
LA LEGGENDA DI VILLON
Jean Teulé, Io, François Villon, Neri Pozza Editore 2007
Su François Villon si sono accumulate nell’arco di più di cinquecento anni parecchie leggende, sorte sia per la scarsità di documentazione e di informazioni biografiche, sia soprattutto per il fatto che François Villon il 9 gennaio 1463 sparì nel nulla, riassorbito nell’anonimato nebbioso e lupesco di una Francia medievale al tramonto.
Jean Teulé ha scritto un romanzo (è bene sottolinearlo fin dall’inizio: trattasi di romanzo e quindi di opera di fantasia) nel quale lo stesso François Villon narra in prima persona la propria vicenda dalla nascita fino a quel giorno di gennaio in cui fu bandito da Parigi. Per ricostruire una presunta autobiografia del poeta, Teulé si è avvalso di elementi storici di contorno, dei dati desumibili dai documenti giudiziari che riguardano Villon e delle notizie che possono essere ricavate dai versi delle sue opere. Ne scaturisce una storia crudissima, il ritratto di un personaggio abietto, calato in un disgustoso contesto di violenza iperbolica e di sozzura materiale e morale, un quadro iperrealistico, assai prossimo all’immaginario veicolato dalle recenti pellicole sul Medioevo che privilegiano il grand-guignol.
Ciò non toglie che il romanzo sia comunque un’opera di valore oltre che ben scritta, strutturata su un gioco di luci e ombre che non esclude anzi esalta, in mezzo a tanta raccapricciante desolazione, la sensibilità a tratti commovente che riesce a filtrare. Ma non è di questo che qui si tratta, non cioè del valore intrinseco dell’opera letteraria di Teulé, bensì dell’equivoco che essa può ingenerare nel lettore sprovveduto che potrebbe scambiare questo romanzo per la vera biografia di François Villon (e in tal senso una nota introduttiva nell’edizione italiana non sarebbe stata superflua).
Il libro di Teulé rappresenta infatti una delle possibili interpretazioni dell’enigma Villon. Ce ne sono state e ne sono possibili altre. La leggenda di François Villon nasce mentre lui è presumibilmente ancora vivo, nell’ambito dei chierici e dei goliardi della Parigi universitaria, quando circolano soltanto manoscritti delle sue opere, si accresce con la prima edizione a stampa del 1489, viene ripresa nel Quart Livre da Rabelais che inventa due aneddoti sulla fase misteriosa successiva al 9 gennaio 1463, uno che vede Villon alla corte inglese di Edoardo V e un altro che lo descrive ormai vecchio, farceur impegnato ad allestire rappresentazioni teatrali.
In questa mitologica nebulosa, dove con il passare del tempo e il venir meno delle fonti di prima mano si allargano le zone d’ombra, tra il Romanticismo e il Decadentismo (i documenti giudiziari relativi alle malefatte e alle condanne di Villon saranno scoperti solo a partire dal 1873) si assiste all’invenzione del personaggio Villon come una sorta di consapevole ribelle all’ordine costituito, di anarchico fuorilegge in lotta contro il potere della Chiesa, di ironico e beffardo fustigatore dei costumi e del perbenismo borghesi, archetipo del poeta maudit, maestro di Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fino ad arrivare all’assunzione del nome del poeta quale pseudonimo da parte dell’artista d’avanguardia Gaston Duchamp (alias Jacques Villon). Ovviamente ne deriva un’esaltazione romantica e sublimata di quella che in realtà è stata probabilmente un’esistenza molto più prosaica.
Nel caso del romanzo di Teulé l’esagerazione interpretativa di Villon, se così si può definire, va in direzione opposta, attraverso l’ingrandimento degli aspetti più brutali e amorali ricavabili dal suo tempo e dalle sue opere nonché dalla scarna biografia giudiziaria, calcando su episodi non provati o inventandone di nuovi (ma è pur sempre un romanzo e quindi giustificabile): per esempio la nascita di Villon nello stesso giorno in cui Giovanna d’Arco è arsa sul rogo, l’appartenenza del poeta ai Coquillards e la partecipazione alle loro imprese sanguinarie, la storia d’amore con Isabelle, l’oltraggio bestiale commesso nei confronti dell’amata (amata?), la violenza subita per proteggere il suo tutore.
Le perplessità riguardo al François Villon storico cominciano con la sua vera identità, in quanto non è certo se si chiamasse François de Montcorbier ovvero des Loges. La sua data di nascita è ipotetica, desunta dall’inizio del Testamento (“Nell’anno della mia trentesima età (…) l’ho scritto nell’anno sessantuno“) e fatta quindi coincidere con l’anno 1431 (lo stesso in cui fu bruciata Giovanna d’Arco), ma occorre tener presente che la datazione annuale allora non seguiva l’anno solare bensì andava da una Pasqua all’altra, e quindi potrebbe non trattarsi del 1431 secondo l’attuale datazione. Una donna di nome Ysabeau compare nella “Lettera di remissione concessa dal re Carlo VII a maître François de Montcorbier, colpevole dell’omicidio di Phelippe Sermoise, prete“, in quanto presente al momento della rissa nel corso della quale Villon uccise il Sermoise che l’aveva aggredito. Una Ysabeau appare fugacemente anche al verso 1580 del Testamento, subito dopo Jacqueline e Perrecte, tre nomi di giovani amiche dei chierici, forse prostitute: di certo non una donna che per Villon rappresentasse un qualche legame affettivo. E ancora: Colin de Cayeux, che nel romanzo riveste il ruolo di feroce capo della banda dei Coquillards, era il figlio di un fabbro del quartiere di Saint-Benoît (il quartiere della Riva Sinistra dove era cresciuto Villon) che partecipò con il poeta al furto al Collegio di Navarra. Era un chierico come Villon (e non quindi uno sconosciuto incontrato nei bagni pubblici), baro e scassinatore, che fu processato dal tribunale di Parigi e impiccato nel settembre 1460, ricordato dal poeta nei versi 1674-1675 del Testamento. Di lui Villon parla anche nelle Ballate in gergo (Ballata II verso 4) chiamandolo Collin l’escailler, cioè “venditore di conchiglie”, quale presunto membro della banda dei Coquillards. In ogni caso si ritiene che se Villon abbia fatto parte (e in proposito ci sono forti dubbi) di tale congrega brigantesca, della quale peraltro dimostra di conoscere bene il gergo, ciò sia avvenuto solo dopo il colpo al Collegio di Navarra (mentre nel romanzo la sua affiliazione tramite un furto ignobile, l’omicidio di una prostituta e la consegna di Isabelle ai briganti che la stuprano, avviene prima).
In entrambe le versioni dell’apoteosi (quella romantica e ideologica da una parte e quella iperrealistica dall’altra) la premessa è costituita dall’accettare senza remore e come pura verità quanto scrisse Villon, ritenendo che le sue opere siano strettamente autobiografiche e interpretabili come storiche, mentre potrebbe essere percorribile un’altra strada, ovvero che si tratti di superba finzione letteraria, del primo tentativo nella storia della letteratura moderna di gioco letterario, di esercizio di stile. Negli ultimi anni la critica si è indirizzata verso quest’ultima ipotesi, negando ogni valore autobiografico a nomi, eventi, situazioni citati nelle opere di Villon.
Certo, anche questa è un’esagerazione tecnicistica, perché qualcosa di storico e di personale nell’opera di Villon c’è sicuramente. Tuttavia questo dogmatismo formalista sviluppatosi negli ultimi trent’anni ha avuto il merito di dare una sterzata importante nell’ermeneutica letteraria per evadere finalmente dall’ovatta (o dalla fogna) immaginaria in cui riposava il personaggio Villon e non il poeta Villon.
Che François Villon fosse un tipo poco raccomandabile, amante del vizio, disposto a rubare, a sguainare la daga e ad uccidere (cosa del resto abbastanza frequente a quei tempi), non è posto in dubbio. La sua era un’epoca di crisi, in cui gli ideali e i valori metafisici del Medioevo erano stati demoliti da una guerra lunga cent’anni, dalle epidemie di peste, dalle miserie umane che ne erano derivate. Il trono del re non appariva più come un’investitura dall’alto dei cieli, ma come una posta in gioco per intriganti ed arrivisti. Parigi stessa, dimenticata dal re e occupata dagli inglesi, sconvolta dalla guerra civile tra armagnacchi e borgognoni, era diventata il campo di battaglia (dapprima goliardica e poi drammaticamente sanguinosa) tra le due Rive della Senna, la Riva Sinistra delle chiese e delle università e la Riva Destra dei quartieri mercantili e borghesi, una lotta tra il passato e il presente, tra lo spirito e la materia, come ricorda Jean Teulé, e dove arbitro e tiranno era il Prevosto con i suoi “valletti del diavolo”, una sorta di governatore e relativi scherani.
Che tuttavia Villon fosse consapevole in tale contesto di un suo ruolo socialmente eversivo o se ne compiacesse, è indimostrabile, e molto probabilmente falso. Nei versi di Villon si incontra viceversa una sofferta coscienza della propria condizione, accettata con fatalismo (“facendomi Saturno il fagottello, ci mise, penso, il suo prezzo“) e spesso con ironia (dalla famosa quartina: “e grazie alla corda lunga una tesa, saprà il mio collo quanto il mio culo pesa“), la tristezza e il rimpianto di un maître che sarebbe potuto diventare un agiato e rispettato docente universitario (quindi nessun astio per l’ordine costituito, per la Chiesa e per i borghesi, anzi) e che invece si è lasciato condurre sulla strada del vizio, sciupando la sua vita. È motivo ricorrente infatti il rimpianto della giovinezza perduta, della vita che scivola via, come neve che si scioglie e si dissipa nel nulla: sembra quasi la malinconia di un discolo consapevole delle bricconate compiute, della loro ineluttabilità e vacuità e dell’impossibilità di goderne ancora.
Ma le maschere che Villon assume nei suoi versi sono così diverse, molteplici e contraddittorie, il gioco di specchi è così frequente, l’ambiguità così ricercata, che non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra la verità della sua vita e la fantasia poetica. D’altra parte è questa incoerenza che ne ha fatto un grande nella storia delle lettere: egli è il primo poeta francese che rompe gli schemi della letteratura cortese medievale, che fa del pastiche linguistico la sua cifra letteraria, che affrontando temi scabrosi e scandalosi fa conoscere un mondo immondo che la letteratura precedente aveva volutamente ignorato. Se c’è un aspetto rivoluzionario in Villon è tecnicamente letterario e risiede nell’eversione dei modelli, degli stili e degli stereotipi fino ad allora vigenti.
Scrive a tal proposito Emma Stojkovic Mazzariol (François Villon: un enigma letterario, in François Villon, Opere, Meridiani Mondadori, 2000): “Usando tutti i linguaggi, da quello alto e nobile a quello dimesso e quotidiano, da quello pomposo e retorico a quello osceno o criptico dei bassifondi, Villon infrange tutte le barriere che separano i vari codici, li sottopone, mettendoli a raffronto, a una specie di incessante contestazione linguistica che, liberandoli dai sensi paralizzati, li restituisce a una rinnovata vitalità espressiva. Che l’effetto ultimo di questa riutilizzazione simultanea di tutti i temi, i codici, i registri, i ritmi fissati e catalogati dal sistema retorico del tempo sia quello di una tensione dialettica generante una continua, e spesso paradossale, ambiguità del dire, è un dato strutturale del testo che è estremamente pericoloso tentare di risolvere mediante referenti biografici.”
Resta il mistero di cosa fece Villon dopo il bando da Parigi, perché non scrisse più o, se scrisse ancora, perché nulla ci è pervenuto, dove andò, cosa gli capitò, come morì. È un’ignoranza in un certo senso emozionante, mitopoietica, da scriverci un altro romanzo a partire dalle ultime righe del romanzo di Teulé:
“Racconteranno più tardi di essere stati gli ultimi a vedere Villon, che stavo in cima alla collina e il mio abito sbatteva, agitato dal vento (…) e che poi ho cominciato a scendere sull’altro versante della collina. Diranno che a sparire per primi dietro il crinale furono i piedi, poi le gambe e infine il busto. Affermeranno che, a un certo punto, rimaneva solo il profilo della mia povera testa, che pareva fluttuare nell’aria come il pianeta Saturno, e poi giureranno bestemmiando di aver visto la testa dissolversi di colpo nella luce, come quando si entra nell’eternità… e che da allora nessuno ha più saputo nulla di me.“
Mauro Del Bianco