Month: agosto 2008

Il ritorno del Principe ( ovvero il volto osceno del potere)

La mafia è solo quello che vediamo in tv?

Cioè solamente pecorai e agricoltori semianalfabeti che diventano miliardari organizzando il racket delle estorsioni o il traffico internazionale della cocaina?

Questa è solo la versione di comodo.

Quella alla quale siamo portati a credere quando un vecchio malandato e di aspetto quasi miserevole come Bernardo Provenzano viene scovato, dopo un’infinità di appostamenti, in una vecchia masseria dai muri scrostati.

Fatichiamo a credere che quell’uomo rozzo e sanguinario dallo sguardo impenetrabile abbia un patrimonio di parecchi milioni di euro e le mani in pasta in tutti i più lucrosi affari del Paese, dagli appalti pubblici alla gestione della sanità.

Fatichiamo a credere ( anche se i mass media provano in tutti i modi a convincerci che è così) che dietro quell’uomo non possano esserci appoggi politici importanti e menti raffinatissime.

Leggendo il bellissimo libro di Roberto Scarpinato, pubblico ministero antimafia di Palermo, intitolato “Il ritorno del Principe”, si rafforza questa convinzione che abbiamo sempre avuta, che mafia e corruzione siano ormai costitutive del potere nel nostro paese

Ricordate il “Principe” di Machiavelli?

In politica, diceva Macchiavelli. qualsiasi mezzo è lecito.

C’è un braccio armato (anche le stragi sono utili alla politica del Principe), ci sono i volti impresentabili di Riina, Provenzano, Lo Piccolo, e poi c’è la borghesia mafiosa e presentabile che frequenta i salotti buoni e riesce a piazzare i suoi uomini in Parlamento.

Ma il potere è lo stesso, la mano è la stessa.

II libro “Il ritorno del Principe” è questo: racconta l’oscenità del potere ( dove osceno ha il suo significato etimologico di “fuori scena”), quello che non si vede e non è mai stato raccontato ma che decide, fa politica e piega le leggi ai propri interessi.

Ci avviamo verso una democrazia mafiosa?

Gli italiani possono reagire, è già successo, dice Scarpinato. Per esempio con la stagione di Tangentopoli, quando sembrò che il popolo italiano fosse disponibile ad un soprassalto di indignazione.

Come è andata a finire lo sappiamo.

Adesso quelli che ricordano con nostalgia quel periodo sono bollati come giustizialisti.

Accosto Scarpinato alla fine della presentazione del suo libro e scambio due parole con lui.

Mi dice che l’unica speranza è rappresentata dal fatto che, volenti o nolenti, apparteniamo all’Europa e questo impedirà ai più spregiudicati dei nostri governanti molte mosse che lui definisce “oscene

Sulla dedica che appone alla mia copia del suo libro scrive: “Sperando nell’Europa”

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American Psyco – Bret Easton Ellis – 1991

una precisazione prima di tutto.

non andate a vedere il film, è una vera cazzata e nulla ha a che fare con il libro.

AMERICAN PSYCO

il libro che ha dovuto vincere, negli USA, una causa per la libertà di espressione per poter essere pubblicato.

il libro che l’associazione stampatori americani ha rifiutato di pubblicare e si è vista costretta a farlo dopo il rischio di risarcimento danni esorbitante all’autore…..

sapevo queste cose, ed ovviamente l’ho comperato subito anni fa appena l’hanno tradotto.

American Psyco è un libro di una violenza esorbitante, oltre il descrivibile.

E’ un libro stupendo, che essenzialmente parla di Patrick Bateman, un ricco figlio di papà completamente pazzo.

un pazzo bellissimo, con un volto ed un fisico strepitoso, vestito Armani, con scarpe Prada e borse Bottega Veneta….

peccato sia il più letale fottuto serial killer psicotico della storia dei romanzi….

Il libro, tramite Patrick, è una satira sociale cattivissima sulla società dei consumi, dove uno come Patrick è al di là di ogni sospetto perchè è bello, ricco e bianco, e quindi lui non è nemmeno sfiorato dalle indagini.

Dove l’immagine sostituisce il vuoto anteriore, di un sociopatico che la mattina guarda immagini di stragi ridendo, che fa a pezzi le sue donne ascoltando gli Eurithmics, e che per ridere manda pezzi del corpo ai genitori in scatole da regalo….

American Psyco è un libro cattivissimo, violentissimo, ma va assolutamente letto, e va letto ascoltando durante la lettura questi cantanti: Eurithmics, Duran Duran, INXS.

Non mi assumo responsabilità per i deboli di stomaco, c’è una scena con una donna nuda legata ad un pavimento a gambe aperte, un tubo dove non dovrebbe esserci ed un topo affamato, ed uno spettatore che ride della scena e filma il tutto….

Se reggete questo leggete il libro, altrimenti passate oltre, American Psyco è clamoroso ma non è davvero per tutti.

E mi raccomando, non guardate quella cagata del film, hanno dovuto tagliare TUTTE le scene violente del libro (diventava un horror e comunque certe scene avrebbero reso Saw un film della Disney…)

Una notte piena di pioggia un libraio…

Stefan Zweig, Mendel dei libri, Adelphi Edizioni 2008

Chissà quali immagini, quali pensieri, saranno balenati nella mente di Stefan Zweig, gettando uno sguardo distratto nella trasparenza del bovindo della sua casa, se quella poteva definirsi la sua casa, sulla lussureggiante vegetazione tropicale che circondava il cottage di Petropolis, Stato di Rio de Janeiro, Brasile, un giorno d’estate australe, nel febbraio del 1942, il 22 febbraio. Quali pensieri, quali immagini, prima di compiere l’ultimo atto, non sulla carta, filtro sterilizzato per accogliere una realtà purificata dal male, ma sul proprio corpo e sulla propria anima, su se stesso e sulla moglie Lotte: non inchiostro da stillare su fogli candidi per cominciare una nuova traduzione del mondo, ma Veronal da iniettare nelle vene per farla finita con il mondo, insieme, a 878 metri d’altitudine sulla Serra da Estrela, centro di soggiorno estivo per i carioca ricchi che possono fuggire dalla canicola di Rio. C’è chi può permettersi il lusso di fuggire dal caldo soffocante, basta percorrere una sessantina di chilometri sulla ferrovia di Manà o sull’autostrada, e chi è obbligato invece a fuggire dal proprio universo per non soffocare, e non gli basteranno nemmeno gli stivali delle sette leghe. Parlano tedesco da quelle parti, ce ne sono tanti di emigrati, ma non è la stessa cosa che a Salisburgo e a Vienna, e poi Vienna e Salisburgo non sono più le stesse, niente è più lo stesso in Europa, nella Mitteleuropa, nelle contrade fiabesche di Cisleitania e Transleitania che non esistono più. Il mondo di ieri non è soltanto il libro di ricordi che Stefan sta scrivendo, è qualcosa che realmente è stato ed altrettanto inesorabilmente e crudelmente è sparito. Dev’essere la constatazione che la vita, la realtà, il mondo non sono carta, non sono soltanto carta… dev’essere che Lotte sta male, sempre più male… dev’essere il male che lui si porta dentro e che non ha nome, se non per algebrici specialisti che indagano l’anima… dev’essere che non c’è più speranza e quindi non vale la pena continuare a scrivere, quando è caduto anche l’ultimo conforto o alibi che “i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio“, perché se tutto è cambiato, se nulla sarà mai come prima, chi potrà capire, chi potrà ricordare, chi potrà commuoversi al cospetto delle nostre miserie…

E di tutte quelle biografie messe in scena con sorprendente originalità, che avevano fatto di lui il principe dei saggisti austriaci, quale sarà stata l’ultimo suo pensiero: Dostoevskij? Stendhal? Tolstoj? Ovvero il più umile e insignificante Jakob Mendel, rigattiere di libri usati, intangibile e fantasmatico anonimo, come tutti i personaggi della letteratura, che lui aveva creato per occupare lo spazio di una novella?

Una sera di qualche anno prima, parecchi anni prima, il senso del tempo è labile come quello della vita, diversi anni prima a Vienna, una sera viennese piena di pioggia e un caffè di periferia “pervaso dall’atmosfera familiare della vecchia Vienna, dall'”indolente apatia che, invisibile, emana come un narcotico da ogni vero caffè viennese“, il ricordo sfuggente e riluttante di qualcosa, di qualcuno, “invisibile come il chiodo nel legno” rimasto dopo vent’anni nel locale fumoso, dove c’era la sala da gioco: biliardi “oziosi come silenti stagni verdi” e un tavolino riservato, e un uomo, Jakob Mendel che “leggeva come altri pregano” dondolando “il busto come una divinità orientale“.

Jakob Mendel era uno che dei libri aveva fatto il senso della propria vita, e quanto assomigliava in questo al suo inventore, che credeva nella letteratura come si crede in una religione. Solo che Mendel i libri non li leggeva, si limitava a catalogarli nel suo cervello: titolo, autore, prezzo, edizione. Tutti i libri del mondo. Una memoria prodigiosa e una concentrazione quasi magica, da monaco tibetano, che gli consentivano di sapere tutto dei libri, come oggetti, non come opere d’arte o tesori di sapienza. Lui leggeva per tutto il tempo, leggeva cataloghi. Mandava a memoria interi cataloghi.

Jakob Mendel non viveva, “vivevano solo gli occhi dietro le lenti da vista e alimentavano senza posa, con parole titoli e nomi, quell’enigmatica sostanza che era il suo cervello (…) tutto il resto gli scorreva accanto come vuoto rumore.” L’unica concessione alla mondanità era un balenio di vanità nei suoi occhi al pensiero che nessun altro poteva fornire con assoluta certezza le informazioni che studenti, ricercatori, studiosi, collezionisti si affannavano a cercare. E quanto narcisismo c’è, di fatto, nello scrivere letteratura?

“(…) l’unicità diventa ogni giorno più preziosa in questo nostro mondo che irrimediabilmente va facendosi sempre più uniforme“.

E incombe questo mondo, continua ad avanzare e a divenire incessantemente, fagocitando tutto nel suo inevitabile rotolare uniforme: carta, belle parole, belle idee, vite intere. Anche la vita di Mendel, risucchiato nei meccanismi stritolanti di una realtà che si è permesso di ignorare, e che lo distrugge, nel cuore e nella carne, e gli porta via prima la libertà, poi gli occhiali, “magico telescopio per contemplare il mondo dello spirito“, poi il rispetto degli altri esseri umani, e quindi via via, in una caduta lenta ed inesorabile, la dignità, la memoria, la salute, fino a condurlo alla morte.

Mendel dei libri è la storia di una caduta, di un uomo punito dalla realtà per averla rifiutata, del cultore di un distacco che non incide sulla realtà in un confronto che ha per fine il dominio e quindi il superamento spirituale del divenire (compito di ogni autentico asceta), ma che si manifesta come un’incompetenza a vivere risolta nella fuga, uno pseudo-ascetismo che nel suo anacronistico apparire può destare ammirazione e meraviglia, ma che non può trovare posto in un mondo invadente e desacralizzato, talmente desacralizzato da non saper stimare nemmeno l’innocua erudizione enciclopedica di un rigattiere di libri.

E se questo è stato il destino di un misero libraio, quale speranza potrà avere chi si è spinto più in là, al sapere contenuto nei libri, e addirittura ha commesso il delitto di amarli e di scriverli? Ci sarà anche per lui una vecchia cara ignorante signora, custode della toilette, per conservare nel cuore l’affetto e la memoria, così ignorante da preservare, tra tutti i libri che le mani di Mendel avevano accarezzato, un volume di oscenità e pruderie? O resterà soltanto l’effimera immagine del proprio cadavere sbattuta oscenamente sulle prime pagine dei giornali, che il mondo guarderà e dimenticherà senza pudore?

Basta, deve aver pensato Stefan Zweig (come lo penseranno di lì a poco anche altri scrittori europei, benchè per motivi diversi, ma tutti sofferenti dello stesso disgusto dell’esistenza), basta con tutto ciò: lo squallore, l’insipienza, la brutalità, il mondo che incombe…

Un ultimo sguardo alla finestra, alla realtà in trasparenza, e poi il veleno.

Stefan e Lotte, abbandonati sul letto, lui supino e lei coricata su un fianco, vicini, amorevolmente vicini e tuttavia ormai lontani, da se stessi e dal mondo.

Mauro Del Bianco

Se Dio è buono, allora perché?

ALTRI DÈI di Andrea B. Nardi
Se Dio è buono, allora perché?
Viaggio tra le dottrine che non credono nell’amore di Dio.
Eumeswil Edizioni


Finalmente un libro che risponde alla domanda fondamentale che tutti quanti ci poniamo per l’intera vita: se Dio è buono, allora perché consente il male?

Questo libro di Andrea B. Nardi è costituito da circa 143 pagine di introduzione e da tre pagine di libro vero e proprio. E, per quanto possa sembrare bizzarro, va bene così.

L’introduzione è, in sostanza, una serie di schede sulle diverse risposte date dall’umanità – prevalentemente, ma non solo, dall’umanità cosiddetta “occidentale”, ovvero “greco-mesopotamico-ebraico-cristiana” – a una domanda non da poco: se una divinità esiste, e se questa divinità pare pensabile solo come potentissima, magari onnipotente, e fondamentalmente orientata al bene, com’è che il mondo è pieno di male? Nardi non scheda tutte le soluzioni – ci vorrebbe un’intera biblioteca – ma certamente le più significative per noi e per il nostro tempo; e il testo ha il pregio della semplicità, sia d’esposizione sia di lessico, della precisione, e soprattutto della passione. Perché si sente bene, si vede bene, che per Nardi la questione è una questione vitale. Si sente bene, si vede bene, che Nardi non fa qui collezionismo teologico, ma cerca di capire con quali carte ci si gioca la vita: tutta la vita, anche eventualmente quella eterna.

Dalla risposta a questa domanda enorme, infatti, dipende la risposta a un’altra domanduccia: se la creatura sia libera o no (dico “la creatura” e non “l’uomo”, perché la domanda può essere posta non solo sull’uomo, ma anche sul mondo intero, o sulle altre creature quali gli angeli, i demoni, gli animali, i vegetali, i virus eccetera). Infatti, stringi stringi, pare che secondo buona parte delle tradizioni il male sia stato generato da un atto di libertà. Lucifero poteva starsene lì a lodare il dio in eterno: usò la libertà, e cercò fortuna in altro modo. Eva poteva astenersi dal frutto dell’albero proibito: usò la libertà, e convinse anche Adamo a usarla, con le conseguenze che sappiamo. È legittima quindi un’altra domanda: che relazione c’è tra la libertà e il male?

E qui si arriva, dopo le 143 pagine d’introduzione, alla sostanza del libro. A quelle tre paginette pudicamente confinate in “Appendice”, nelle quali Nardi scrive un’ipotesi di risposta alle tre domande di cui. Un’ipotesi appuntata, scrive Nardi, per un eventuale “futuro studio”. E l’ipotesi è, semplicemente: si è liberi solo se non si può scegliere.

Questo libro riporta, nelle prime pagine, una breve storia. Tre condannati, due adulti e un bambino, vengono impiccati. I due adulti muoiono in fretta, il bambino agonizza mezz’ora. Tra le persone costrette ad assistere allo spettacolo, una dice: “Dov’è dunque dio?”. E un’altra risponde: “È lì, appeso a quella forca”. Si può leggere questa storia nichilisticamente: il dio è morto, l’hanno impiccato, e buonanotte al secchio. Si può leggerla cristianamente, ricordando che Gesù disse: “Qualunque cosa avrete fatto a questi piccoli, l’avrete fatta a me”, e immaginando il dio tutto impegnato ad allestire per quelle povere persone il più confortante dei Paradisi.

Si può leggerla anche, e forse è il modo più misterioso, pensando che solo l’agonizzante, al quale più nessuna scelta può essere offerta, gode di una libertà paragonabile a quella che attribuiamo al dio.

Giobbe, privato di tutto e reso quasi agonizzante, fece cattivo uso della sua ultima residua possibilità di scelta: poteva interrogare, e scelse di interrogare. E fu così insistente e petulante da meritarsi uno dei più impressionanti cazziatoni di tutta la storia dell’umanità: il dio spostò una nube di qua e una nube di là, si affacciò dall’alto dei cieli, e disse: “Io sono il dio, e pertanto faccio quello che voglio. Chi sei tu per chiedermi conto?”. Mentiva, naturalmente, il buon dio, mentiva per bontà, per non terrorizzare Giobbe: egli, infatti, il dio, poiché è libero, non può scegliere, non ha nessuna scelta, e quindi nemmeno vuole, letteralmente, nulla. Onnipotente, ottuso e impavido abita nel cielo – e, per un amore incomprensibile, non abbandona gli umani.

Giulio Mozzi

La leggenda di Villon

LA LEGGENDA DI VILLON

Jean Teulé, Io, François Villon, Neri Pozza Editore 2007

Su François Villon si sono accumulate nell’arco di più di cinquecento anni parecchie leggende, sorte sia per la scarsità di documentazione e di informazioni biografiche, sia soprattutto per il fatto che François Villon il 9 gennaio 1463 sparì nel nulla, riassorbito nell’anonimato nebbioso e lupesco di una Francia medievale al tramonto.

Jean Teulé ha scritto un romanzo (è bene sottolinearlo fin dall’inizio: trattasi di romanzo e quindi di opera di fantasia) nel quale lo stesso François Villon narra in prima persona la propria vicenda dalla nascita fino a quel giorno di gennaio in cui fu bandito da Parigi. Per ricostruire una presunta autobiografia del poeta, Teulé si è avvalso di elementi storici di contorno, dei dati desumibili dai documenti giudiziari che riguardano Villon e delle notizie che possono essere ricavate dai versi delle sue opere. Ne scaturisce una storia crudissima, il ritratto di un personaggio abietto, calato in un disgustoso contesto di violenza iperbolica e di sozzura materiale e morale, un quadro iperrealistico, assai prossimo all’immaginario veicolato dalle recenti pellicole sul Medioevo che privilegiano il grand-guignol.

Ciò non toglie che il romanzo sia comunque un’opera di valore oltre che ben scritta, strutturata su un gioco di luci e ombre che non esclude anzi esalta, in mezzo a tanta raccapricciante desolazione, la sensibilità a tratti commovente che riesce a filtrare. Ma non è di questo che qui si tratta, non cioè del valore intrinseco dell’opera letteraria di Teulé, bensì dell’equivoco che essa può ingenerare nel lettore sprovveduto che potrebbe scambiare questo romanzo per la vera biografia di François Villon (e in tal senso una nota introduttiva nell’edizione italiana non sarebbe stata superflua).

Il libro di Teulé rappresenta infatti una delle possibili interpretazioni dell’enigma Villon. Ce ne sono state e ne sono possibili altre. La leggenda di François Villon nasce mentre lui è presumibilmente ancora vivo, nell’ambito dei chierici e dei goliardi della Parigi universitaria, quando circolano soltanto manoscritti delle sue opere, si accresce con la prima edizione a stampa del 1489, viene ripresa nel Quart Livre da Rabelais che inventa due aneddoti sulla fase misteriosa successiva al 9 gennaio 1463, uno che vede Villon alla corte inglese di Edoardo V e un altro che lo descrive ormai vecchio, farceur impegnato ad allestire rappresentazioni teatrali.

In questa mitologica nebulosa, dove con il passare del tempo e il venir meno delle fonti di prima mano si allargano le zone d’ombra, tra il Romanticismo e il Decadentismo (i documenti giudiziari relativi alle malefatte e alle condanne di Villon saranno scoperti solo a partire dal 1873) si assiste all’invenzione del personaggio Villon come una sorta di consapevole ribelle all’ordine costituito, di anarchico fuorilegge in lotta contro il potere della Chiesa, di ironico e beffardo fustigatore dei costumi e del perbenismo borghesi, archetipo del poeta maudit, maestro di Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fino ad arrivare all’assunzione del nome del poeta quale pseudonimo da parte dell’artista d’avanguardia Gaston Duchamp (alias Jacques Villon). Ovviamente ne deriva un’esaltazione romantica e sublimata di quella che in realtà è stata probabilmente un’esistenza molto più prosaica.

Nel caso del romanzo di Teulé l’esagerazione interpretativa di Villon, se così si può definire, va in direzione opposta, attraverso l’ingrandimento degli aspetti più brutali e amorali ricavabili dal suo tempo e dalle sue opere nonché dalla scarna biografia giudiziaria, calcando su episodi non provati o inventandone di nuovi (ma è pur sempre un romanzo e quindi giustificabile): per esempio la nascita di Villon nello stesso giorno in cui Giovanna d’Arco è arsa sul rogo, l’appartenenza del poeta ai Coquillards e la partecipazione alle loro imprese sanguinarie, la storia d’amore con Isabelle, l’oltraggio bestiale commesso nei confronti dell’amata (amata?), la violenza subita per proteggere il suo tutore.

Le perplessità riguardo al François Villon storico cominciano con la sua vera identità, in quanto non è certo se si chiamasse François de Montcorbier ovvero des Loges. La sua data di nascita è ipotetica, desunta dall’inizio del Testamento (“Nell’anno della mia trentesima età (…) l’ho scritto nell’anno sessantuno“) e fatta quindi coincidere con l’anno 1431 (lo stesso in cui fu bruciata Giovanna d’Arco), ma occorre tener presente che la datazione annuale allora non seguiva l’anno solare bensì andava da una Pasqua all’altra, e quindi potrebbe non trattarsi del 1431 secondo l’attuale datazione. Una donna di nome Ysabeau compare nella “Lettera di remissione concessa dal re Carlo VII a maître François de Montcorbier, colpevole dell’omicidio di Phelippe Sermoise, prete“, in quanto presente al momento della rissa nel corso della quale Villon uccise il Sermoise che l’aveva aggredito. Una Ysabeau appare fugacemente anche al verso 1580 del Testamento, subito dopo Jacqueline e Perrecte, tre nomi di giovani amiche dei chierici, forse prostitute: di certo non una donna che per Villon rappresentasse un qualche legame affettivo. E ancora: Colin de Cayeux, che nel romanzo riveste il ruolo di feroce capo della banda dei Coquillards, era il figlio di un fabbro del quartiere di Saint-Benoît (il quartiere della Riva Sinistra dove era cresciuto Villon) che partecipò con il poeta al furto al Collegio di Navarra. Era un chierico come Villon (e non quindi uno sconosciuto incontrato nei bagni pubblici), baro e scassinatore, che fu processato dal tribunale di Parigi e impiccato nel settembre 1460, ricordato dal poeta nei versi 1674-1675 del Testamento. Di lui Villon parla anche nelle Ballate in gergo (Ballata II verso 4) chiamandolo Collin l’escailler, cioè “venditore di conchiglie”, quale presunto membro della banda dei Coquillards. In ogni caso si ritiene che se Villon abbia fatto parte (e in proposito ci sono forti dubbi) di tale congrega brigantesca, della quale peraltro dimostra di conoscere bene il gergo, ciò sia avvenuto solo dopo il colpo al Collegio di Navarra (mentre nel romanzo la sua affiliazione tramite un furto ignobile, l’omicidio di una prostituta e la consegna di Isabelle ai briganti che la stuprano, avviene prima).

In entrambe le versioni dell’apoteosi (quella romantica e ideologica da una parte e quella iperrealistica dall’altra) la premessa è costituita dall’accettare senza remore e come pura verità quanto scrisse Villon, ritenendo che le sue opere siano strettamente autobiografiche e interpretabili come storiche, mentre potrebbe essere percorribile un’altra strada, ovvero che si tratti di superba finzione letteraria, del primo tentativo nella storia della letteratura moderna di gioco letterario, di esercizio di stile. Negli ultimi anni la critica si è indirizzata verso quest’ultima ipotesi, negando ogni valore autobiografico a nomi, eventi, situazioni citati nelle opere di Villon.

Certo, anche questa è un’esagerazione tecnicistica, perché qualcosa di storico e di personale nell’opera di Villon c’è sicuramente. Tuttavia questo dogmatismo formalista sviluppatosi negli ultimi trent’anni ha avuto il merito di dare una sterzata importante nell’ermeneutica letteraria per evadere finalmente dall’ovatta (o dalla fogna) immaginaria in cui riposava il personaggio Villon e non il poeta Villon.

Che François Villon fosse un tipo poco raccomandabile, amante del vizio, disposto a rubare, a sguainare la daga e ad uccidere (cosa del resto abbastanza frequente a quei tempi), non è posto in dubbio. La sua era un’epoca di crisi, in cui gli ideali e i valori metafisici del Medioevo erano stati demoliti da una guerra lunga cent’anni, dalle epidemie di peste, dalle miserie umane che ne erano derivate. Il trono del re non appariva più come un’investitura dall’alto dei cieli, ma come una posta in gioco per intriganti ed arrivisti. Parigi stessa, dimenticata dal re e occupata dagli inglesi, sconvolta dalla guerra civile tra armagnacchi e borgognoni, era diventata il campo di battaglia (dapprima goliardica e poi drammaticamente sanguinosa) tra le due Rive della Senna, la Riva Sinistra delle chiese e delle università e la Riva Destra dei quartieri mercantili e borghesi, una lotta tra il passato e il presente, tra lo spirito e la materia, come ricorda Jean Teulé, e dove arbitro e tiranno era il Prevosto con i suoi “valletti del diavolo”, una sorta di governatore e relativi scherani.

Che tuttavia Villon fosse consapevole in tale contesto di un suo ruolo socialmente eversivo o se ne compiacesse, è indimostrabile, e molto probabilmente falso. Nei versi di Villon si incontra viceversa una sofferta coscienza della propria condizione, accettata con fatalismo (“facendomi Saturno il fagottello, ci mise, penso, il suo prezzo“) e spesso con ironia (dalla famosa quartina: “e grazie alla corda lunga una tesa, saprà il mio collo quanto il mio culo pesa“), la tristezza e il rimpianto di un maître che sarebbe potuto diventare un agiato e rispettato docente universitario (quindi nessun astio per l’ordine costituito, per la Chiesa e per i borghesi, anzi) e che invece si è lasciato condurre sulla strada del vizio, sciupando la sua vita. È motivo ricorrente infatti il rimpianto della giovinezza perduta, della vita che scivola via, come neve che si scioglie e si dissipa nel nulla: sembra quasi la malinconia di un discolo consapevole delle bricconate compiute, della loro ineluttabilità e vacuità e dell’impossibilità di goderne ancora.

Ma le maschere che Villon assume nei suoi versi sono così diverse, molteplici e contraddittorie, il gioco di specchi è così frequente, l’ambiguità così ricercata, che non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra la verità della sua vita e la fantasia poetica. D’altra parte è questa incoerenza che ne ha fatto un grande nella storia delle lettere: egli è il primo poeta francese che rompe gli schemi della letteratura cortese medievale, che fa del pastiche linguistico la sua cifra letteraria, che affrontando temi scabrosi e scandalosi fa conoscere un mondo immondo che la letteratura precedente aveva volutamente ignorato. Se c’è un aspetto rivoluzionario in Villon è tecnicamente letterario e risiede nell’eversione dei modelli, degli stili e degli stereotipi fino ad allora vigenti.

Scrive a tal proposito Emma Stojkovic Mazzariol (François Villon: un enigma letterario, in François Villon, Opere, Meridiani Mondadori, 2000): “Usando tutti i linguaggi, da quello alto e nobile a quello dimesso e quotidiano, da quello pomposo e retorico a quello osceno o criptico dei bassifondi, Villon infrange tutte le barriere che separano i vari codici, li sottopone, mettendoli a raffronto, a una specie di incessante contestazione linguistica che, liberandoli dai sensi paralizzati, li restituisce a una rinnovata vitalità espressiva. Che l’effetto ultimo di questa riutilizzazione simultanea di tutti i temi, i codici, i registri, i ritmi fissati e catalogati dal sistema retorico del tempo sia quello di una tensione dialettica generante una continua, e spesso paradossale, ambiguità del dire, è un dato strutturale del testo che è estremamente pericoloso tentare di risolvere mediante referenti biografici.”

Resta il mistero di cosa fece Villon dopo il bando da Parigi, perché non scrisse più o, se scrisse ancora, perché nulla ci è pervenuto, dove andò, cosa gli capitò, come morì. È un’ignoranza in un certo senso emozionante, mitopoietica, da scriverci un altro romanzo a partire dalle ultime righe del romanzo di Teulé:

Racconteranno più tardi di essere stati gli ultimi a vedere Villon, che stavo in cima alla collina e il mio abito sbatteva, agitato dal vento (…) e che poi ho cominciato a scendere sull’altro versante della collina. Diranno che a sparire per primi dietro il crinale furono i piedi, poi le gambe e infine il busto. Affermeranno che, a un certo punto, rimaneva solo il profilo della mia povera testa, che pareva fluttuare nell’aria come il pianeta Saturno, e poi giureranno bestemmiando di aver visto la testa dissolversi di colpo nella luce, come quando si entra nell’eternità… e che da allora nessuno ha più saputo nulla di me.

Mauro Del Bianco