MOSAICO LUSITANO

MOSAICO LUSITANO

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Francisco José Viegas, Lontano da Manaus, La Nuova Frontiera, Roma 2007

Ecco una cosa da imparare, amare un libro a partire dai risguardi iniziali, le pagine bianche tra la copertina, il frontespizio e l’inizio vero e proprio del romanzo, questo spazio libero che è sospensione, ingresso, attesa, pagine bianche da sfogliare con cura per scoprirvi tracce, contrassegni, una citazione, un pensiero. Come in questo caso, il primo che si incontra, a fondo pagina:

Il romanzo giallo, come si sa, ha le sue regole.

Questo no.

Trattasi dunque di romanzo giallo, che non rispetta tuttavia le regole del giallo propriamente detto. Quindi si servirà della struttura del giallo e del noir (polizia, cadaveri, indagini, delitti, eccetera) per parlare d’altro. Bella frase, lapidaria, laconica, apodittica, e anche un po’ scanzonata, come dire: sì, lo so che il giallo ha le sue regole, ma a me cosa importa? Questo libro non le rispetta, ecco tutto.

Altra pagina, altro pensiero, questa volta centrato:

Per un portoghese è più semplice armare una nave per il Brasile che andare a cavallo da Lisbona a Porto (da James Murphy, Travels in Portugal, 1795).

Stupenda. Ci vorrebbe un trattato per spiegare il sentimento lusitano del viaggio e della ricerca, qualcuno ci ha provato, per articolare in tutte le sue sfumature e quindi tentare di capire l’emozione atlantica che ha spinto questa gente sul mare, quando il mare era semplicemente l’ignoto, e l’oceano ineffabile.

Proverò a spiegarmi con una visione, un racconto, forse una favola:

Erano tante le albe attese nell’attesa. Stavano lì a guardare il mare, su una striscia di terra troppo stretta per arginare tutti i loro sogni. Sul margine della terra conosciuta stavano, l’ultima spiaggia del mondo, l’ultimo lembo che si colora di tramonto e oltre il tramonto non era consentito chiedere, non era morale sapere, non era cristiano credere.

Se avessero avuto sangue di conquistatori, avrebbero voltato le spalle alla languida carezza di quell’illusione liquida, e sarebbero tracimati su regni, imperi, califfati, signorie, castelli, cattedrali, città, foreste, montagne, fiumi, praterie, raccolti, maggesi, piantagioni, che da secoli si perdevano a oriente, fin dove sorge il sole.

Non erano una razza di conquistatori, non avevano soldatesche e lance sufficienti, né cavalli né carri bastanti per dilagare come un’orda, ma soprattutto non possedevano la volontà del conquistatore, così ben sviluppata nei loro bellicosi vicini, e un’idea del mondo da esportare, che non fosse la loro triste e commovente nostalgia.

Non restava che il mare e l’orizzonte del mare, e il vento del mare, e l’infinito del mare, e l’illusione del mare, che era oceano.

Erano tante le albe spese in una qualche attesa. La loro irriducibile malinconia era un vago desiderio filtrato dalla memoria di un passato mai esistito. Una congettura di architetture lontane, di luoghi diversi, di tempi diversi, di una vita diversa, con retrogusto amaro di consapevole inadeguatezza ad afferrare qualunque chimera. E questo, questo soprattutto, bisogna capire per capacitarsi della loro inettitudine al dominio: nessun impero poteva allettarli, nessuna conquista era possibile senza che li assalisse l’inquietudine e il tedio per tutto ciò che appare esiguo ed imperfetto una volta conseguito. Solo la vita del marinaio era dolce per loro, la via del mare, scoprire nuove terre, e poi ripartire, e andare per il mare immenso, incognite distanze, e scoprire ancora nuove terre, e poi ripartire di nuovo, negli occhi un cielo di poetica vaghezza, solcando le onde senza mai raggiungere l’orizzonte, per inseguire un’attesa, un domani che non è ancora, e forse da qualche parte è già stato.

E furono molte le albe attese, finchè un pescatore tornò a riva e disse agli altri che stavano lì a guardare il mare, su una striscia di terra troppo stretta per arginare tutti i loro sogni:

– Ci sono delle isole a occidente.

Così cominciò la gloria delle genti lusitane. Così tutto ebbe inizio.

L’esplorazione portoghese toccò tutti i continenti: l’Africa, le coste dell’Africa erano disseminate di padrões (i cippi commemorativi delle scoperte, fregiati degli scudi araldici portoghesi e sormontati da una croce) dai lidi dell’attuale Marocco giù giù fino al fiume Congo, chiamato il Fiume del Grande Pilastro, per il notevole padrão piantato alla foce, giù ancora fino al Capo di Buona Speranza, e su su fino a Mogadiscio, sotto lo sguardo del gigante Adamastor, passando per il Madagascar e le isole Mascarene, e più su ancora fino all’Isola dell’Incenso (Socotra) e a Mascate, e poi l’Asia, sulle rotte della Carreira da India fino a Giava e alle isole delle spezie, e poi l’America, il paradiso-continente chiamato Brasile. Cosa resta oggi di questo immenso impero marittimo? Reliquie ormai archeologiche (le chiese barocche e le case in stile Algarve nei vecchi quartieri della città coloniali, la porta del bastione di Santiago della fortezza di Malacca, la sabbia blu dell’Ilha de Moçambique, colorata dai frammenti delle porcellane Ming che giacciono sul fondo del mare nel ventre delle navi affondate), nomi insospettati in contesti oggi insospettabili (Marocco, Casablanca: dal portoghese Casabranca; Isole Mascarene: da Pedro Mascarenhas, esploratore e capitano di Malacca; Madagascar: Diogo Soares, navigatore; pagoda) la lingua portoghese (Brasile, Capo Verde, São Tomé e Principe, Guinea-Bissau, Angola, Mozambico, Timor), quel sentimento così peculiare chiamato saudade che ovunque vibri la cadenza lusitana si esprime nella poesia e nella musica (fado di Lisbona e di Coimbra, modinhas azzorriane, bossa nova e samba brasiliani, morna capoverdiana).

Francisco José Viegas in Lontano da Manaus ricompone il mosaico del mondo lusitano, un azulejo dopo l’altro, con tessere non sempre perfettamente coincidenti, volutamente non collimanti per consentire interstizi, crepe, abissi di oblio, spazi vuoti dove pensare, immaginare, inventare. Si parte dalla città di Porto in un giorno di pioggia del maggio 2004, con il rinvenimento del cadavere di un uomo legato misteriosamente al Brasile e all’Angola, territori che verranno attraversati nel corso del romanzo: la bianca Copacabana di Rio de Janeiro e la sua riproduzione povera desiderata nella speculare falcata di Luanda (l’Angola come un Brasile africano nei sogni dei portoghesi del XX secolo), le strade caotiche di São Paulo e la torbida e soffocante Manaus amazzonica. Nel mosaico riemergono perfino i portoghesi del Nordafrica: “portoghesi di Tangeri, portoghesi del Marocco, portoghesi della fine del mondo, che sembra sia un posto inventato per i portoghesi” (notare l’elegante ironia del chiasmo).

Oltre ai luoghi e ai registri linguistici – le varianti del portoghese, in particolare quella brasiliana: “una lingua più sonora, piena di vocali aperte e di allegrie sconosciute” (Tradurre Lontano da Manaus, nota finale della traduttrice Roberta Fregonese) – anche i personaggi portano con sé un pezzo di Lusitania: José Corsário das Neves (mulatto capoverdiano) e la sua ragazza (angolana del Benguela), Daniela e Helena (brasiliane), Álvaro Severiano Furtado (portoghese combattente in Angola, poi brasiliano d’adozione), Isaltino de Jesus (un qualunque uomo portoghese, l’uomo che riesce ad entrare in tutti gli archivi, l’uomo del “sono d’accordo con lei, capo”) e soprattutto lui, il capo, l’ispettore Jaime da Fonseca Ramos, nato in un paese tra le montagne dove pascolano le vacche e dove la terra quando piove diventa fango, Jaime Ramos ispettore della Polizia Giudiziaria di Porto, cinquant’anni, quindici anni ancora alla pensione, già impiegato di banca, già sottotenente in Guinea durante le guerre coloniali, uno zio svanito in Brasile nel sogno tropicarioca, Jaime che non porta la cravatta e fuma sigari consumati tra le dita, ha una fidanzata, Rosa, di dodici anni più giovane, che fa la professoressa e abita nell’appartamento sopra il suo, Jaime da Fonseca Ramos, probabilmente Cancro (il mio compleanno è il mese prossimo, dice Ramos quando il calendario del romanzo segna la fine di maggio o i primi di giugno), il che spiegherebbe il suo essere biografo meticoloso (valenze da Vergine?), biografo maledetto (Saturno pesante?), biografo di persone senza storia per biografie che nessuno gli ha chiesto, e perciò fondamentalmente disincantato e malinconico, capace ogni volta di commuoversi al ricordo di quel giocatore del Porto, Fernando Pascoal das Neves detto Pavão, che morì con le braccia aperte in mezzo al campo al 13° minuto della 13a giornata di campionato nel dicembre 1973, tifoso appassionato, come si è capito, della squadra del Porto, e in particolare di alcune squadre epocali, con alcuni nomi noti anche alla storia del campionato italiano (Juary e Rui Barros), e in particolare di Teofilo Cubillas, il peruviano calcisticamente longevo che giocò nei mondiali ’70, ’78 e ’82 (si contano sulle dita delle mani i calciatori che hanno giocato 4 mondiali o che avevano le carte in regola per giocare ben 4 mondiali di fila, qualificazioni permettendo), Teofilo che lo guarda da un poster consumato dal tempo e dai traslochi, appiccicato alla parete dell’ufficio.

La trama? Be’, è costume e buona creanza non rivelare la trama di un giallo, benchè questo non sia propriamente un giallo classico, ed io, palombaro nell’oceano lusitano, ho tentato di riportare alla luce l’altra trama, quella fatta di atmosfere, di melodie, di nostalgie, la pioggia nordica che lacrima su Porto e la luce atlantica di Lisbona, l’azzurro del mare azzorriano e la tinta terra d’Africa, giallo/Guinea e rosso/Angola, gli inverni paulistani e gaúchos e la Rio tropicante, le spine del sertão e il sudore equatoriale, fado/bossa/morna, sparpagliamento di odori/rumori/colori, tattilismo immaginativo per sfiorare frammenti di un mondo dove mutarono Stati, governi, bandiere, storia e destini, dove anche oggi la vita è troppo spesso triste, magra e crudele, ma dove in fondo al cuore c’è sempre il sale di una nostalgia sofferta da un uomo che guarda il mare, seduto su una striscia di terra troppo stretta per arginare tutti i suoi sogni.

                                                                                                          Mauro Del Bianco

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