Month: Maggio 2008

Franz Kafka, l’avventura di scrivere raccontata alla fidanzata.

Nel 1912 Franz Kafka inizia una corrispondenza con una giovane Berlinese, Felice Bauer, con la quale si fidanzerà dopo qualche tempo.

Il rapporto tra i due che che si incontrarono raramente (in tutto una manciata di giorni in cinque anni!) fu molto tormentato, soprattutto per il timore di Kafka che il matrimonio potesse sottrarre spazio alla sua attività di scrittura.

In molte lettere è proprio la sua attività di scrittore che viene “raccontata” alla fidanzata.

Sin dalle prime lettere affiora il conflitto tra il Kafka che vorrebbe dedicare tutto il suo tempo a comunicare con la fidanzata e quello per il quale l’ispirazione letteraria è uno stato di grazia.

In una lettera dell’11 novembre del 1912, c’è un primo accenno al “dovere” di scrivere, che rischia di entrare in conflitto con il piacere della corrispondenza amorosa:

“E da ora in poi le scriverò soltanto lettere brevi […] anche perché devo impegnarmi fino all’ultimo respiro per il mio romanzo “.

La costruzione del romanzo sta procedendo con felicità e facilità di slancio creativo inusitate nella vita dello scrittore.

Il manoscritto de Il disperso gli sembra, dopo anni di tentativi andati a vuoto, come il primo solido punto d’approdo della sua arte.

” E’ questo il primo lavoro di una certa mole nel quale, dopo un tormento di 15 anni, sconfortato salvo qualche momento, mi sento al sicuro da un mese e mezzo in qua.

In una lettera di pochi giorni dopo ( 23 novembre) troviamo un riferimento a “La metamorfosi”, il lungo racconto iniziato da Kafka, mettendo temporaneamente da parte “Il disperso”

All’inizio della lettera si chiede se sia il caso di darlo da leggere a Felice:

“Dartelo da leggere? come faccio? anche se l’avessi già terminato. Scritto così è quasi illeggibile. […] Sarebbe bello mandarti questo racconto ed essere intanto costretto a tenerti la mano, perché la storia è un po’ paurosa. E’ intitolato Metamorfosi, ti incuterebbe molta paura e forse ne faresti a meno perché paura ti devo fare purtroppo ogni giorno con le mie lettere”.

Kafka scrive La metamorfosi in pochissime notti. L’eccitazione creativa che gli consente di concludere in un tempo brevissimo quello che forse è il più bel racconto del Novecento ed uno dei più belli della letteratura di tutti i tempi, è palpabile nella lettera successiva del 24 novembre.

“Ora è già arrivato un pezzo oltre la metà e io, in complesso non ne sono insoddisfatto, ma è nauseante oltre ogni limite, e queste cose, vedi, vengono dal medesimo cuore nel quale stai tu, quello in cui tolleri di soggiornare. Non esserne rattristata perché, si sa, quanto più vivo e quanto più mi libero, tanto più divento forse puro e degno di te, ma certo ci sono in me ancora molte cose da eliminare e le notti non possono essere lunghe abbastanza per questo lavoro che d’altronde è estremamente voluttuoso”

Quanti messaggi più o meno espliciti contiene il passo di questa lettera!

Primo : questo io sono, l’uomo che ti ama è lo stesso che produce” queste cose”, il cuore che soffre per te è lo stesso dal quale partono le storie che scrivo.

Secondo: più mi libero delle storie che ho dentro più sono degno di te.

Terzo: Molte sono le storie che albergano dentro di me e che devo tirar fuori ed il tempo che posso dedicare a questo è insufficiente

Quarto: portare alla luce questa parte di me è un piacere estremo.

Si delinea, per la prima volta, il potenziale conflitto tra il sentimento verso Felice e il divorante amore per la scrittura.

Kafka vede nel suo talento l’unica attrattiva ragionevolmente esibibile. Non c’è un passo delle sue lettere in cui esalti di se alcuna caratteristica fisica o morale. I toni nel parlare di sé sono sempre quelli dell’autoironia, quando non della più feroce autodenigrazione.

Ma quando arriva a parlare delle sue opere il tono cambia. Quando dice che di un racconto come La Metamorfosi, del cui valore è impossibile non sia stato pienamente consapevole, “non ne sono insoddisfatto”, il tono è un altro: quello di chi sa di essere un artista e pretende di essere considerato, quanto meno se non soprattutto, dalla sua amata come tale.

Ignoriamo il contenuto delle lettere di Felice, ma appare evidente da quelle che scrive Kafka che il suo interessamento per l’opera letteraria dell’amato è sempre assolutamente inferiore alle attese.

Illuminante una lettera del 30 dicembre del 1912. Kafka ha inviato a Felice La meditazione, una raccolta dei suoi scritti appena pubblicata.

Il libro è stato pubblicato forzando le resistenze dello scrittore, che non considera gli scritti contenuti in quella raccolta come le sue cose migliori.

Ma l’indifferenza di Felice lo ferisce crudelmente:

La delusione però non deriva dal giudizio negativo, che intuisce, ma dal fatto che nella lettera di Felice non v’è un cenno all’opera

“(..)Un tuo giudizio incerto mi sarebbe sembrato ovvio. Tu invece non hai detto niente, hai solo annunciato che avresti detto qualcosa, ma non lo hai fatto”.

Anche in questa lettera c’è un messaggio chiarissimo: se non ti piace il mio aspetto fisico, (v. il riferimento alla foto), non me ne importa nulla, perché non è sul mio aspetto che faccio affidamento per essere amato. Ma se non mi prendi in considerazione seriamente come scrittore, fino al punto che ritieni superfluo dirmi se un mio scritto ti piace o no, dai prova di insensibilità e mi costringi a mettere in dubbio il tuo amore per me.

Altre lettere sono interessanti per capire come il procedere nella stesura delle sue opere sia per Kafka un percorso assolutamente accidentato, con continui passaggi dall’estasi degli stati di grazia alla disperazione dei momenti di stanca.

In una lettera scritta nella notte dell’Epifania del 1913, paragona l’ispirazione ad un carro in grado di trasportare con leggerezza e velocità il peso del romanzo.

“Povera , povera cara, vorrei che tu non ti sentissi obbligata a leggere il misero romanzo che sto mettendo insieme tristemente. E’ terribile vedere come sappia modificare il suo aspetto; quando il peso ( con quale slancio sto scrivendo! Come volano le macchie d’inchiostro!) sta sopra il carro, mi sento bene, mi entusiasmo allo schiocco della frusta e sono un gran signore! Ma se mi cade giù dal carro(…) il peso sembra troppo greve per le mie povere spalle e allora preferirei piantare ogni cosa e scavarmi la fossa lì sul posto.”

G. Cusumano

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Recensioni del cuore

DOMENICA 1 GIUGNO 2008 PARTIRA’ IL CONCORSO “RECENSIONI DEL CUORE”
promosso dal blog ( “figlio” della CONOSCENZA RENDE LIBERI ) IL MESTIERE DI LEGGERE

librilatpiccIl concorso e il bando verranno presentati alle ore 18,00 di Domenica 1 giugno presso EDISON BOOKSTORE AREZZO , partner dell’iniziativa insieme alla Casa Editrice Prometheus di Milano


Vi chiediamo di partecipare anche con poche righe raccontandoci di un libro che è rimasto nel cuore, nella mente.

Un libro che vi ha seguito nel corso della vostra vita.

La commissione composta da amanti della lettura, come amano definirsi e che nella vita di tutti i giorni svolgono la professione di docenti di scuola superiore, è al completo.


Prof. ANGELA PECORARO

Prof. FRANCO CIOCCA

Prof. ALESSANDRO TEMPI

A partire dal 1 giugno e fino a tutto il 31 agosto 2008 le recensioni possono essere inviate a recensioni@laconoscenzarendeliberi.it

Affilate le penne……..

“Caro Proust, perdonatemi se Vi ho stroncato” Firmato Gide.


Nel 1912 Marcel Proust scrive all’editore Gaston Gallimard proponendogli la pubblicazione di una parte della Recherche, che a quel tempo non aveva ancora terminato.

Il manoscritto viene affidato ad Andrè Gide. condirettore della prestigiosa rivista che era il fiore all’occhiello della casa editrice, la “Nouvelle Revue Francaise”.

Gide aveva conosciuto Proust circa vent’anni prima, a casa di Gabriel Trarieux, poeta simbolista.

Lo aveva classificato subito come uno snob. Negli anni successivi, leggendo i suoi articoli su “Le Figaro”, aveva continuato a pensare a lui come ad un mondano dilettante, come ad un letterato di piccolo cabotaggio, di quelli che lo stesso Proust anni dopo avrebbe collocato nel salotto della sua Madame Verdurin.

E’ partendo da questo radicato pregiudizio che Andrè Gide affronta il compito di valutare il manoscritto di Proust.

Che respinge.

Con il risultato di costringere l’autore della Recherche a rivolgersi all’editore Bernard Grasset che accetta di pubblicare “Dalla parte di Swann” nel novembre del 1913.

Due mesi dopo la pubblicazione dl volume arriva a Proust una lettera di scuse di Gide che incomincia così:

Mio caro Proust

Da qualche giorno non lascio più il vostro libro; me ne sazio con diletto, mi ci sprofondo. Ahimè! Perchè deve essermi così doloroso amarlo tanto?..Aver rifiutato questo libro rimarrà il più grave errore della Nouvelle Revue Francaise e ( poichè ho la vergogna di esserne in gran parte responsabile) uno dei rimpianti, dei rimorsi più cocenti della mia vita.

Segue una aperta e quasi incredibile confessione delle modalità con le quali ha esaminato il manoscritto decidendo di scartarlo:

“Non avevo a disposizione che uno solo dei quaderni del vostro libro, che aprii con mano distratta, e la sfortuna volle che la mia attenzione cadesse subito nella tazza di camomilla di pag. 62, poi inciampasse a pag.64 nella frase ( la sola del libro che non so spiegarmi) in cui si parla di una fronte da cui traspaiono le vertebre”

La lettera si chiude con una supplica:

“Non me lo perdonerò mai- ed è soltanto per alleviare un poco il dolore che mi confesso a voi questa mattina- supplicandovi di essere più indulgente con me di quanto sia io stesso”

E’ noto poi come andarono le cose: la Nouvelle Revue Francaise, per il tramite di Gide, offrì a Proust di riscattare il primo volume da Grasset e di pubblicare i volumi successivi.

Da quel momento fino alla morte di Proust, avvenuta nel 1922, tra i due scrittori si intreccia un carteggio di grande intensità, pieno di riflessioni sulla vita e sulla scrittura.

Se ne può prendere visione leggendo il volume “Marcel Proust- Lettere a Andrè Gide” ( casa editrice SE- tascabili classici).

La cosa più interessante del volume è l’appendice che contiene un articolo di Gide apparso nel 1921 sulla Nouvelle Revue.

Ormai definitivamente conquistato dalla Recherche, Gide si lancia in un commento molto impegnativo: nessuno scrittore come lui, dice, ci ha arricchito.

Segue un’immagine che ci descrive meglio di ogni altra la grandezza di Proust.

Leggere Proust, ci spiega Gide, è come, quando si ha la vista debole e si ricevono finalmente in dono degli occhiali.

“Cominciamo a percepire improvvisamente il particolare dove fino a quel momento ci appariva soltanto una massa [….]. Proust è uno il cui sguardo è infinitamente più sottile e più attento del nostro, è uno che ci presta questo sguardo per tutto il tempo che lo leggiamo. […] Grazie a lui noi immaginiamo di avere sperimentato noi stessi quel particolare, lo riconosciamo, lo adottiamo ed è il nostro personale passato che una simile abbondanza viene ad arricchire.

I libri di Proust, conclude Gide, agiscono come le sostanze che si versano su “quelle lastre fotografiche semivelate che sono i nostri ricordi”,facendone emergere poco alla volta volti, sorrisi, ricordi che “il tempo aveva trascinato con sè nell’oblio”.

La lettura di quest’articolo, con il suo tono di autorevole e definitiva consacrazione, arriva a Proust come “un bellissimo regalo di Natale fatto ad un bambino ( “sia pure molto vecchio”) o come “un miracoloso uovo di pasqua”.

Ogni frase -scrive Proust a Gide-è stata per me un incanto[…]. Ad ogni riga, mi dicevo: “Non è possibile che mi sia riservato qualcosa di stupendo”. Ma alla riga successiva il mago mi riportava un nuovo dono, e in quale forma! la più bella, la più sapiente, la più naturale che io conosca“.

Archeologia di frontiera, recensione a “Roma il primo giorno”

ARCHEOLOGIA DI FRONTIERA

Andrea Carandini,

Roma il primo giorno,

Editori Laterza 2007

Quanto riportano cronache fantastiche (che talvolta lo sono solo in apparenza o solo in parte) è spesso il trampolino di lancio dell’archeologo di frontiera, di colui che ritiene più degne di fede per la propria ricerca le testimonianze tramandate dai classici, benché in forma narrativa e talvolta impropria, che le conclusioni spesso presuntuose della scienza positivista.

Quante volte infatti si sente dire, a cominciare dai banchi di scuola, che le testimonianze annalistiche e letterarie degli antichi romani non sono del tutto attendibili, nel migliore dei casi, ammettendo cioè un margine di dubbio, o che sono tutte favole, nel peggiore dei casi, con una prosopopea a dir poco risibile.

Favola la vicenda di Romolo, favola la fondazione dell’Urbe, favola la data di fondazione, favola tutto ciò che non è riconducibile ad un metodo di verifica che avrebbe bisogno in realtà di essere verificato, perché troppe volte ormai ha mostrato la corda (in quanto sillogisticamente fondato su ipotesi illegittimamente tramutatesi in dogmi di verità).

Andrea Carandini, archeologo che da più di vent’anni scava nel centro primordiale di Roma (Palatino e dintorni), ha le idee chiare in proposito, con una saggezza che gli deriva dall’essere non solo uno studioso ma anche un faber, un uomo che fa, che agisce, che cerca, che scava appunto:

“Non sono certo un portatore di verità assolute – sempre irraggiungibili – ma pongo problemi e avanzo soluzioni, cioè ipotesi più o meno probabili, i cui risultati sono provvisori, esito dello sforzo di sintesi che oggi sono in grado di fare” (p. 7).

Questo per il metodo d’indagine. E per quanto riguarda l’atteggiamento culturale e mentale Carandini offre una solida garanzia di intelligente competenza:

“(…) i primi Romani credevano fermamente nei loro dèi e nei rituali con cui li veneravano. Il diritto, la politica e lo Stato – in quel tempo alla loro prima apparizione – erano avvolti ancora in una placenta sacrale; religione, morale e politica non erano ancora campi separati della vita e della cultura, ma realtà mentali interconnesse. Lo storico saggio, oltre che laico, non laicizza un passato impregnato di sacralità (…)” (p. 8).

Non passi inosservata quest’ultima affermazione, che è bene ripetere e perfino stampare in grassetto: lo storico saggio non laicizza un passato impregnato di sacralità.

La storiografia moderna infatti si è impegnata accanitamente a contraddire questo principio, che dovrebbe essere invece normale e addirittura ovvio, applicando valutazioni e opinioni contemporanee, cioè completamente desacralizzate, a uomini di un lontano passato che tali visioni non avevano e non potevano avere.

Rispetto alla corposa bibliografia di Carandini (ricordiamo Remo e Romolo; La nascita di Roma; Archeologia del mito; Palatino, Velia e Sacra via; Cercando Quirino) questo libro ne rappresenta una sorta di introduzione per chi voglia addentrarsi nel mistero delle origini di Roma e contemporaneamente una sintesi dei risultati finora ottenuti. È un libretto molto ben fatto in cui l’esposizione si esemplifica con planimetrie, illustrazioni, disegni ricostruttivi di come poteva essere l’Urbe primordiale, fonti letterarie romane e greche.

Nella ricostruzione di Carandini, avvalorata dalle sue scoperte archeologiche, Roma sorge per volontà di un rex augur (Romolo) in luoghi già abitati e già organizzati in comunità politico-sacrale, il Septimontium della tradizione varroniana, il giorno della festa dei Parilia (21 aprile) e in un’epoca che non si discosta da quella della tradizione annalistica (753 a.C.).

“Se esisteva prima di Roma un centro proto-urbano grande quasi quanto l’abitato cittadino della prima Roma, cosa avrebbe fatto di originale Romolo nel fondare la città? (…) Romolo voleva invece fondare una città sul Palatino, proprio nel cuore del centro proto-urbano, scelta innovatrice, dal momento che implicava la conquista e la trasformazione sacrale e giuridica del centro simbolico del Septimontium comprendente due montes: il Palatium e il Cermalus” (p. 24 e p. 40).

La fondazione non si esaurisce nell’atto materiale della posa delle fondamenta del nuovo centro urbano, ma lo stesso rito di fondazione del pomerium, condotto secondo la disciplina etrusca, è simultaneamente atto sacro all’origine di una nuova comunità sociale, dove Latini, Sabini, Etruschi e le altre etnie italiche colà rappresentate, cessano di essere tali per divenire Romani, uniti e rinnovati nell’azione formatrice di una realtà con ben tre nomi a definirne il destino: politico (Roma), sacro (Flora), segreto (Amor).

Il viaggio a ritroso nel tempo condotto da Carandini ci riporta ad una primordialità magica latente in un paesaggio montuoso di boschi, di ombrosi lecci e di faggi, tra acque di palude e anse dove invece il fiume riposa in calmi meandri, dove i giunchi sono accarezzati da un vento lieve che non increspa l’acqua limpida, specchio tranquillo di salici e tamarici, fra sentieri di massi affioranti dalle acque e levigati da migliaia di flutti, guadi intitolati a divinità che là si sono manifestate, luoghi che a vederli diresti subito insieme a Ovidio: qui c’è un nume, ne senti il profumo nell’aria, profumo di Camene che giacciono discinte e nascoste tra la vegetazione, querce secolari e templi non ancora eretti in muratura, ma rustiche capanne inaugurate dal volo degli uccelli o dal bagliore dei fulmini, immagini aniconiche e non antropomorfe degli dèi: un’asta per Marte, l’ascia di pietra focaia, forse meteorica, per Giove Feretrio, il menhir per Terminus, il fuoco per Vesta.

È in un contesto di tal fatta che la comunità fondata da Romolo muove i suoi primi passi, nel primo giorno di Roma rievocato da Andrea Carandini.

Gli archeologi di frontiera talvolta sbagliano clamorosamente, ma talvolta intuiscono verità laddove nessuno scommetterebbe un fico, basti pensare a Schliemann e alla scoperta di Troia condotta con l’unico ausilio della poesia omerica. Nel recente passato italiano il veneziano Giacomo Boni, contro ogni saccente teorema della storiografia a lui contemporanea, scoprì il Lapis Niger nel Foro e il presunto mundus della Roma Quadrata sul Palatino, e cercò senza successo di individuare anche il luogo dove era nascosto il Palladio, uno dei pignora imperii di Roma, uno dei sette oggetti sacri cui si riteneva legato il destino di Roma (sacra fatalia).

Che fine hanno fatto i pignora? Mi sono sempre chiesto dove e quando siano spariti per esempio gli ancilia, i sacri scudi a forma di otto custoditi dai Salii: trafugati durante le scorrerie delle invasioni barbariche? fusi da inconsapevoli artigiani medievali per altre prosaiche necessità con altro materiale di bronzo? sepolti da qualche parte sul Palatino dove sorgeva la Curia Saliorum o nel Foro, in prossimità della Regia dove c’era il sacrario di Marte? Sembra una faccenda alla Indiana Jones e potrebbe diventare un accattivante spunto narrativo.

Soltanto sei mesi fa gli scavi condotti all’interno del Palatino hanno rivelato un ninfeo di epoca augustea probabilmente edificato proprio là dove si apriva l’originario Lupercal (la grotta della Lupa che allattò Romolo e Remo) e in tal senso la stampa ha riportato entusiasticamente la notizia della scoperta epocale, benché la coincidenza logistica sia ancora allo stato di verifica.

C’è infatti ancora molto da scavare e da riscoprire. C’è ancora molto da ricordare. Ci vorrebbero più archeologi e più storici coraggiosi come Carandini. Chissà che un giorno non saltino fuori anche gli ancilia e gli altri sacra fatalia, finalmente non più leggendari talismani ma a tutti gli effetti RE ROMANIS RESTITVTA.

Mauro Del Bianco

L’ingegnere in blu

“Immancabilmente in abito completo blu ben stirato, camicia bianca e cravatte deplorevoli acquistate ( forse da lui solo) in un sonnolento magazzino giù per via della Mercede, e un fazzolettino candido ad angolo retto nel taschino. Scarpe ovviamente nere e lucidatissime”

Così ci viene descritto Carlo Emilio Gadda nel bellissimo libro che Alberto Arbasino gli ha dedicato, “L’ingegnere in blu”

Sono gli anni ‘50, Roma è ancora la città più bella del mondo e Gadda ha finalmente trovato lì il suo habitat naturale.

Assunto dalla Rai per i servizi di cultura del Terzo programma radiofonico, entra in contatto con tutti i personaggi dell’ambiente letterario della capitale.

Non ha ancora pubblicato Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, il libro formidabile con il quale, lui così compassato e timido, irromperà nella letteratura della seconda metà del Novecento diventandone assoluto protagonista.

Nei circoli letterari gli preferiscono Moravia, Landolfi, Brancati, Commisso e Soldati. Il Corriere della Sera non pubblica i suoi elzeviri.

Consapevole del suo valore, Gadda non può che dispiacersi di questa evidente sottovalutazione del suo talento.

Ma all’improvviso, senza che egli abbia in alcun modo cercato o fors’anche pensato di “autopromuoversi” ( come si direbbe oggi e certo non si usava dire allora) un gruppo di giovani letterati prende a considerarlo come un maestro.

Così scrive Arbasino:

“Carlo Emilio Gadda aveva più di sessant’anni, scriveva da più di trenta, e non aveva ancora pubblicato in volume il Pasticciaccio[…] quando i ventenni degli anni Cinquanta scoprirono la sua posizione ‘centrale’ nella nostra letteratura contemporanea.

E sull’entusiasmo per la stupenda Adalgisa, per le mirabili Novelle del Ducato in fiamme, lo dichiararono massimo autore italiano del mezzo secolo, con immenso dispetto di tutti gli altri”.

Gadda non lo dà a vedere, ma è felice di questa considerazione.

Per moltissimi anni è stato considerato semplicemente un outsider, un eccentrico arrivato tardi alla letteratura.

A questa fama di dilettante ha contribuito non tanto la sporadicità delle sue pubblicazioni, quanto il suo titolo di ingegnere : laurea presa non per vocazione , ma per necessità di sostentamento della famiglia d’origine (media borghesia travolta dalla crisi economica del primo dopoguerra) ed esercitata solo per pochi anni.

Arbasino commenta: “Come se il caso Svevo non insegnasse mai nulla”.

E in effetti è singolare, ma i due narratori più dotati del nostro Novecento, Svevo e Gadda, sono due outsider: il primo fa l’industriale ( e ancora oggi se entrate da un feramenta trovate le vernici “Veneziani” prodotte dalla fabbrica del suocero di cui Svevo era uno dei dirigenti) il secondo è ingegnere.

Il libro di Arbasino ci porta in un mondo favoloso che non esiste più, anche se resistono i suoi templi: il mondo dei circoli letterari romani degli anni Cinquanta, quello che gravitava intorno al Caffè Rosati e al ristorante il Bolognese di Piazza del Popolo, che frequentava i tè domenicali di Emilio Cecchi e di sua moglie Leonetta Pieraccini, che si attavolava in Trastevere nelle sere d’estate.

Un mondo di cui fanno parte una serie di personaggi mitici come Alberto Moravia, Elsa Morante ( che l’ingegnere chiama ‘ Elsina’), Attilio Bertolucci, Guttuso, Piovene, Bassani ( “il primo paltò di cammello della letteratura del dopoguerra”) Pasolini ( “che doveva scappare prima del dolce perchè sennò i ragazzini non lo aspettavano”), Parise.

Un mondo in cui ai letterati famosi si affiancano presto i cinematografari (Antognoni, Fellini, Visconti) ed uno dei principi della scrittura cinematografica, quell’Ennio Flaiano implacabile nell’appioppare soprannomi a destra e a manca: l’ Incantatore di Sergenti, Pancia Competente, l’Antico Tastamento, il Dandy Cariato, il Latrin Lover, il Giardino dei Finti- Pompini.

Ma più che nella rievocazione dei piccoli aneddoti e delle folgoranti battute, il libro è godibile nel riferire i giudizi precisi e a volte taglienti di Gadda sui colleghi, soprattutto sui grandi della letteratura italiana.

Tra i più ammirati dall’Ingegnere Don Lisander ( come era solito chiamare Alessandro Manzoni), ma quello de “I promessi sposi”, non quello enfatico del 5 maggio o degli Inni sacri.

“Se un Dio estetico mi domandasse in quale personaggio de I promesssi sposi vorrei identificarmi, risponderei subito: Don Abbondio!… per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d’aver paura, per la confessione che fa a se stesso della sua reale condizione umana. E’ quello che vede più chiara la sua posizione…vera mancanza di spirito esibitivo, narcisistico, gratuito, il più vicino alla mia mancanza di teatralità, di messa in scena”.

Ugo Foscolo?Uno dei personaggi meno accattivanti della Letteratura Italiana” Gadda si diverte a chiamarlo il Basetta, a dargi dello scimpanzè, del roditore, gli attribuisce scaltrezza, teatralità, opportunismo, ne deride l’enfasi, ne bolla gli errori marchiani, lo definisce, insieme con il Carducci, “il più grande strafalcionista del lirismo italiano ottocentesco”

Giovanni Pascoli? Apprezzabile dal punto di vista estetico il suo sforzo per rinnovare il linguaggio della poesia, encomiabile, sul piano etico il suo avvicinarsi alle sofferenze degli umili. Ma quanto infantilismo c’è in questo vecchio signore che passa la vita tra cupi giochi bambineschi con le ormai avvizzite sorelle, tra ridicoli vezzeggiativi e assurde gelosie! Quanta infantile scioccaggine nel suo tentativo di tradurre in poetiche onomatopee il verso degli uccelli!

D’Annunzio? Esibizionista, narciso, retorico e falso quando evoca il suo Abruzzo. Dubbi anche sul suo profilo eroico. Scherno sulla sua fama di iettatore ” I soldati non lo nominavano mai nelle loro canzoni e al sentirlo nominare si toccavano le stellette. Del resto amava circondarsi di decori funebri, di sarcofaghi, di lampade votive…”

Un libro imperdibile.

Filippo Cusumano

Le carte dell’inglese

ITINERA PICTA: ANGOLA

La mappa del tesoro di Ruy Duarte de Carvalho, Le carte dell’inglese,

La Nuova Frontiera, Roma 2007

Angola, terra africana che evoca alla memoria corta lutti e massacri dovuti ad una crudele guerra coloniale e ad una efferatissima guerra civile, ma che la memoria lunga conosce invece come terra di mistero e di avventura, quando il dominio effettivo dei portoghesi era limitato alla costa e da São Paulo de Luanda e da Cassengue partivano incontro al ruggito dell’ignoto le spedizioni di esploratori e pombeiros diretti al mitico regno del Kazembe e agli avamposti mozambicani di Tete e di Sena, quando il Mozambico si chiamava ancora Rios de Sena, tagliando in due l’Africa Australe lungo sentieri aperti nella savana a colpi di catana, piste che chiamare strade era allora usuale, per quanto oggi appaia di un’inadeguatezza commovente, prima che Cecil Rhodes e gli inglesi si impadronissero dei regni africani dell’interno protetti dallo spazio incalcolabile e fondassero la Rhodesia.

Angola, terra di tesori, di ineffabili rovine archeologiche, di regine orgogliose, come la leggendaria Ginga Bandi, di genti bellicose, Jagas e Bailundos, che procacciavano schiavi ai portoghesi per le piantagioni del Brasile, di savane foreste e deserti, di fauna africana al gran completo, patrimoni d’avorio e di pelli maculate che attirarono cacciatori e bracconieri, di miniere di diamanti e oro che sedussero sognatori e furfanti.

Alla confluenza del Cuando e del suo affluente Lomba, presso la frontiera rhodesiana (oggi confine con lo Zambia), un triangolo di terra chiamato dagli inglesi criminal corner, poiché là si rifugiavano tipi poco raccomandabili, e dal capitano Galvão la fine del mondo, è lo scenario di solitudine dove si conclude, negli anni ’20 del XX secolo, l’amara e sanguinosa esistenza di un inglese le cui carte passate di mano in mano, mani bianche e mani nere, spingono alla ricerca un antropologo autore di una storia in forma epistolare, destinata ad una misteriosa destinataria:

“e se (…) invece di propormi di scrivere per qualcuno, per molti qualcuno, mi limitassi, semplicemente e con grande umiltà, a scrivere a qualcuno? Cosa è necessario in fondo per scrivere, se non credere che ne vale la pena perché c’è un destinatario?” (p. 24).

L’autore, Ruy Duarte de Carvalho, è un angolano bianco. Nel 1975, dopo tre lustri di guerra coloniale, il nuovo governo portoghese insediato a Lisbona dalla Rivoluzione dei Garofani negoziò con i movimenti di guerriglia l’indipendenza dell’Angola e del Mozambico e il ritiro delle truppe. Quasi tutti i portoghesi e gli altri bianchi residenti abbandonarono l’Africa, non senza traumi e ribellioni al trattato che venne percepito come un tradimento da parte della madrepatria. In Angola, contrariamente all’esodo massiccio dei coloni provocato dal timore di ritorsioni e della perdita dei beni (dei tre movimenti indipendentisti: MPLA, FNLA, UNITA, aveva vinto quello di ideologia marxista, l’MPLA di Agostinho Neto, sostenuto da sovietici e cubani), qualcuno decise di rimanere per credere nella speranza di una nuova patria comune o nell’utopia di una democrazia popolare, o per quel mal d’Africa che ormai gli era entrato nel sangue e nell’anima. Così fu per Ruy Duarte de Carvalho, benchè fosse nato in Portogallo nel 1941 e si fosse trasferito con la famiglia in Angola quando era bambino. Oggi Ruy Duarte de Carvalho, che da allevatore e agronomo è diventato antropologo, poeta e regista cinematografico, è uno dei maggiori scrittori di lingua portoghese.

Os Papéis do Inglés è stato pubblicato nel 2000 ed è una delle poche opere di narrativa dell’Autore, che ha all’attivo piuttosto una notevole produzione poetica e saggistica. Lo stile è particolare, poroso come lo definisce Livia Apa, nel senso che fonda un’osmosi di linguaggi: poetico, narrativo, saggistico, cinematografico, e un’osmosi di contesti, temi e diegesi, in una:

“(…) volenterosa intenzione di esplorare contiguità che mi sembravano interessanti ed evidenti, tra questa storia – e il modo in cui era trattato il protagonista – e la mia stessa ricerca delle carte dell’Inglese e di mio padre. Un intreccio unico, cioè, che si sviluppava attraverso vari leit-motifs, compreso quello dei tesori” (p. 126).

Il fascino avventuroso di questo romanzo, che non scivola nel pur facile esotismo e manierismo, è infatti la confluenza di personaggi, accadimenti e tempi diversi che non hanno un legame diretto con la storia principale, ma contribuiscono a formarla, non per sottrazione, come di solito avviene in letteratura, ma per addizione, secondo un percorso che sembra tracciato dal destino:

“(…) tutti questi materiali mi sono venuti incontro, non sono stato io a cercarli” (p. 145).

S’innestano così la storia del capitano Henrique Galvão, che nel gennaio del 1961 compie un clamoroso e piratesco gesto di protesta nei confronti della dittatura salazarista assaltando in alto mare il transatlantico Santa Maria della Compagnia Coloniale di Navigazione; la storia del falsario Artur Virgilio Alves (dos) Reis, che nel 1924 ottenne con l’inganno la stampa di migliaia di autentiche banconote da 500 escudos, personaggio la cui stoffa per il falso e la finzione impressionò perfino Fernando Pessoa e fa dire all’Autore: “Mi sembra solo strano che Hollywood non abbia mai, che io sappia, preso spunto da questa storia favolosa” (p. 59), (forse Hollywood no, ma la RAI sì, qualcuno ricorderà infatti Accadde a Lisbona, sceneggiato in tre puntate girato nel 1974 da Daniele D’Anza su una sceneggiatura di Luigi Linari, con un gigantesco Paolo Stoppa nei panni di Reis); resoconti, più o meno fantasiosi, di viaggi di marinai inglesi del XVII secolo; leggende di tesori di re egiziani, di cercatori d’oro brasiliani sull’altopiano di Huambo, del re zulu matebele Lobengula; le rovine di città perdute; perfino una casa in Baker Street, non lontana da quella di Sherlock Holmes; le citazioni letterarie e l’Africa di Conrad, Céline, Hemingway; le tradizioni sociali e magiche delle etnie africane; le riflessioni sull’Angola contemporanea, sui retornados, sugli errori del passato e le viltà del presente, sulle illusioni, su ciò che è importante nella vita, che la rende degna di essere vissuta: la ricerca di un tesoro, del tesoro che nascondiamo nel cuore.

La sollecitudine di Ruy Duarte de Carvalho per l’Africa e per l’Angola è un affetto vero, è tentativo di capire, cercare, sapere e non di spiegare, che in fin dei conti vuol dire determinare, cioè limitare. L’Autore si considera infatti proveniente de um tempo circular liberto de estações, “da un tempo circolare libero da recinzioni” (Venho de um sul, da A decisão da idade, 1976, trad. Adelina Aletti), che è la dimensione temporale della ricerca, dove tutto si ripresenta ogni volta soffuso di nuova luce, per fondare nuovi viaggi, nuove promesse, nuove scoperte.

La storia narrata da Ruy Duarte de Carvalho sarebbe piaciuta molto a Hugo Pratt. Chissà quali magnifiche tavole avrebbe disegnato.

Mauro Del Bianco

Marino Magliani,Quella notte a Dolcedo

MARTEDI’ 20 MAGGIO 2008 -ore 21,00- presso la libreria ( piazza Risorgimento, 31 Arezzo )
presentano

MARINO MAGLIANI ,QUELLA NOTTE A DOLCEDO
Longanesi ,Pagine 264 , Anno 2008

dolcedo C’è una nostalgia che impedisce di vivere e un’altra che spinge a tornare. Hans Lotle, soldato tedesco che ha combattuto la guerra in Liguria, le conosce entrambe. Ma da Berlino Est non è semplice tornare nei luoghi dove, una notte d’estate del 1944, è avvenuta una strage. Tutto era accaduto in fretta: urla, spari, granate in un fosso dove era nascosta un’intera famiglia. Chi li aveva traditi, e perché? Lì, tra i rovi, Hans aveva intravisto lo sguardo terrorizzato di una bambina. E non aveva mai più dimenticato. In Germania intanto qualcuno lo controlla. È un ufficiale della DDR che lo fa seguire fino a dopo la caduta del Muro. È per qualche conto lasciato in sospeso dalla guerra? O si tratta di motivi personali? Ora lui è riuscito a tornare a Dolcedo: potrebbe far luce su quell’episodio tragico, o potrebbe farlo Lori, una giovane donna un po’ sbandata legata a filo doppio alla verità che lui sta cercando. Piano piano, però, il paesaggio lo rapisce con i suoi odori e i suoi ulivi, tanto che la sua ricerca alla fine diventa altro: un modo di continuare a sfuggire alla vita, anche. E come i mammut che qui venivano a morire, Hans finirebbe dimenticato da tutti se da Berlino qualcuno non lo venisse a cercare con una sorprendente proposta.L’intervista a Marino Magliani per Il nostro blog “Caffe della conoscenza rende liberi “, rilasciata ad Andrea B.Nardi.

un brano dell’intervista:

Quando hai cominciato a scrivere questa storia?

Alla fine degli anni 80. Quella del veterano tedesco che torna in Liguria è sicuramente uno dei primi personaggi che ho incontrato camminando sulla spiaggia di IJmuiden, dove vivo da vent’anni ormai.

Inizialmente era un cittadino della Germania Ovest, ma poi mi sono reso conto che non reggeva. Un cittadino libero di lasciare la sua terra, com’era uno della Germania Ovest, non avrebbe mai aspettato più di 40 anni prima di tornare sul campo di battaglia a cercare di capire, di spartire una colpa.

Così un giorno, sulla spiaggia di IJmuiden, al fondo – si tratta di una spiaggia lunga chilometri – incontrai un vecchio. Mi aspettava, disse, era il personaggio Hans Lotle. Aveva fatto anch’egli la guerra in Liguria, ma era di Berlino Est, per questo durante tutto questo tempo non era potuto tornare.

Se fosse stata una grande colpa di cui liberarsi, il bisogno di indagine non avrebbe portato il veterano Lotle a tentare lo stesso di scappare da Berlino per tornare in Liguria?

Certamente, l’avrebbe fatto, ma avrebbe lasciato sua madre di là e qui c’è un torrente che scorre sotterraneo accanto all’indagine, un corso alimentato dal rapporto con sua madre, che giustifica il fatto per cui non sia mai potuto tornare se non quando sua madre é morta.

segue sul Caffe della conoscenza rende liberi