Perchè Baricco – recensione di Castelli di rabbia, Alessandro Baricco

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Rizzoli 1991

Quando un giorno qualcuno scriverà una storia della letteratura italiana di fine secolo, e come sempre accade con il passare del tempo saranno sopite le polemiche, estinte le piccinerie e le acrimonie, perdonate le immodestie, svaporate le invidie che si agitano nel mondo delle lettere, quel qualcuno dovrebbe accorgersi che il torinese Alessandro Baricco ha squarciato come un fulmine il cielo stantio della cultura italiana dell’ultimo decennio del ‘900, e tributargli il dovuto riconoscimento, fosse solo per aver scritto un libro come Castelli di rabbia, indipendentemente dalla sua produzione successiva.

Di solito Baricco lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo: c’è chi stravede per la sua letteratura e chi la disprezza, chi lo ritiene un divo delle lettere e chi lo relega nella paccottiglia della pseudoletteratura postmoderna fatta di niente. Qui giocano molto i sentimenti, le visioni del mondo, i paesaggi delle proprie emozioni, e anche parecchia supponenza: ho sentito affermare che la scrittura di Baricco è insulsa, ma chi lo diceva come metro di paragone letterario poteva vantare, sì e no, appena le antologie scolastiche; altri dotti sedotti dallo stile accattivante si sgolano in peana celebrativi del più originale scrittore italiano, senza aver mai letto, per esempio, Marinetti o Gadda. È qualcosa che si agita in pancia, insomma, a dire l’ultima parola, a decretare il podio nell’Olimpo degli Scrittori. Per la gente di mestiere ci sono altre implicazioni, non sempre limpide…

Comunque, proviamo a ripercorrere il panorama della letteratura italiana degli anni Ottanta: bisogna ricordare cosa c’era prima per capire la rilevanza storica di un libro come Castelli di rabbia.

Eccezioni più o meno illustri a parte (e in quanto tali non caratterizzanti il decennio), il panorama è piatto, ripetitivo e omogeneizzato, quindi rassicurante. Lasciati alle spalle i conflitti ideologici e sociali, che pur avevano provocato un continuo laboratorio letterario, la scrittura si è normalizzata nella linearità stilistica, in un manierismo osservante, un treno che fila liscio e diritto alla conclusione scontata senza nemmeno portare via con sé la marinettiana nostalgia dell’anima di chi lo vede passare, e soprattutto senza scartare, senza deviare dal tracciato sintattico. Se deviazione talvolta c’è, allora serve soltanto a produrre scandalo autoreferenziale, più un’oscenità verbale che un linguaggio stilisticamente dirompente.

“In ogni decennio del Novecento c’è stato un modo particolare di essere nuovi. Tranne che negli anni Ottanta. Ecco la novità: non si dicono nuovi, si limitano a dichiararsi giovani (…) Morta la storia, conta l’età” (Walter Pedullà, Le caramelle di Musil).

Questo literary correct che ha esiliato sperimentalismo e avanguardia (la letteratura non deve disturbare), privo di marcatezza espressiva ma livellato su una volgarità di marca tratta dal parlato comune, si ritira nel pragmatismo di corto respiro, nel minimalismo diaristico o autobiografico, “favole familiari, o ideologiche, ad alto tasso consolatorio” che disertano l’unico, vero, importante appuntamento: “rendere visibile, nella scrittura e nello stile, la realtà del cambiamento che stava spazzando via un mondo e la sua memoria” (Severino Cesari, Narratori dell’eccesso).

Riassumendo: compasso di stile dalla forma impeccabile apprezzata agli esami di Stato al gergo giovanilistico, innovatività strutturale zero, tutti contenti. Vale a dire: una noia pazzesca.

Tutti contenti finchè arriva Baricco, e allora apriti cielo. Durante un’intervista, il vanitoso (a ragion veduta) e peraltro ancora ingenuo Alessandro Baricco, alla domanda (poco originale): perché hai scritto questo libro, se ne esce candidamente con questa risposta (molto originale): perché era il libro che volevo leggere e non trovavo da nessuna parte. Complimenti.

Eppure, immediata antipatia a parte, questa risposta contiene già tutta la cifra dell’autore: Baricco viaggia a frequenze letterarie piuttosto alte per la media italiana, comunica l’idea che la letteratura dovrebbe essere qualcosa di travolgente e appassionante, un incanto, una materia da sogno come sapevano lavorarla Flaubert, Salinger, Gadda, Dickens, Conrad, Céline, tanto per citare alcuni dei suoi autori preferiti, e tuttavia nuova, mai fatta prima, svelando anche il dato, indiscutibile, che una simile letteratura nell’Italia di allora non c’è (e forse non c’è nemmeno oggi). All’epoca ciò che causò un certo fastidio non fu tanto la superbia di tale atteggiamento (peraltro piuttosto diffusa nel mondo delle lettere) quanto il fatto che un intero modo di scrivere e di interpretare la letteratura venisse colato a picco da un esordiente di trentatre anni, un signor nessuno a quei tempi, con un romanzo inimitabile che raggiunse subito la cinquina finalista del Premio Campiello 1991.

Tante cose che si dicono sul conto di Baricco, alcune vere e altre pure malignità, sul fatto che lui sia un animale da palcoscenico, che sia diventato qualcuno solo grazie alla televisione, che sia un abile affabulatore, più un comunicatore che uno scrittore, e così via, rapportate all’epoca non reggono: niente tv, qualcosa alla radio, qualche articolo di critica musicale, uno studio difficilissimo (per chi non ha dimestichezza con il linguaggio filosofico e con le architetture musicali) su Rossini, e perciò passato inosservato. Tutto qui.

Castelli di rabbia, scritto presumibilmente tra il 1988 e il 1990 (calcolo mio e del tutto opinabile), è talmente innovativo che l’editore inizialmente ha qualche dubbio sull’opportunità commerciale del testo: il libro è bello, gli dice, ma lo leggeranno pochi. Se Baricco fosse stato un giovane di belle speranze, che senza nessun aggancio spedisce per posta il suo manoscritto all’editore aspettando fiducioso una risposta, avremmo corso il rischio di non conoscere mai la sua opera. Ma Baricco l’aggancio ce l’ha. Cito da un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2003: “A decidere di pubblicare Castelli di rabbia fu Gianandrea Piccioli, ma il mio capo in Rizzoli era Giovanni Ungarelli (…)”. Può avere sbagliato termine (difficile però, conoscendolo), ma uno che parla di un “suo capo”, mi vien da pensare, con quella persona ha già un rapporto di lavoro (editor? correttore di bozze?). Comunque sia, Baricco conosce Ungarelli e Ungarelli conosce Baricco, e in Rizzoli lo stimano al punto di decidere la pubblicazione del romanzo nonostante tutto: improvviso e inaspettato successo, di critica e di pubblico.

Eppure Castelli di rabbia non è il libro di maggior successo di Alessandro Baricco. Da una statistica, per quanto datata ma che racchiude i risultati raggiunti in un decennio, leggo che mentre Oceano mare è arrivato a 650.000 copie vendute, Seta a 730.000, Castelli di rabbia si attesta solo (solo…) su 465.000 copie (dati del 2002). Fatte salve nuove e più aggiornate statistiche commerciali, le cifre possono suggerire qualche indizio sulla successiva dinamica delle opere di Baricco, sempre di valore ma in qualche modo addolcite, rettificate, smussate di quelle asperità stilistiche e strutturali, ma anche di quelle esagerazioni dovute allo sperimentalismo entusiasta di un giovane scrittore, che possono intimorire o irritare i lettori. Che Alessandro Baricco sia particolarmente attento ai gusti e alle aspettative del pubblico, lo si può ricavare anche da un suo Barnum, dove a proposito di “cannibali” e affini, dice più o meno: se il mondo delle lettere diventerà questo, ci adatteremo, però di notte giù in cantina a leggere Melville (sarebbe interessante approfondire il rapporto nostalgia del passato-curiosità del nuovo nella poetica di Baricco).

E dunque, Castelli di rabbia. Leggere questo romanzo è una vera soddisfazione intellettuale difficilmente comparabile. La preziosità e la freschezza della scrittura ti prende e non ti porta propriamente da nessuna parte, nel senso che ti fa viaggiare in un paesaggio multiforme dove vedi tutto senza mai chiederti dove tu stia andando. In altre parole il romanzo, è questa una delle sue caratteristiche innovative, non ha un fine e nemmeno una fine propriamente detta (c’è chi sostiene che Baricco sbaglia tutti i finali dei suoi romanzi: in realtà credo che quel tipo di finale/non finale sia voluto, come le frasi senza punto e incompiute che si trovano nelle sue pagine), non è teleologico, non ci vuole dire niente di definitivo. Immaginate che anziché narrare una storia secondo la sua linearità naturale, si trascuri la sequenza logica, cronologica e teleologica dei fatti e si racconti del tizio che fabbricò un oggetto, delle implicazioni esistenziali e filosofiche relative al fatto che siano state inventate certe macchine, con qualche digressione storica stile monografia, si lascino irrompere sconosciuti (non-personaggi) che raccontano qualcos’altro, si inseriscano battute spiritose, pezzi di comicità, dialoghi spezzati, dialoghi spiazzanti, monologhi non interpellati, ripetizioni di ritmo, il silenzio abbagliante di spazi e pagine bianche, aforismi incongrui, voci imperfette, materiali eterogenei, anche grafici, che si inseguono fino a cadere là dove devono cadere, svelando una traccia, un indizio, un’ipotesi, o forse soltanto l’illusione di aver compreso una direzione, per poi virare e spingersi altrove, mantenendo tuttavia una rotta invisibile, tale per cui la trama della fatalità letteraria c’è ma non si vede, e tutto è soltanto paesaggio. Ecco, Castelli di rabbia è più o meno così.

Il collante di questa polifonia o polilogia è il linguaggio, la voce narrante dell’autore che uniforma nell’espressione il tutto, però attraverso una pluralità di registri formali non caratterizzanti i personaggi, peraltro allegorici (cfr. Alessandro Scarsella, Alessandro Baricco): l’analfabeta si esprime come l’istruito, lo straniero come il nativo, ma lo fa ora con il registro lirico, ora con quello aulico, ora con quello volgare, ora con quello teatrale, senza preavviso, senza cioè introdurre il contesto del dialogo e senza finalità descrittiva o esplicativa della narrazione.

Baricco non ha inventato i singoli componenti formali dell’opera (rinvenibili separatamente in una vasta gamma di autori, soprattutto stranieri, dalla pagina bianca di Sterne all’onomastica astrusa alla Dickens, fino a certe asintatticità di Céline e alla famosa barra / che ricorda Derrida, benché Baricco la usi come ulteriore e nuovo segno di punteggiatura – di partitura musicale quasi – e non come distinzione-rivelazione di disseminazione semantica), ha inventato un nuovo modo di assemblarli, e qui sta la sua genialità creativa, la capacità di rievocare atmosfere ottocentesche ricostruite con il montaggio di un film americano (cfr. Fernanda Pivano, L’ultima parola: America, prefazione a Castelli di rabbia) e di emozionare il lettore come nessun revival ottocentesco e nessuna americanata potrebbero mai fare.

Qui c’è tanto talento, passione e sapienza: non so quantificare il volume di libri letti da Baricco prima di mettersi a scrivere, certo che la sua laurea in Filosofia Estetica con tesi su Adorno deve avergli fornito parecchio materiale di indagine, vale a dire tecniche e trucchi del mestiere.

Eppure le caratteristiche che fanno di Castelli di rabbia una novità preziosa, una vetta di abilità e di sofisticata talentuosità nella palude degli anni Ottanta, sono le stesse che leggono e interpretano il cambiamento della cultura, determinando la morte del letterario consolidato nella tradizione italiana e spalancando le porte ad una nuova narrativa (postmoderna?).

È forse per tale motivo che più di uno studioso, abbagliato inizialmente dalla qualità innovativa del romanzo, scambiata per elegante sperimentalismo, è rimasto deluso dalle opere successive di Baricco, rimproverandogli il tradimento delle attese “di verticalizzante complessità che sarebbe (stato?) lecito aspettarsi da lui” (Tommaso Pomilio, Le narrative generazionali dagli anni Ottanta agli anni Novanta).

In effetti non c’è stata progressione sperimentale, ma il perfezionamento di una tavolozza di colori tutta già fissata in Castelli di rabbia, matrice di un nuovo modo di fare letteratura che Baricco ha, seppur variamente, replicato nei lavori successivi.

È improprio, a questo punto, parlare di delusione: oltre al fatto che tutti gli scrittori si attestano su modelli ritenuti soddisfacenti per la loro espressione artistica, benché perfettibili, e c’è chi li trova dopo una lunga e magari clandestina esperienza, come il portoghese Saramago, e chi invece ha la fortuna e la prerogativa di individuarli subito, a trentatre anni, è proprio la decostruzione del romanzo (in senso derridiano: non ci sono verità da comunicare nel romanzo, non c’è dunque la morale della storia, per cui molti al termine della lettura provano quella sensazione disorientante che si riassume in uno smarrito: e allora?) del romanzo tradizionalmente inteso a fare di Castelli di rabbia un modello formale di un nuovo modo di fare letteratura, replicabile come lo sono stati i modelli formali del passato.

Dopo un romanzo come questo, nulla, in letteratura, potrà più essere come prima.

Mauro Del Bianco

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10 comments

  1. “Dopo un romanzo come questo, nulla, in letteratura, potrà più essere come prima.”
    Iniziando dalla fine della splendida anamnesi cui Mauro Del Bianco ci accompagna, ci suggerisce la strada appena intravista per accostarci a uno dei maggiori scrittori della nostra epoca. Alessandro Baricco è Castelli di rabbia, ma è anche Oceano mare, così come City, un’ossidiana lucente e grezza allo stesso tempo, la forza di un brillante, in un corpo incompiuto. Céline, Carver, Dickens, Gadda, se non Flaubert, Salinger, Conrad, e molteplici sfaccettature lucenti prese a prestito dalla letteratura mondiale. Ricordi, quadri, pennellate di sensazioni, umori appena accennati, scrivere versi come dipingere, come tracciare sagome indefinite, come Monèt, sprazzi di colore e di umore in quelle parole. Come Picasso, tra i volti dei ritratti, come Michelangelo nelle sue ultime pietà. Forma staccata dalla materia. E’ scrittura narrativa? Baricco, racconta le sue storie inserendole in ambienti magici, irreali, sovrannaturali. Pone i personaggi in un mondo che non esiste, narrazione surrealista. Si vedevano chiari e forti i tratti delle “déjeuner sur l’herbe” di Picasso? Cosa l’ha turbato, a tal punto da decostruire, innovare e in quel modo rinnovare ciò che già “nuovo” era, nella tela di Manet?
    Baricco ci prende, ci rapisce e ci conduce nelle mille e una notte, inaugura una scrittura moderna oltre la modernità. E’ rivoluzione. E’ sogno. E’ utopia letteraria.
    Che cosa deve darci di più un racconto?

    1. Baricco è un autore che si merita l’apprezzamento deglio elettori, ha volte qualcuno non capisce il senso di un libro e quindi dicono cose disprezzanti un libro; il libro che mi ha colpito è stato emmaus.
      Un libro molto intenso e pieno di emozioni che servono veramente, sono contenta di aver letto un suo libro perchè ho capito che c’è un autore che entra nei suoi libri.

    2. baricco si merita l’ammirazione dei lettori perchè è un grande autore sa quelloo che scrive e sa come attirare l’attenzione dei lettori, i suoi libri sono molto belli e hanno un significato che alcune persone non capiscono. I suoi libri di danno un senso di tranquillità e serenità per questo mi piace leggerlo ma non solo una volta ma tante.
      Il libro che mi piace di più è Emmaus ma anche Oceano Mare sono i due che mi hanno colpito maggiormente, questo non significa che gli altri libri non mi piacciono perchè sono lo stesso stupendi. Baricco è un autore veramente eccezionale pieno di idee e con un fascino letterario.

  2. Non mi piace “fissarmi” su un solo attore, un cantante o un determinato scrittore.
    Ma per Baricco ho fatto un eccezione, dopo aver letto Novecento mi ha praticamente catturata con il suo modo di scrivere, di esprimersi nei libri. Poi ho letto Oceano Mare, così per curiosità, trovato per sbaglio sulla mensola della libreria.. Beh non ci sono state parole, a bocca aperta con la testa immersa nelle pagine e tra l’inchiostro delle lettere.
    Seta mi ha decisamente interrotta un attimo, mi credevo chissà cosa, una storia infinita o un amore indimenticabile.. Invece il contrario, un intreccio di sguardi e nient altro, in poche pagine e paroline semplici. Sta sera inizio Castelli di Rabbia, spero mi stupisca come Oceano Mare; in ogni caso Baricco è il mio tipo ideale 😀

  3. Le discussioni in merito alla bravura di Baricco nascono, a mio avviso da un equivoco: Baricco non è uno scrittore bensì un affabulatore. Possiede la capacità di catturare il lettore che “entra” nel fluire musicale della sua scrittura mentre l’autore si immerge nello stile che, di volta in volta, sceglie di interpretare. Castelli di rabbia è, a mio avviso, uno dei suoi libri più belli.

  4. Ho iniziato a leggere baricco da Emmaus, e mi è piaciuto molto. Scorrevole, un intreccio che ti cattura, parla di giovani, di come siamo e di cosa saremo e mi ci sono “immedesimata ” subito, a 17 anni è facile, soprattutto se si legge quel libro.
    Poi Novecento. La mia insegnante di italiano ci ha letto qquest’anno qualche pagina il primo giorno di scuola del I liceo (3 anno classico) e la storia mi ha commossa.
    Poi Oceano Mare, iniziato a leggere in gita a Firenze e finito due mesi dopo, per motivi di studio. La prima parte è noiosa a mio avviso, ma è solo uno scoglio da superare prima di buttarsi nella storia, che ti avvolge.. Penso ad Adams e ad Elisewin, miei personaggi preferiti: uno ha passato all’altra le storie del mondo semplicemente amando.
    Successivamente, in piena fase baricco, ho comprato questa storia. Ho provato a leggerlo, forse il periodo era sbagliato, e non mi è piaciuto. La storia è interessante, mi piace come lui scrive, ma non sono riuscita a finirlo. Castelli di rabbia a tratti mi è piaciuto a tratti no, ma non è fra i miei preferiti. Sinceramente non lo consiglio, trovo l’intreccio troppo “intrecciato”, ti perdi davvero.. lunghe frasi, troppi artifici moderni, la narrazione fa fatica ad andare avanti.
    Non si discute che baricco sia un grande scrittore, capace di mixare perfettamente il classico e il moderno, di far commuovere, emozionare, ridere (in oceano mare ho pianto dalle risate quando quel poverino ha fatto avantin e indietro dall’amata cercando di darle le lettere ma non la trovava mai), semplicemente di raccontare.
    Come tutti gli scrittori ha delle opere mal riuscite (si pensi ad Eco: sublime nel nome della rosa, pesante e prolisso nel cimitero di praga), e penso che castelli di rabbia sia tra questi.

  5. Castelli di rabbia…. È!
    Castelli di rabbia mi ha inevitabilmente incantato. Proprio nel suo intreccio a prima vista troppo intricato sono riuscito a capirlo, a scoprirlo. Ho capito che c’è un senso anche al suo dilungarsi troppo in parti descrittive che inizialmente mi lasciavano troppo lontano da quel magnifico viaggio che mi stava facendo percorrere. L’aspetto migliore del libro, quello che mi ha sorpreso, sono gli spostamenti temporali nella storia. Come il treno che riusciva con il suo orologio sempre preciso a far coincidere 2 orari di due città che vivevano in 2 tempi diversi, così noi leggendo siamo saliti stessi su quel treno ed è ovvio che quando siamo arrivati abbiamo trovato un tempo diverso da quello di partenza… Dietro il vetro di quel libro abbiamo visto le nostre paure e andavamo veloci, come girando su se stessi vorticosamente. Castelli di rabbia, si potrebbe stare a parlarne a lungo… Però, magnifico.

  6. cmq potevi parlare un pò del libro.. cioè dei temi e non solo dell’impatto..visto che si tratta di una recensione..
    il libro mi è piaciuto tanto stavo solo cercando delle conferme a delle mie impressioni!!

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