Ma più che nella rievocazione dei piccoli aneddoti e delle folgoranti battute, il libro è godibile nel riferire i giudizi precisi e a volte taglienti di Gadda sui colleghi, soprattutto sui grandi della letteratura italiana.

Tra i più ammirati dall’Ingegnere Don Lisander ( come era solito chiamare Alessandro Manzoni), ma quello de “I promessi sposi”, non quello enfatico del 5 maggio o degli Inni sacri.

“Se un Dio estetico mi domandasse in quale personaggio de I promesssi sposi vorrei identificarmi, risponderei subito: Don Abbondio!… per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d’aver paura, per la confessione che fa a se stesso della sua reale condizione umana. E’ quello che vede più chiara la sua posizione…vera mancanza di spirito esibitivo, narcisistico, gratuito, il più vicino alla mia mancanza di teatralità, di messa in scena”.

Ugo Foscolo?Uno dei personaggi meno accattivanti della Letteratura Italiana” Gadda si diverte a chiamarlo il Basetta, a dargi dello scimpanzè, del roditore, gli attribuisce scaltrezza, teatralità, opportunismo, ne deride l’enfasi, ne bolla gli errori marchiani, lo definisce, insieme con il Carducci, “il più grande strafalcionista del lirismo italiano ottocentesco”

Giovanni Pascoli? Apprezzabile dal punto di vista estetico il suo sforzo per rinnovare il linguaggio della poesia, encomiabile, sul piano etico il suo avvicinarsi alle sofferenze degli umili. Ma quanto infantilismo c’è in questo vecchio signore che passa la vita tra cupi giochi bambineschi con le ormai avvizzite sorelle, tra ridicoli vezzeggiativi e assurde gelosie! Quanta infantile scioccaggine nel suo tentativo di tradurre in poetiche onomatopee il verso degli uccelli!

D’Annunzio? Esibizionista, narciso, retorico e falso quando evoca il suo Abruzzo. Dubbi anche sul suo profilo eroico. Scherno sulla sua fama di iettatore ” I soldati non lo nominavano mai nelle loro canzoni e al sentirlo nominare si toccavano le stellette. Del resto amava circondarsi di decori funebri, di sarcofaghi, di lampade votive…”

Un libro imperdibile.

Filippo Cusumano

Far fuori la concorrenza: i giudizi di Moravia sugli altri scrittori

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Pirandello? Uno scrittore con precise categorie mentali, quelle di un professore siciliano dei primi del secolo.
Italo Svevo? Bravissimo, peccato che la sua lingua sia quella di un commerciante di Trieste.
Vittorini? Manca di rigore intelletuale.
Gadda ? Abusa della sua bravura di illusionista della parola.
Pavese? Un letterato fino alla cima dei capelli. Per tutta la vita ha cercato di creare dei miti: le langhe, le colline l’America..Fino al suicidio, che va interpretato come il tentativo di creare un mito nella vita, dopo il fallimento nel tentare di crearlo nella pagina.
Sciascia? Un razionalista la cui ragione sfocia nel mistero.
Manganelli? Un bravo letterato, incapace però di affrontare se stesso, forse per eccessivo pudore.
Landolfi? Belli i suoi racconti, ma manca di respiro, da lui mi aspettavo un romanzo che invece non ha scritto.
Questi alcuni dei giudizi espressi da Alberto Moravia nei confronti degli scrittori del suo tempo secondo un interessantissimo articolo di Nello Ajello apparso su “La Repubblica” tempo fa.

Confermano la scarsa generosità umana di uno scrittore di intelligenza acuminata, molto prolifico, ma quasi sempre arido.

Il fatto che i suoi libri non si leggano più risiede non solo nella sgradevolezza dei suoi personaggi e nella inconsistenza delle sue storie, ma anche nel fatto che è venuto a mancare loro un grandissimo promoter: l’autore stesso.

Molto bravo in vita, tutte le volte che qualcuno gli parlava di un altro scrittore, a ricondurre la conversazione su di se e sulle proprie opere.

Memorabile il modo con cui rispose ad un giornalista che gli chiedeva di commentare il suicidio di Guido Morselli, che si era tolto la vita perchè nessuno voleva pubblicare i suoi libri ( che poi uscirono tutti postumi).
“Ha fatto malissimo. Visto che era ricco poteva fare come me, che a vent’anni feci pubblicare a mie spese ‘Gli indifferenti’
Filippo Cusumano

La solitudine dei numeri primi

Mondadori editore 2008

 

“Alice Della Rocca odiava la scuola di sci”. Comincia così il primo romanzo di Paolo Giordano “la solitudine dei numeri primi”.

Alice è una bambina di sette anni, che non ha il coraggio di ribellarsi al padre che la vorrebbe precoce campionessa di sci e che tutte le mattine, invece di consentirle di godersi le vacanze in montagna, la trascina in un campetto, affidandola ad un maestro di sci insieme ad altri bambini della sua età.

Lei si sente goffa e inadeguata, è certa di non avere alcuna predisposizione per quello sport e vive il tutto come un’orribile costrizione. E’ bardata in modo insopportabile: calzamaglia di lana che punge le cosce, guanti che paralizzano le dita, casco che schiaccia le guance.

Il mattino in cui inizia la vicenda le è rimasta anche la colazione sullo stomaco. In cima alla seggiovia si separa dai compagni e, complice una fittissima nebbia, cerca di liberarsi. Ma è a tal punto imbragata e imbranata, che accade l’irreparabile: se la fa addosso. Per la vergogna decide di andare a valle da sola, ma finisce fuori pista e si spezza una gamba. Continuerà a trascinarla per tutta la vita, rinfacciando al padre la sua menomazione.

Mattia è una ragazzino di grandissima intelligenza con una sorella gemella ritardata, Michela.

L’avere sempre al fianco la sorella è fonte di costante umiliazione per Mattia. Un giorno, invitato insieme a lei ad una festa da un compagno di scuola, decide di lasciarla per qualche ora in un parco, con la promessa di tornare a prenderla. Michela sparisce in modo inspiegabile e non viene più ritrovata.

Questi due episodi, raccontati all’inizio del romanzo, segnano in modo incancellabile le vite dei due protagonisti .

Alice ricava dalla sua gamba rigida un desiderio profondo di omologazione: passa l’adolescenza a desiderare di essere come le altre e a cercare considerazione e affetto. Rifiuta il cibo fino a rischiare l’anoressia per inseguire la chimera di un corpo perfetto, è diffidente con tutti perchè teme continuamente di essere respinta ed umiliata.

Mattia si immerge nello studio, ha sempre voti brillantissimi, ma , schiacciato dal senso di colpa per l’abbandono della sorella, si abbandona ogni tanto ad atti di autolesionismo, infliggendosi delle ferite alle braccia o alle mani . Gli si fa il vuoto attorno, tutti pensano a lui come ad una specie di psicopatico.

Alice e Mattia frequentano la stessa scuola ed un giorno si incontrano ad una festa.

Si scoprono simili e tuttavia profondamente divisi. Come quei numeri speciali che i matematici chiamano numeri primi gemelli: due numeri primi, cioè divisibili solo per se stessi, separati da un solo numero pari. Vicini, ma mai abbastanza per toccarsi tra loro.

Il libro descrive le storie dolorose e avvincenti di questi due giovani le cui infanzie sono state danneggiate in maniera quasi irreversibile.

Incapaci di buttarsi alle spalle un passato doloroso, Mattia e Alice vivono la certezza di essere diversi dagli altri costruendo giorno dopo giorno le barriere che li separano dal mondo.
Come hanno detto in molti, La solitudine dei numeri primi è un romanzo che cresce tra le mani: parte in sordina per esplodere nel finale.

Dal tono semplice e diretto dei primi capitoli che descrivono con rara tensione emotiva le disavventure infantili dei due protagonisti, si passa al linguaggio più affinato e complesso degli ultimi capitoli della vicenda.

La solitudine dei numeri primi dista anni luce dai romanzi giovanili che vanno per la maggiore: non solo per la qualità della scrittura, ma anche per la scelta dei protagonisti: imperfetti, irrisolti, marginali, ma proprio per questo infinitamente più attraenti dal punto di vista narrativo e personale di quelli levigati e avvenenti che popolano le pagine di Moccia e affollano i reality.

Paolo Giordano ha solo 26 anni, è laureato in fisica teorica, ha una borsa di studio per il dottorato di ricerca all’Università di Torino ed ha frequentato un corso di scrittura creativa.

Sostiene che il corso gli è servito a darsi una più credibile disciplina espressiva.

Probabile, certo non gli ha dato il talento.

Quello c’era già, come dimostra questo esordio quasi folgorante .

Filippo Cusumano

P.S. Due i romanzi ai quali è impossibile non pensare , leggendo questo romanzo: “Il giovane Holden” di J.D. Salinger, per la sua capacità di rappresentare il disagio adolescenziale, “Le correzioni” di Jonathan Franzen, per la forza con la quale racconta la violenza involontaria, ma irresistibile dei condizionamenti derivanti dai tentativi di educazione familiare.

 

Il cinema secondo Hitchcock

il cinema secondo hitchcockIl cinema secondo Hitchcock di Francois Truffaut

Editore: Il Saggiatore

Anno: 2008, 311 p

Viene ripubblicato in questi giorni quello che molti non hanno esitato a chiamare “il più bel libro di cinema che sia mai stato scritto”: l’ormai leggendario libro che riporta la lunghissima intervista che nel 1962 Francois Truffaut fece ad Alfred Hitchcock.

All’epoca dell’intervista Hitchcock è all’apice del suo successo.

Film come Caccia al ladro, Vertigo, Intrigo internazionale, Psyco sono stati visti e apprezzati da un numero enorme di spettatori.

Le gag con le quali Hichcock accompagna in tv la presentazione di alcuni telefilm gialli ( la famosa serie “Hichcock presenta”) hanno contribuito a fare del regista un personaggio popolarissimo e familiare.

La critica, tuttavia, insospettita dalle dimensioni del suo successo, lo tratta con sufficienza e continua a considerare i suoi film come opere di puro intrattenimento e lui come un onesto artigiano del cinema.

Ma, al di là dell’Atlantico, i giovani talenti della Nouvelle Vague, gli autori di cinema che, dopo essersi fatte le ossa come critici nei Cahiers du Cinema, si stanno imponendo con film destinati a diventare oggetti di culto, lo considerano invece un genio assoluto, uno dei grandi maestri del cinema.

Uno degli uomini di punta della Nouvelle Vague, il giovane Francois Truffaut, che nel 1962, a soli 30 anni, ha già alle sue spalle film come “I quattrocento colpi” e “Jules e Jim”. sbarca a New York per la presentazione del suo ultimo film e si sente rivolgere da tutti i giornalisti la stessa domanda:“Perchè i critici dei Cahiers di Cinema prendono sul serio Hitchcock? E’ ricco ha successo, ma i suoi film non hanno sostanza.”

Il giovane regista francese passa un’ora con uno di questi critici cercando di convincerlo della grandezza di un film come “La finestra sul cortile”. Ne ottiene una risposta che lo sorprende per la sua enormità: ” Le piace La Finestra sul cortile perchè, non essendo di casa a New York, non conosce il Greenwich Village”.

Truffaut fulmina il suo interlocutore rispondendo seccamente : “La finestra sul cortile non è un film sul Village; è semplicemente un film sul cinema ed io conosco il cinema”.

Il regista francese torna a casa, rimuginando sulla incredibile ingiustizia di cui è vittima il venerato maestro.

E gli viene in mente l’idea del libro intervista.

Il mio passato di critico era molto recente e non mi ero ancora liberato della voglia di convincere, che era il denominatore comune di tutti i giovani dei Cahiers du Cinema[..]. Guardando i suoi film era evidente che quest’uomo aveva riflettuto sugli strumenti della propria arte più di tutti i suoi colleghi; se avesse accettato, per la prima volta, di rispondere ad un insieme sistematico di domande, si sarebbe potuto scrivere un libro in grado di modificare l’opinione dei critici americani”

Truffaut scrive quindi ad Hitchcock chiedendogli se è disposto ad accettare di essere intervistato a lungo sul suo lavoro di cineasta.

Il libro che esce dall’incontro tra i due maestri del cinema è straordinario.

Chiunque ami il cinema troverà questo libro interessantissimo e non potrà fare a meno di leggerlo tutto d’un fiato.

Chiunque ami Hitchcock non potrà che essere riconoscente a Truffaut non solo della sua determinazione ad approfondire ogni dettaglio, ma anche della sua capacità di fare sempre le domande giuste, quelle che noi cinefili avremmo fatto al maestro se avessimo avuto la fortuna di essere al suo posto.

Ecco come Truffaut ci spiega il segreto del successo di Hitchcock descrivendoci il meccanismo che sta alla base di tutto il suo cinema: quello della suspence.

Cos’è la suspence? si domanda e ci domanda Truffaut.

E’ prima di tutto la drammatizzazione del materiale narrativo di un film o almeno la presentazione più intensa possibile delle situazioni drammatiche.

Un esempio. Un personaggio esce di casa, sale su un taxi e corre verso la stazione per prendere un treno. Una scena normalissima, priva di qualsiasi impatto emotivo. Ma se, prima di salire sul taxi, il personaggio guarda l’orologio e dice: ” Mio Dio, è spaventoso, non prenderò mai quel treno“, il suo percorso, illuminato com’è da questa pessimistica premonizione, diventa una pura scena di suspence. Ogni semaforo, ogni incrocio, ogni vigile, ogni cartello stradale, ogni movimento della leva del cambio vanno ad intensificare e ad esasperare il valore emotivo della scena.

Leggere questo libro consente non solo di essere messi al corrente dei segreti dell’arte di uno dei più grandi cineasti di sempre, ma fornisce anche buoni argomenti a tutti coloro che, giustamente, non condividono la tendenza di alcuni critici cinematografici a separare la forma dal contenuto nel valutare la qualità di un film.
Attraverso questo libro capiamo che Hitchcock non nè un semplice narratore di storie nè un esteta, ma, come scrissero Eric Romher e Claude Chabrol nel loro saggio sul maestro, “uno dei più grandi inventori di forme della storia del cinema“, uno dei pochissimi cineasti nelle cui opere “la forma non abbellisce il contenuto, lo crea

Filippo Cusumano

La casa di Neruda


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Sistemo le foto fatte nel corso dei miei viaggi e mi capitano tra le mani quelle fatte a Valparaiso qualche anno fa.

Avevo tra le mani, durante quel viaggio, la bellissima autobiografia di Pablo Neruda, “Confesso che ho vissuto”.

Che diceva Don Pablo su Valparaiso nel suo libro?

Città “accesa, spumeggiante, dissoluta” dal “luccichio magnetico”.

A me, molto più banalmente, Valparaiso è sembrata soprattutto la città delle scale.

Dritte, storte, larghe, strette, brevi e lunghissime, coprono la città come un manto di rughe sul corpo di una vecchia signora.

Assomiglia a certe nostre città del sud: vecchi palazzi del primo Novecento assediati da abitazioni più recenti e ordinarie, una quantità incredibile di negozietti di alimentari, di frutta e verdure, di ferramenta, di vestiti, che fronteggiano ostinatamente la concorrenza dei rutilanti supermercati della periferia.

Traffico spedito e caotico, giardinetti con le palme, in qualche angolo ricorda Trapani.

Indimenticabile, invece, e folgorante, la casa di Neruda, “la Sebastiana”.

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Cinque piani, due stanze per piano.

In ogni stanza grandi finestre che guardano l’oceano: sembrano quadri dai colori teneri e violenti

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Dappertutto , un po’ come nelle poesie di don Pablo,nelle quali affiorano continuamente immagini insolite e colorite, oggetti sorprendenti e bizzarri: vecchie polene, binocoli, antichi forzieri di legno, bussole, grandi conchiglie.

Ovunque si sente l’impronta di un poeta non abituato ad appaltare all’Ikea la definizione del proprio habitat.

 

America di Kafka

America di Franz Kafka

Karl Rossmann, un allegro sedicenne, viene mandato dai genitori in America perché dimentichi una cameriera che ha messo incinta.

Ben diverso da altri protagonisti della narrativa kafkiana, Karl è vitale, gioioso, ingenuo, non ancora scoraggiato e deluso. Si fida di tutti, si apre a tutti, ha bisogno d’amicizia, d’affetto e di parole come un cane e, se viene offeso, perdona.

Senza volerlo non vuole crescere. Crescere è l’orrore, la consapevolezza del bene e del male.

E’ stato un figlio obbediente e amoroso, devoto e diligentissimo. Non è il classico figlio in conflitto con il padre, tipo il Georg de La Condanna o il Gregorio de La metamorfosi .

Non cerca di uccidere metaforicamente il padre e di prenderne il posto in famiglia.

La colpa che gli vale la condanna, senza appello, all’esilio dalla sua famiglia, in realtà non è una colpa : stata la cameriera, una donna matura e navigata a braccarlo per settimane, costringendolo alla fine, senza che lui nemmeno lo desiderasse, ad un amplesso che Karl ha trovato addirittura ripugnanate.

E’ in pratica vittima di una violenza. E a questa violenza ne segue un’altra quella della cacciata dal tepore fisico e soprattutto affettivo della casa paterna.

Accolto con affetto da uno zio in America, viene da questi allontanato per una piccola mancanza ( non è rientrato a casa all’ora prefissata) non dipendente dalla sua volontà: ancora una condanna senza colpa.

In una delle pagina più strazianti e belle scritte da Kafka il giovane Karl, cacciato dallo zio e rifugiatosi in una sperduta locanda, contempla con nostalgia e dolore infiniti la foto dei suoi genitori, l’Eden di affetto e di calore dal quale è stato cacciato e a cui aveva creduto di essere stato riammesso grazie alla benevolenza dello zio.

Si unisce a questo punto a due vagabondi. Viene assunto come lift in un grande albergo e anche qui, dopo un po’, viene licenziato per una colpa che non è una vera colpa.

Torna dai due vagabondi fino a che non viene assunto dal “”Grande teatro”” di Okalhoma. A questo punto il romanzo, pubblicato postumo, si interrompe.

Tema principale del romanzo è la cacciata dall’eden: per ben tre volte nel romanzo il protagonista viene cacciato senza una vera colpa. (giustamente Piero Citati definisce America “un romanzo teologico con un triplo peccato originale”).

Diversamente da tutte le altre opere di Kafka, qui abbiamo un protagonista che invece di rassegnarsi alla condanna, ogni volta si rialza in piedi, pieno di fiducia in se stesso e in quello che gli riserva l’avvenire.

Il giovane Karl, diversamente dal Gregorio Samsa, che vive chiuso in una stanza e rappresenta una proiezione dell’autore, è estroverso, desideroso di aprirsi al reale, amante dell’avventura oltre ogni limite, pronto a scegliere come compagni di strada lavativi e canaglie d’ogni genere.

Leggere Kafka di solito è molto impegnativo: i personaggi che vengono descritti e i fatti che vengono raccontati hanno un’altissima concentrazione metaforica. Se si vuole capire fino in fondo quello che si legge occorre andare al di là della trama e avere un buona conoscenza dell’uomo Kafka e della sua visione della vita

America, da questo punto di vista è un’eccezione: qui i significati e le allusioni ci assalgono con meno intensità, c’è più spazio per la gioia del racconto per il racconto.

Scrivendo questo romanzo, Kafka aveva in mente come modello uno scrittore lontanissimo da lui, al quale tuttavia, in questo romanzo, si avvicina sorprendentemente: Charles Dickens

Karl Rossman è lontano anni luce da Josef K. O da Gregorio Samsa.

Ma guarda la vita con lo stesso sguardo di David Copperfield e di Oliver Twist

Filippo Cusumano 

Proust in love

Copertina libro

William C. Carter Proust in love, trad. S. Marchegiani, p.295, Castelvecchi, Collana I timoni

“Appena entrata in camera mia, Albertine saltava sul mio letto, e, qualche volta, si metteva a definire il mio tipo di intelligenza, giurava in un impeto sincero che avrebbe preferito morire piuttosto che lasciarmi. Erano i giorni in cui, prima di farla entrare, mi ero rasato”

( Marcel Proust- La prigioniera)

Proust ci dice, sommessamente, che Albertine prova tanto trasporto per il suo ragazzo perchè lui quella mattina si è appena rasato e lei adora la pelle liscia.

Dunque l’ intelligenza dell’amato conta poco nel suo entusiasmo.

Se lui decidesse di non radersi mai più, lei potrebbe lasciarlo domani.

Spesso l’amore scaturisce da qualcosa che noi stessi non siamo in grado di discernere e sparisce all’improvviso per motivi che ci sfuggono.

Pochi scrittori hanno approfondito questo tema con la sensibilità e l’intelligenza di Proust.

Pochi autori come lui hanno abbondantemente attinto dalla propria vita amorosa per farne materia di racconto.

 

Opinione che si rafforza una volta di più leggendo “Proust in Love” una biografia saggio di William Carter che analizza la vita erotica e sentimentale di Proust.

Impossibile non collegare i personaggi del romanzo con le persone che ebbero un ruolo nella vita dello scrittore .

Interessante, ad esempio, a proposito di amore e disamore, quanto ci racconta Carter a proposito di un segretario arruolato da Proust negli ultimi anni della sua vita, un certo Rochat, nel quale sono riconoscibili alcuni dei tratti di Albertine ( anche se, come è noto, il modello principale di Albertine è Alfred Agostinelli, morto qualche anno prima in un incidente di volo, anche lui al servizio di Proust, come autista segretario).

Proust prende in casa Rochat per utilizzarlo come dattilografo.

Gli chiede di leggergli ad alta voce le bozze della Recherche per poi dettargli correzioni o integrazioni del testo.

Ma lui legge così male, che alla fine Proust preferisce far da sè.

Non se la sente di licenziare il suo pupillo, che rimane nell’appartamento occupandone una stanza e impiegando il suo tempo nella produzione di mediocri dipinti.

Proust che all’inizio, preso dal giovane, ne apprezza anche il candore e l’ignoranza e perfino una certa rozzezza di modi, quando l’infatuazione passa, non sopporta più nemmeno la sua vista, fino al punto di brigare con un amico per procurargli un posto in banca niente meno che a Buenos Aires.

In una lettera ad un amico, ci dice Carter, Proust esprime tutta la sua meraviglia per essere riuscito a trovare un’occupazione soddisfacente per Rochat in un posto lontano.

“Una vera impresa da parte mia, visto e considerato il tipo che è” scrive Proust:passata l’infatuazione, ha preso sopravvento il sarcasmo.

Filippo Cusumano

 

Proust: La Recherche sdogana lo snobismo

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Cosa sarebbe La Recherche se Marcel Proust, invece di appartenere ad una famiglia altoborghese, fosse stato allevato da un impiegato del catasto o da un carrettiere?

La sua grandezza sta sicuramente in un talento che ha pochi uguali nella storia della letteratura, ma il suo fascino è solo per metà legato alla sua capacità di scrittura, l’altra metà arriva dall’ambiente che ha frequentato per tutta la vita.

La Recherche cos’è se non la sublimazione – oggi si direbbe lo sdoganamento- dello snobismo?

Leggendo quelle pagine, è impossibile non condividere l’emozione del Narratore al suo primo incontro con la Duchessa di Guermantes o con il Barone di Charlus.

Anche a noi, come a lui e grazie a lui, quei personaggi, appaiono quasi esseri mitologici, creature venute in terra a miracol mostrare.

L’appostarsi del Narratore nei pressi del Palazzo della Duchessa, per avere l’occasione di incontrarla, è come l’appostarsi dei fan vicino all’uscita di un teatro per sorprendere un personaggio dello spettacolo o quello dei curiosi che si recano di buon ora in tribunale per vedere i protagonisti di un fatto di cronaca.

Mai nessun fanatico di qualche grande attrice che […] vada a “far la posta” all’uscita degli artisti, mai folla esasperata o idolatra raccoltasi per ingiuriare o portare in trionfo il criminale o il grand’uomo […] furono mai così commossi come ero io, nell’attesa dell’uscita di quella gran dama, la quale, nella sua semplice toilette, e con la grazia del suo incedere (così differente dal passo che aveva quando entrava in un salotto o in un palco), sapeva fare della sua passeggiata mattutina tutto un poema d’eleganza e l’ornamento più squisito, il fiore più curioso della bella stagione.” (“I Guermantes”)

Anche noi, come il Narratore e grazie a lui, scopriamo poco alla volta le piccole meschinità o i grandi vizi nascosti dietro quelle apparenze scintillanti.

Con il cuore in gola e trattenendo il fiato capita anche a noi, come a lui, di spiare l’amplesso del barone di Charlus con Jupien, restando poi colpiti dalla insensibilità del barone che umilia la devozione del suo amante chiedendo proprio a lui informazioni sui più bei giovanotti del quartiere.

-Non sapete nulla del venditore di castagne qui all’angolo, non quello a sinistra, è un orrore, ma a destra, un ragazzone bruno bruno? E il farmacista qui di fronte ha un ciclista molto carino che porta a casa le medicine?-. Queste domande offesero senza dubbio Jupien, che drizzandosi col dispetto di una grande amorosa tradita rispose: – Vedo che avete un cuore di carciofo-.” ( “Sodoma e Gomorra”)

Cosa c’è di più emozionante che entrare nel mondo di questi semidei affascinanti e misteriosi e scoprire poco alla volta che sono persone normali?

Quale avventura letteraria può essere più intrigante di questa?

Proust era uno scrittore straordinario, nessuno ha avuto e forse avrà mai le sue doti di intelligenza e di sensibilità, la sua prosa ricca senza essere barocca, la sua capacità di analisi.

Ma il segno che ha lasciato è immenso anche grazie a questa specie di Novella 2000 (di livello stratosferico) che ci ha lasciato.

Anche Truman Capote ha provato a scrivere, qualche anno prima di morire, un grande romanzo di gossip. Voleva raccontarci vizi, difetti e personaggi della jet society che lo considerava un suo beniamino da parecchi anni.

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E’ un libro singolarissimo e molto bello , si intitola Preghiere esaudite”.

Peccato che Capote non riuscì a completarlo : non appena uscito il primo volume, tutti i personaggi del gran mondo si riconobbero nei personaggi del romanzo e lo misero al bando.

Lui, che era, come Proust, un autentico snob, ne fece una malattia: non si capacitava che i suoi amici non fossero fieri del fatto di essere stati (impietosamente) messi a nudo da un grandissimo artista.

Filippo Cusumano

Omaggio a Charles Bukowski

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Pochi scrittori nel secolo scorso hanno rappresentato meglio di Charles Bukowski il ruolo dello scrittore e poeta maledetto.

Viveva a Los Angeles e quello che gli piaceva di più, nella vita, era starsene a casa in mutande vicino alla finestra ad ascoltare musica classica e bere birra. Gli piaceva anche scrivere e lo faceva di buona lena, veloce e senza quasi mai avere la necessità di correggere.

Mentre batto a macchina la gente passa / per lo più donne

e io siedo in calzoncini / ( a volte a torso nudo)

e passando loro / non possono essere sicure che io non sia completamente

nudo, così / mi becco queste facce

che fingono di non vedere / nulla

ma non ci credo: / mi vedono mentre

sudo sulla poesia come se battessi / a morte un maiale

mentre il sole comincia a scendere / su Sunset Boulevard

sopra l’insegna del motel / dove gente stanca dell’Arkansas e dello Iowa

paga troppo per dormire / sognando le stelle del cinema.


Non amava uscire, se non per andare a comprarsi la birra o alle corse dei cavalli.

Giocava fino alla penultima corsa ( andava sempre via durante l’ultima per evitare la ressa).

Se aveva vinto riteneva giusto festeggiare con una bella mangiata, se aveva perso si consolava allo stesso modo.

Gli piacevano i ristoranti economici, ordinava grosse bistecche con l’osso, ben cotte e con patate arrosto.

Era alto, aveva una faccia paonazza con un gran nasone, capelli ricci e arruffati, barba incolta e una pancia molliccia e debordante.

Era di carattere assai lunatico: a volte gentile, più spesso insofferente e attaccabrighe.

Il suo libro che mi ha più divertito , tra i molti che ha lasciato, è Donne.

Una volta l’ho consigliato ad una mia amica, che dopo averlo letto mi ha aggredito, dicendomi: come puoi avermi consigliato un libro così maschilista?

In realtà non è un libro maschilista, è il libro di un uomo che trova noiosi quasi tutti i suoi simili e cerca di starsene il più possibile per i fatti suoi.

Una sua frase che mi ha sempre divertito è questa:

Le persone per me sono come i sassolini bianchi; anzi, no: i sassolini bianchi non sono poi così male

Insomma si comportava “male” sia con gli uomini che con le donne e sempre per lo stesso motivo: non vuole farsene condizionare.

I suoi libri sono privi di finzione; gli avvenimenti descritti sono così vicini a quelli della sua vita che spesso le sue donne o gli amici si sono lamentati della sua indiscrezione trovando pezzi della loro esistenza riversati senza abbellimenti o modifiche nei suoi racconti.

E il linguaggio? a volte è scurrile, ma più spesso è poetico.

Ci sono dentro la passione per la scrittura, per l’altro sesso, per la libertà.

Gli ultimi anni della sua vita sono stati molto ricchi di soddisfazione dal punto di vista professionale ed economico.

A lungo, fin quasi ai sessant’anni, era stato uno scrittore fallito, costretto a muoversi con un maggiolino del ’70 di colore azzurro e a vivere in appartamenti cadenti e squallidi in compagnia di donne sempre meno leggiadre .

Improvvisamente, con la fama ed il successo, si potè permettere una bella casa con la piscina, una BMW nera (quando incontrò Norman Mailer e scoprì che ne aveva una eguale disse a se stesso che le Bmw nere erano, evidentemente, le auto dei duri) e una bellissima compagna con i capelli biondi ( una specie di Jane Fonda da giovane).

E quando, a qualsiasi ora della notte e del giorno, si presentavano da lui frotte di ragazzini adoranti con in mano le classiche confezioni di birra da sei lattine di birra per avere finalmente l’opportunità di conoscerlo, lui reagiva un po’ frastornato e indeciso ( tra l’accoglierli e confermare il proprio mito e mandarli a stendere e confermarlo …comunque).

Si era un po’ addolcito con gli anni e le comodità ( lui avrebbe detto rammollito o peggio ) e , potendo ormai permetterselo, preferiva il buon vino bianco alla pessima birra in lattine che aveva bevuto nei primi sessant’anni della sua vita.

Fosse vissuto nel secolo precedente, gli sarebbe capitato quello che capitava una volta a tutti gli artisti maledetti: fino alla fine dei suoi giorni una vita grama ed un enorme talento ignorato da tutti, per poi avere la gloria a cinquant’anni dalla morte.

A lui è capitato invece di godere di alcuni scampoli di gloria negli ultimissimi anni della sua vita. Ha continuato ad essere imprevedibile e irrequieto fino alla fine, ma se ne è andato, contento, continuando a rallegrarsi e a stupirsi del suo pur tardivo successo

e pensare che , dopo che me ne sarò andato,

ci saranno ancora giorni per altri, altri giorni,

altre notti,

cani che passeggiano, alberi che si agitano

nel vento.

non lascerò molto.

forse, qualcosa da leggere.

una cipolla selvatica nella strada

sventrata.

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Filippo Cusumano

Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati

Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati

Edizioni Mondadori- 2007-

Collana Classici moderni

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Il più bel romanzo breve della letteratura italiana del ‘900? Mi vengono in mente due titoli:

Agostino” di Moravia e “Don Giovanni in Sicilia” di Brancati.

Il secondo è però di gran lunga il più divertente

Vitaliano Brancati scrive il “Don Giovanni ” nel 1940.

Protagonista del romanzo è Giovanni Percolla, un uomo cresciuto nella bambagia, coccolato da tre sorelle.

Timidissimo, è giunto all’età di trentasei anni senza “aver mai baciato una signorina per bene”.
Frequenta, in compenso, le case di tolleranza della città e nei caffè all’aperto, insieme con gli amici di sempre, non fa altro che parlare della Donna .

Le più belle pagine del romanzo sono proprio quelle che descrivono questi discorsi “tra maschi”.

C’è sempre una bella donna che passa, catalizzando su di sè gli sguardi cupi di desiderio degli sfaccendati, e c’è sempre qualcuno che, ad un certo punto, incomincia a dire: “Adesso io vi dico con quella cosa ci farei”, con gli altri che prontamente si accodano a lui in un crescendo di gemiti e ululati, di risate, di scurrilità e di sconcezze.

L’esistenza di Giovanni scorre pigra e senza stimoli fino al giorno in cui incontra Ninetta, giovane donna continentale di bell’aspetto che, con suo grandissimo stupore, inizia a guardarlo con ammirazione.

Giovanni è letteralmente trafitto da quegli sguardi.

“La storia più importante di Catania non è quella dei costumi, del commercio, degli edifici e delle rivolte, ma la storia degli sguardi.

La vita della città è piena di avvenimenti, amori, insulti, solo negli sguardi che corrono fra uomini e donne; nel resto, è povera e noiosa“.

Completamente ammaliato, Giovanni non può più vivere senza pensare a quel vivo “lampo dei suoi occhi”.

Per la prima volta si innamora.

Le sue consuetudini vengono sconvolte da questa passione.

Le tre sorelle lo osservano sgomente: Giovanni ora chiede di farsi il bagno ogni domenica, canta proprio nell’ora in cui era solito far la siesta, respinge tutto ciò che loro amorosamente gli offrono.

Alla fine, nonostante una sempre dichiarata contrarietà all’istituto del matrimonio, che aveva quasi eretto a filosofia di vita, sposa Ninetta.

Accetta quindi un posto di lavoro a Milano.

Lontano da Catania e dalla sua vischiosa routine, diventa un altro uomo, risoluto e dinamico. Si abitua a fare docce fredde ogni mattina, dedica mezz’ora al giorno alla ginnastica. Cambia anche fisicamente: stomaco piatto, mascelle volitive, andatura energica. Conosce molte belle donne, che conquista senza eccessivo sforzo, pur continuando ad amare la moglie.

Quando Ninetta resta incinta, ritorna a Catania.

Tornato nella casa delle sorelle con la moglie, dopo un lauto pranzo, chiede, quasi più per un soprassalto di curiosità che per nostalgia delle antiche consuetudini, di poter schiacciare un sonnellino nella sua vecchia camera da scapolo.

Sdraiatosi con l’intenzione di dormire una mezz’oretta, si risveglia verso le sette di sera.

E’ la metafora di ciò che il libro non descrive, ma lascia largamente intuire: Giovanni, dopo aver violentato se stesso per amore di una donna, fino a diventare un altro uomo, è pronto a ritornare alle antiche pigrizie e alle dolci abitudini di un tempo.

Gustosissimo e ironico, il romanzo condensa in poco più di un centinaio di pagine la storia dell’eterno dilemma che ci affligge: lasciarsi vivere o dare un senso alla propria vita, realizzandosi attraverso l’amore e il lavoro? Ansioso di essere, oltre che amato, anche ammirato dalla moglie, Giovanni si sforza a lungo di diventare un altro, ma alla fine cede alla sua natura indolente.

Ma il romanzo è anche un piccolo feroce ritratto della sicilianità.

Inevitabile, leggendolo, pensare alle considerazioni che Tomasi di Lampedusa una quindicina d’anni dopo metterà in bocca al protagonista del “Gattopardo“, il principe di Salina, nel fargli teorizzare l’impossibilità dei Siciliani a redimersi dalla loro “terrificante insularità d’animo”:

“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a svagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi, la crosta è già fatta”

Filippo Cusumano